Chi scrive è sovranamente disinteressato ai campionati europei di calcio. Tifoso da tutta la vita, non riesce più ad appassionarsi a uno sport – o meglio a uno spettacolo - svolto ormai senza pubblico, per sole esigenze televisive. Il sistema televisivo e i suoi padroni pubblicitari pagano i suonatori e decidono la musica. L’unica arma rimasta è l’indifferenza, ovvero l’assenza. Per di più, è chiaro come il sole che le società dello sport professionale, in mano a fondi speculativi di mezzo mondo o a improbabili personaggi a cui nessuno affiderebbe le chiavi di casa, sono soprattutto veicoli privilegiati di evasione fiscale (estero su estero), dubbie fatturazioni e forse di riciclaggio di denaro. Oltretutto, i loro passivi mostruosi – che non impediscono lauti guadagni a una pletora di strane figure “professionali” – non portano, tranne pochi casi minori, al fallimento, ma alla richiesta impellente di altro denaro.

Dunque, nessun desiderio di assistere alle partite e alle interminabili discussioni sul nulla di mille trasmissioni: un’arma di distrazione di massa. Quest’anno c’è un motivo in più per ignorare le partite e non sottostare al ridicolo ricatto dei patrioti da rettangolo verde: la mania di inginocchiarsi per motivi politico-ideologici si è estesa al calcio e ha raggiunto, in parte, anche la rappresentativa italiana, per la quale è obbligatorio fare il tifo, come se la Patria avesse la forma di un pallone di cuoio.

La cultura della cancellazione, che l’autore di queste note definisce “volontà d’impotenza” dilaga ovunque. Dal maggio 2020, dopo la morte di George Floyd, è obbligatorio inginocchiarsi per affermare il più rigoroso antirazzismo. Gesti e simboli importano: trasmettono e comunicano idee. Inginocchiarsi è un atto profondo, di grande rilievo, che la tradizione di ogni civiltà riserva a ciò che davvero è importante. Uomini liberi, rivoluzionari e gente di ogni paese ha affermato che è meglio morire in piedi che vivere in ginocchio. Mettere le ginocchia a terra è qualcosa di molto grande, per quanto la nostra epoca non riesca neppure a percepire il significato simbolico di atti, comportamenti e parole. Tutto è banalizzato, manipolato, strumentalizzato spudoratamente in sintonia con la dittatura della cancellazione culturale e del politicamente corretto.



Ognuno di noi, in particolare in Italia, è in grado di elencare decine di problemi più reali, concreti e sentiti del forsennato (e obbligatorio!) antirazzismo di chi fa stare ginocchioni in omaggio a una visione del mondo che i destinatari neppure conoscono: moda, conformismo, timore di non essere dalla parte “giusta” della folla. Scriveva Seneca nelle Lettere a Lucilio “facile transitur ad plures”, è facile passare dalla parte che sembra la maggioranza. Prima del fischio d’inizio delle gare, è di gran moda inginocchiarsi a favore di telecamera per dimostrarsi immuni dal virus del razzismo. Rifiutano il gesto i turchi e le nazionali dell’Europa Centrale e Orientale, immuni dal virus dell’odio di sé. Il timore di essere considerati razzisti e xenofobi – orribile stigma civile post moderno- convincerà i più a inginocchiarsi, così, giusto a scanso di guai. E’ la libertà, bellezza, la libertà del mondo nuovo.

Chi si inginocchia passa istantaneamente nel campo luminoso dei buoni. Il movimento da cui prende origine, Black Lives Matter, le vite nere contano, originariamente estremista e non alieno alla violenza, si è trasformato in una sorta di accampamento mondiale dei “buoni” grazie alla sovresposizione mediatica di cui i campionati europei di calcio sono un elemento importante. Normalizzati, omologati, gli inginocchiati, alcuni con il pugno chiuso in alto, lo sappiano o meno, sono diventati marionette funzionali al sistema che pensano di combattere. Suprema vittoria del Dominio, che organizza il consenso e persino il dissenso.



Cinque calciatori italiani si sono inginocchiati prima della partita con il Galles, ulteriore conferma della doppiezza, elemento del carattere nazionale. Il presidente della federazione calcistica Gabriele Gravina ha emesso un lungo, ampolloso comunicato, in cui, dopo aver professato il più totale antirazzismo, ha rivendicato la libertà “concessa” ai componenti della squadra nazionale italiana. Lo spettacolo continua e, come sempre, più gente entra più bestie si vedono.

La politica, ovviamente, fa la sua parte per intorbidare le acque. Enrico Letta, capo del partito che meglio rappresenta le pulsioni antinazionali e- molto concretamente – gli interessi stranieri, vorrebbe che si inginocchiassero tutti gli azzurri. Gli ha dato manforte Claudio Marchisio, ex calciatore ora opinionista televisivo, remunerativo lavoro post moderno per pensionati dello sport agonistico.



Ciò che sembra sfuggire a i più (non certo agli inventori del gesto…) è che la genuflessione è un atto supremo di sottomissione e di umiliazione. Lo sappia chi si inginocchia e tenga conto che coloro dinanzi ai quali ci si inchina- nella fattispecie la cultura della cancellazione, il politicamente corretto, l’antirazzismo forsennato – lo considereranno per ciò che è: un gesto di resa, una prova di debolezza, il segnale di una sconfitta rassegnata. Almeno questo dovrebbe far riflettere gli sportivi agonistici. C’è di più: nelle culture che mantengono un rapporto con il trascendente, l’atteggiamento di inginocchiarsi è riservato alla relazione con Dio, un atto di rispetto, di adorazione, l’espressione visibile di chi si mette, con umiltà e speranza, nelle mani di ciò che è più grande di lui.

Perfino Gesù si inginocchiò, ma davanti al Padre (Luca, 22,41) in atto di venerazione e di supplica. Si prostrò anche l’apostolo Giovanni davanti all’apparizione di un angelo, che tuttavia non gli permise di rimanere genuflesso (Apocalisse 2, 8-9). Nella tradizione islamica, le preghiere si svolgono in ginocchio o addirittura prosternati con il volto a terra, ma si tratta di Dio. Gli uomini che hanno preteso da altri uomini il gesto servile di inginocchiarsi- re, imperatori, dittatori – lo hanno fatto sempre per segnalare l’inferiorità dell’altro.

Chi si inginocchia in ossequio a un’ideologia, come accade oggi, si sta prostrando dinanzi a falsi dei, che domani forse cadranno nella polvere e lasceranno il campo ad altre visioni della vita e del mondo. Costoro, sui campi di gioco come altrove, si inginocchino pure: a noi incombe di restare in piedi tra le rovine. Il nostro mondo è tanto decomposto da non vedere neppure più il panorama di rovine a cui si piega, né sa dire che cosa fossero, un tempo, quegli stessi detriti; neppure interessa, in tempi di dittatura del presente.



Manteniamo la speranza con le parole di Antoine Saint Exupéry: se un solo uomo sa vedere una cattedrale tra le pietre disperse, la partita non è chiusa. Sempre e comunque, in piedi. In ginocchio solo davanti all’Eterno.

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