di Lorenzo Bernasconi - 30/06/2021

La dimensione profonda dell’immigrazione che l’Europa non capisce ma subisce

Fonte: Centro Machiavelli

La ministra Lamorgese, nel corso di un’audizione alla Camera, ha dichiarato con soddisfazione che nel 2020 sono stati effettuati 3.607 rimpatri di cittadini di Paesi terzi presenti illegalmente in Italia. Entusiasmo difficile da comprendere, a fronte di oltre 43.000 ingressi illegali nel medesimo periodo di riferimento (contando solo quanti siano stati intercettati dalle forze dell’ordine all’atto dello sbarco o nelle aree di confine terrestre; pertanto il numero effettivo è certamente maggiore). Ancor più inspiegabile appare il compiacimento della Ministra se consideriamo che, nei vari centri di accoglienza, sarebbero ospitati attualmente oltre 75.000 immigrati, da sommare a quella massa di disperati che vive più o meno allo sbando per le strade delle nostre città.

Va però detto che, se in Italia la titolare del Viminale non pare particolarmente consapevole della portata del problema, neppure l’UE nel suo complesso sembra brillare per lungimiranza in merito: l’Unione ha infatti deciso di puntare tutto su di un accordo per la redistribuzione degli immigrati, presentato come la panacea di tutti i mali ma impantanatosi immediatamente in un dibattito in cui non si riesce a trovare un punto d’equilibrio; la risposta europea al problema migratorio, spesso evocata ma mai definita nei dettagli, somiglia ormai un po’ troppo al Godot di Beckett.

Di fronte a un fenomeno demografico di portata epocale, che ha origine in Africa e in Asia, ma i cui effetti si ripercuotono a livello globale, l’Unione Europea si perde in dibattiti infiniti e inconcludenti su meccanismi che potrebbero tuttalpiù, qualora entrassero pienamente a regime, consentire una gestione accettabile di qualche centinaio o migliaio di immigrati, a fronte delle decine di milioni di persone pronte a sfondare le porte d’Europa, più che a bussarvi. L’incapacità della politica europea di fare i conti con la realtà dell’immigrazione di massa appare ormai in tutta la sua drammatica evidenza: sarebbe facile derubricare questo scollamento tra realtà e politica a mero sintomo di una grave inadeguatezza della classe dirigente, e spesso lo si fa, ma la radice del problema è, a mio avviso, molto più profonda.

L’esplosione demografica dei Paesi in via di sviluppo e la conseguente pressione migratoria, sull’Occidente in generale e sull’Europa in particolare, sono, per dirla con Schopenhauer, diretta emanazione della Wille, ossia sono inevitabile conseguenza di istinti e pulsioni biologiche fondamentali, quali l’istinto riproduttivo, il bisogno di soddisfare le necessità primarie e secondarie, la naturale propensione a ricercare territori maggiormente ricchi di risorse e ad occuparli senza troppi riguardi per le popolazioni autoctone. Si tratta di tendenze ampiamente riscontrabili nel mondo vegetale e in quello animale, e noi umani non facciamo eccezione, come la storia ha ampiamente dimostrato.

In questo senso ha ragione chi sostiene che migrare sia un fatto naturale per l’uomo; tuttavia, proprio dal medesimo nucleo fondamentale di istinti e pulsioni, è altrettanto naturale e non meno legittimo che, nelle popolazioni autoctone, si sviluppino meccanismi di resistenza e rigetto nei confronti di chi viene sostanzialmente a reclamare spazio e risorse che, non essendo illimitate, verranno inevitabilmente sottratti a qualcuno. Questi meccanismi di resistenza, in Europa, sono però stati demonizzati ed è stata loro negata ogni legittimità, espellendo dal discorso politico qualsiasi visione critica rispetto al dogma del “dovere dell’accoglienza”, etichettandola a priori come inumana e inaccettabile.

Dietro a una simile scelta ideologica si cela a mio avviso anche un problema epistemologico: la natura essenzialmente pre-razionale, potentemente biologica del fenomeno migratorio (e, specularmente, dei fenomeni di rigetto dello stesso) lo rende poco comprensibile per la politica e l’intellighenzia europee, abituate a interpretare il mondo da un punto di vista concettuale, “scientifico”, tipico appunto di noi europei dai filosofi greci in qua e che è alla base del nostro straordinario progresso tecnologico; ma che, pur avendo dimostrato un immenso potenziale in molti ambiti, si è spesso rivelato inadeguato alla comprensione delle vicende umane. Nel processo di astrazione o concettualizzazione, infatti, ciò che non è né quantificabile né razionalizzabile viene necessariamente ignorato; ciò ad esempio spiega perché anche il più devoto degli innamorati non sappia dare ragione, su un piano meramente razionale, del perché egli ami proprio quella donna e non un’altra. Come l’amore, esistono molti altri fenomeni che, per la loro stessa natura, non si prestano a una piena comprensione su di un piano meramente concettuale, pur essendo assolutamente reali.

Va inoltre considerato che, nel circolo ermeneutico che si crea quando cerchiamo di interpretare non eventi naturali, ma vicissitudini umane, oltre alle nostre precognizioni entra prepotentemente in gioco il nostro vissuto emotivo, il che rischia di portarci a forgiare gli “strumenti del pensiero”, ossia appunto i concetti, più in base al nostro universo interiore che sulla scorta di un’osservazione attenta del mondo, finendo così per costruire schemi che rispecchiano noi stessi anziché la realtà.

Ci si trova allora a parlare ossessivamente di “migranti”, parola infelice con cui si pretende di trasformare una fase transitoria – si è infatti migranti per qualche giorno, settimana o mese, mentre si è in viaggio, dopodiché occorrerebbe parlare di emigrati o immigrati – in una sorta di condizione esistenziale permanente venata di romanticismo e talmente ineffabile da sconfinare nel sacro; oppure ad abusare della parola “rifugiati” trasformandola in un’etichetta vuota e buona per tutti, che non dice nulla sulla storia, sull’identità, sui moventi delle persone cui viene appiccicata. Parole e concetti che non descrivono ma, anzi, occultano (pur non potendolo ovviamente cancellare sul piano della realtà) un universo di differenze e di contrasti tra popoli e individui che arrivano da percorsi e tradizioni totalmente diverse, spesso ostili e incompatibili tra loro, ma che si vorrebbero ridotti a una massa informe e omogenea, un’umanità appiattita sulla sola dimensione del “cercatore di rifugio”.

Un altro fattore che ha contribuito all’impasse in cui si trova oggi la politica europea sul tema dell’immigrazione risiede poi nella visione dell’uomo sottesa alla cultura dominante in Europa occidentale; mi riferisco a quell’antropologia di derivazione economica che riduce l’essere umano a consumatore edonista, dotato sì di razionalità, ma di una razionalità meramente strumentale all’incessante ricerca del miglior compromesso tra minimizzazione dei disagi e massimizzazione della propria capacità di consumo. Appare chiaro come, alla luce di questa concezione dell’umano, il problema dell’integrazione di un numero elevatissimo di immigrati extraeuropei sostanzialmente non sussista: date loro quattro spiccioli per sopravvivere, una smart tv e il concertone del primo maggio (panem et circenses, dicevano una volta), diventeranno tanti nuovi consumatori indistinguibili dalla massa di consumatori autoctoni.

Il punto è che l’uomo non è solo un consumatore: non lo è l’uomo europeo, per quanto decenni di indottrinamento mediatico e consumismo sfrenato possano averlo addomesticato, né tantomeno lo sono queste genti giunte da Paesi lontani. L’essere umano possiede un nucleo vitale fatto anche di ideali, di emozioni profonde, a volte laceranti, di amore e di odio, di conflitto, di istinto animale. È complesso, a volte imprevedibile, non può essere ridotto alla maschera di consumatore gaudente, una specie di ibrido tra l’homo oeconomicus di Mill e Homer Simpson.

Platone, nella Repubblica, fondò la propria visione della politica sull’idea che una classe di “illuminati” razionalisti, cui si accedeva per cooptazione, potesse e dovesse assumere il governo della polis per perseguire ideali di giustizia e di bene comune incomprensibili agli strati più bassi della popolazione, che avrebbero serenamente accettato questo stato di cose, subendo passivamente una governance non legittimata su base democratica e rimanendo mansueti nei limiti loro assegnati dall’élite. Non mi sembra, tutto sommato, una visone così diversa da quella che emerge dall’atteggiamento di molti leader europei, soprattutto di sinistra: il popolo, più che come un insieme di cittadini che detiene, collettivamente, la sovranità (vedi art.1 della Costituzione Italiana), è visto ormai come un gregge da guidare, volente o nolente, verso un destino su cui non ha voce in capitolo perché progettato a tavolino da un’élite “illuminata” che trae la propria legittimità da meccanismi di cooptazione e mutuo riconoscimento e non più sulla base di un consenso dal basso.

Platone, tuttavia, pagò in prima persona lo scotto di una visione ingenua dell’umano: partito alla volta della Sicilia per mettere in pratica le proprie teorie circa l’assetto istituzionale della città perfetta, scoprì che l’uomo non vive di sola razionalità e che la politica è anche conflitto e guerra; finì incarcerato e venduto come schiavo, per poi riguadagnare fortunosamente la libertà (e rivedere in parte le proprie convinzioni).

Purtroppo i tempi sono cambiati: oggi, il prezzo degli errori della classe dirigente europea finiremo per pagarlo tutti.