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    Predefinito L'orientamento sessuale del terapeuta: in or out of the closet?

    L'orientamento sessuale dell'analista

    «Caro Ernst, abbiamo considerato la sua domanda concernente l'eventuale associazione di omosessuali, e non siamo d'accordo con lei. (…) Non possiamo escludere tali persone senza avere sufficienti ragioni d'altro tipo, così come non possiamo essere favorevoli a che siano perseguite dalla legge. Ci sembra che in simili casi una decisione dovrebbe dipendere da un esame accurato delle altre qualità del candidato» (Freud, 1921, cit. in Abelove 1985, p. 31; Bayer, 1981, p. 22)

    Chiarisco subito che non credo sia utile che un terapeuta "si presenti" con un'etichetta sessuale – gay o etero che sia. Come ogni altra self-disclosure, anche la decisione di tacere o comunicare il proprio orientamento sessuale è una scelta clinica ben precisa, di cui va pensato il senso e valutato l'impatto. Che cosa comporta il silenzio, e cosa la rivelazione? [vedi Nota 1 in fondo all'articolo] In quali dinamiche di transfert, controtransfert, alleanza terapeutica o relazione reale si inserisce la self-disclosure? E come si combinerà con il genere e l'orientamento (uomo, donna, etero, gay, lesbica, bisessuale, transessuale) sia del paziente sia del terapeuta?

    Tuttavia sarebbe ingenuo e poco realistico pensare che non vi siano segni, più o meno rivelatori, dell'identità del terapeuta: una fede al dito, un libro sulla scrivania, un quadro alla parete, l'intervento a un convegno, una presa di posizione pubblica, ecc. Tali segni, finché eterosessuali e eteronormati, sono stati poco o nulla stigmatizzati.

    Fino ai giorni nostri, l'eventualità di una disclosure della propria omosessualità non è mai stata presa in considerazione per un motivo molto semplice: si dava per scontato che l'analista fosse sempre eterosessuale. Nonostante la famosa lettera del 1921 di Freud a Ernst Jones, l'espressione "psicoanalista omosessuale", per lo meno nelle intenzioni normative della psicoanalisi, è sempre stata un ossimoro. Ecco la testimonianza di uno stimato membro dell'American Psychoanalytic Association che aveva iniziato il training psicoanalitico nel 1967:

    «Non si poteva essere gay e diventare psicoanalista (...) era possibile essere uno psicoanalista omosessuale in segreto – se si aveva un po' di fortuna, molta discrezione e un analista didatta che non lo raccontava all'Istituto. Ma non era possibile essere uno psicoanalista apertamente gay» (Roughton, 2002, p. 32).

    Paul Moor (1985, 1989), i cui interventi sono stati più volte pubblicati su Psicoterapia e Scienze Umane, racconta di come il suo analista Irving Bieber continuasse a rifiutarsi di riconoscere la sua omosessualità e, nonostante Moor continuasse a ripetergli che si sentiva attratto dai maschi, lo rassicurasse dicendogli che "doveva fidarsi": la sua eterosessualità, grazie all'analisi, sarebbe un giorno emersa (Moor, 2002).

    Non molto diverso, per tutto il Novecento, il panorama italiano (Capozzi & Lingiardi, 2003; Lingiardi & Luci, 2006). Negli ultimi vent'anni, però, una crescente letteratura di analisti gay e lesbiche, per lo più anglosassoni (tra i quali Corbett, 1993; Drescher, 1998; Hopcke, 1989; Isay, 1989, 1996; Leli, 2002; Lewes, 1988, 2002; Magee, Miller, 1997; Phillips, 1998, 2003; Roughton, 2001 – a cui vanno aggiunte alcune illustri revisioni autocritiche, per esempio Kernberg, 2002; McDougall, 2001; Schafer, 1995), ha dato voce a un capitolo finora muto della psicoanalisi. Come le analiste donne, negli anni 1940, hanno iniziato a dire la loro sulla sessualità femminile, fino a quel momento raccontata da analisti uomini, gli analisti gay e lesbiche, a partire dagli anni 1980, hanno iniziato a dare voce alle omosessualità, fino a quel momento raccontate da analisti e analiste eterosessuali. Un'ottima scelta di testi, alcuni dedicati in particolare all'"analista omosessuale" si trova nel volume, curato da Bassi & Galli (2000), L'omosessualità nella psicoanalisi.

    L'abbattimento dell'omofobia psicoanalitica raggiunge un importante traguardo nel 1991, con l'emissione di uno statement in cui l'American Psychoanalytic Association (1991) esorta a selezionare i candidati al training in base alle loro qualità e capacità e non al loro orientamento sessuale («L'American Psychoanalytic Association si oppone e deplora ogni discriminazione pubblica o privata nei confronti di individui, maschi o femmine, con orientamento omosessuale. (...) I nostri istituti sono tenuti a selezionare i candidati al training in base al loro interesse per la psicoanalisi, talento, preparazione culturale, integrità psicologica, analizzabilità e sensibilità alla formazione e non in base al loro orientamento sessuale. I nostri istituti sono tenuti ad applicare queste regole nella selezione dei candidati al training e a ogni altra posizione, incluse le funzioni didattiche e di supervisione»; adopted May 1991; amended May 1992). Sono del 2009 le guidelines dell'American Psychological Association sulle «appropriate risposte affermative al disagio relativo all'orientamento sessuale» (vedi le pagine Internet www.noriparative.it e www.apa.org/pi/lgbt/resources/therapeutic-response.pdf). Dove il punto non è ovviamente "orientare" (in senso omo o etero) la sessualità degli incerti, ma avere le informazioni e gli aggiornamenti scientifici necessari per non commettere atti di ignoranza o peggio crudeltà (ahimè non poche nella storia dei trattamenti psicoanalitici), e promuovere davvero il benessere psichico e relazionale.

    Soprattutto nel mondo anglosassone, ma ultimamente anche nei paesi di cultura latina, sono sempre meno sia gli analisti omosessuali che preferiscono tenere "nascosto" il proprio orientamento sia gli analisti eterosessuali che esprimono diffidenza nei confronti dei colleghi (dichiaratamente) gay o lesbiche (una ricerca su un campione di psicoanalisti italiani [Capozzi, Lingiardi & Luci, 2004; Lingiardi & Capozzi, 2004] prevedeva, tra le altre, queste tre domande: a. Penso che un/a analista omosessuale possa essere un/a valido/a collega; b. penso che un/a analista dichiaratamente omosessuale possa essere un/a valido/a collega; c. penso che un/a analista dichiaratamente omosessuale possa svolgere funzioni di training. «Anche se – leggiamo nel commento ai risultati – a livello descrittivo un incoraggiante numero di psicoanalisti appartenenti all'International Psychoanalytic Association [IPA] ha espresso un atteggiamento non discriminatorio verso i colleghi omosessuali, tuttavia l'analisi dei dati ha rivelato una differenza significativa tra le società IPA e quelle junghiane, con le prime più discriminanti delle seconde. Tale atteggiamento di discriminazione diventa più evidente quando il collega in questione è dichiaratamente omosessuale, e ancor di più se ha funzioni di training» [Capozzi, Lingiardi, Luci, 2004, p. 354]).

    Cause e conseguenze della self-disclosure del terapeuta omosessuale

    «Non ho pregiudizi contro l'omosessualità (...) ma gli omosessuali sono essenzialmente persone sgradevoli indipendentemente dal fatto che i loro modi siano piacevoli o spiacevoli (...). [Essi mostrano] un misto di superbia, falsa aggressività e piagnisteo (...). L'unico linguaggio che il loro inconscio comprende è la forza bruta (...). E' raro trovare tra di loro un Io che sia intatto» (Edmund Bergler, 1956, pp. 26-29)

    «Si rivolgono a un analista gay perchè preoccupati che i pregiudizi di un terapeuta eterosessuale potrebbero interferire con la possibilità di essere trattati con la dovuta neutralità» (Richard Isay, 1991, p. 199)

    Se vogliamo riflettere sui percorsi e le implicazioni cliniche della self-disclosure dell'orientamento omosessuale del terapeuta, dobbiamo ricordare come la progressiva depatologizzazione dell'omosessualità abbia implicato uno spostamento dell'attenzione dai fattori ambientali come "promotori patogeni" dell'omosessualità al contesto ambientale come "ostacolo patogeno" nello sviluppo psicologico di gay e lesbiche. In questo senso potremmo dire che l'"oggetto di studio" è passato dall'omosessualità all'omofobia. E' infatti aumentata la consapevolezza clinica degli effetti traumatici che il pregiudizio può avere sulla crescita emotiva e cognitiva delle persone gay e lesbiche, e gli psicoanalisti hanno iniziato a riflettere su quanto possa essere debilitante per le persone omosessuali la "cultura del silenzio" (Blechner, 1993, 1955; Lingiardi, 1997, 2007b).

    Nel corso dello sviluppo di gay e lesbiche, la capacità di sentirsi a proprio agio, di vivere serenamente la sessualità e di formare relazioni intime è frequentemente, se non costantemente, minacciata da sentimenti di indadeguatezza, vergogna e colpa. Tali sentimenti, che implicano difficoltà nella regolazione dell'autostima (e quindi dell'ansia, dell'umore, ecc.) si manifestano anche nel corso di terapie di pazienti gay con buoni livelli di adattamento e integrazione sociale. L'analisi di questo nucleo, che possiamo definire omofobia interiorizzata (e che presenta elementi in comune con la vecchia diagnosi DSM-III di "omosessualità egodistonica") costituisce un passaggio obbligato per l'acquisizione di un'identità integrata e il raggiungimento di relazioni interpersonali soddisfacenti. In molti casi, una fede religiosa e il desiderio e/o la pressione a conformarsi ai valori e ai precetti della propria Chiesa, in particolare quando questa definisce l'omosessualità un disordine morale (Congregazione per la Dottrina della Fede, 1986), può facilitare l'interiorizzazione dell'omofobia e la difficoltà ad accettarsi come omosessuali (Adamczyk & Cassady, 2009; Balkin, Schlosser & Levitt, 2009; Davidson, 1999; Herek, 2007; Herek et al., 1998; Herek, Gillis & Cogan, 2009; McNeill, 1976; Wagner et al., 1994; Whitley, 2009). In questi casi, infatti, viene prima il precetto o il vissuto? Una posizione di maggior accoglienza da parte della Chiesa cattolica (come del resto altre Chiese – la valdese, la anglicana – hanno iniziato a fare), sicuramente attenuerebbe la ferita dell'egodistonia e la croce di quel minority stress che segna la vita di molte persone omosessuali credenti.

    Firetto ipotizza che uno dei conflitti che Sebastiano sente come "irriducibili" sia

    «tra la sua vera identità di omosessuale e il suo ruolo di prete che gliela ‘nasconde'. A causa di [tale conflitto, Sebastiano] si sente pieno d'odio per il mondo, in quanto percepisce che aderire al suo ‘vero Sé' è una condizione di sofferenza rispetto al ruolo imposto dall'appartenenza alla comunità religiosa» (p. &&).

    E' noto che l'interiorizzazione dell'omofobia è alla base di molte richieste di "terapie riparative" o di "riorientamento sessuale" (Bartlett, Smith & King, 2009; Lingiardi & Nardelli, 2008; vedi anche il sito http://www.noriparative.it). La prima cosa che il professionista della salute mentale deve fare in questi casi è cercare di capire perché la persona vive "in disaccordo" con se stessa. Si sente "sbagliata" o "senza un posto nella società"? E' in conflitto con i propri valori religiosi, della famiglia o della comunità? Ha paura di deludere i genitori? Il peso di sentirsi "difforme" la fa sentire "deforme"? Ha una rappresentazione negativa, sul piano affettivo e cognitivo, di come sarà il suo futuro di gay o di lesbica? Oltre a questo tipo di motivazioni, riconducibili alla convinzione di un'incompatibilità tra la realizzazione di sé come persona omosessuale e al tempo stesso come individuo mediamente felice, l'esperienza clinica spesso mostra come persistenti dimensioni conflittuali nel campo dell'identità sessuale appartengano al quadro più generale di un disturbo di personalità, con rappresentazioni di sé confuse e non integrate.

    Alla luce di tutto questo, è evidente che un/a analista gay o lesbica che rivela il proprio orientamento sessuale a un/a paziente omosessuale può produrre un effetto di rinforzo affermativo e contribuire ad attenuare l'omofobia interiorizzata. Ma le implicazioni cliniche possono naturalmente essere molte altre: senza voler tentare un impossibile elenco, mi limito a ricordare alcuni possibili sviluppi. Lo smarrimento del paziente (omo o etero che sia) che, dando per scontata la "sanità" del suo terapeuta, ne dava per scontata l'eterosessualità; la dissonanza cognitiva e emotiva provocata da un terapeuta che tiene nascosta la sua omosessualità a un paziente che l'ha ampiamente "intuita" (da segnalare, per esempio, le interessanti dinamiche co-transferali che si possono sviluppare tra una paziente eterosessuale e un analista omosessuale).

    Sicuramente dobbiamo sempre domandarci la "provenienza" della self-disclosure: è al servizio della relazione terapeutica o nasce da un bisogno del terapeuta? Sarà altrettanto utile comprendere perché e in quale momento della terapia viene sollecitata dal paziente, oppure perché il paziente non mostra alcun interesse rispetto alla sessualità del terapeuta (Guthrie, 2006). Nel primo caso possiamo trovarci di fronte, per esempio, a un paziente gay che cerca nel terapeuta solidarietà, conforto, un modello da seguire oppure una rassicurazione sul fatto che questo non lo stigmatizzerà e non proverà a "reindirizzarlo" verso l'eterosessualità; ancora a livello di ipotesi, nel secondo caso potremmo trovarci di fronte a un paziente che evita l'argomento per non prendere contatto con la propria omofobia interiorizzata, desiderando idealizzare il terapeuta immaginandolo eterosessuale. Non dimentichiamo infine che la riluttanza a comunicare al paziente il proprio orientamento sessuale, magari di fronte a domande o riferimenti precisi, può suggerire problemi irrisolti di omofobia interiorizzata, vergogna e imbarazzo nel terapeuta stesso (Bjork, 2004; Gabriel & Monaco, 1995; Isay, 1991).

    Una delle critiche mosse più di frequente alla self-disclosure è che satura il campo analitico. Lavorare con il paziente sulle sue fantasie è certamente proficuo, ma è necessario anche capire quanto il "non detto" può andare a detrimento dell'onestà affettiva e della relazione. «Una posizione terapeutica che tenti sistematicamente di evitare le collisioni di soggettività – scrive Bromberg (2006) – è in ultima analisi vissuta dal paziente come disconfermante» (p. 141).

    http://www.psicoterapiaescienzeumane...di-firetto.htm

    Ma questo perche nella morale dominante il terapeuta deve essere per forza etero cisessuale, dove da una parte c'è il paziente visto come uno dei tanti casi psichiatrici e dall'altra parte ci sta il terapeuta "normale" o "etero normale" che psicanalizza l'individuo non "etero normale". Questo a prescindere se il terapeuta etero cisessuale veda l'omosessualità o l'identità di genere come delle patologie o meno.

  2. #2
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    Predefinito Re: L'orientamento sessuale del terapeuta: in or out of the closet?

    @GILANICOoo dici che ne avrai bisogno dopo che ti hanno cancellato blog, chiuso discussioni e bannato?
    Quelli sono omofobi rassisti
    Derjenige, welcher dem Feinde statt des Pfeiles ein Schimpfwort entgegenschleuderte, war der Begründer der Civilisation
    S. F.

    It is no measure of health to be well adjusted to a profoundly sick society.
    Krishnarmurti

  3. #3
    Forumista esperto
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    Predefinito Re: L'orientamento sessuale del terapeuta: in or out of the closet?

    Evidentemente qualche tuo protettore ti ha avvisato delle ingiustizie perpetuate regolarmente nei miei confronti su questo forum, non mi stupisco per niente.
    Comunque si è proprio cosi.

  4. #4
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    Predefinito Re: L'orientamento sessuale del terapeuta: in or out of the closet?

    "etero cisessuale"??? ma cos'è'??

    ma sto signor Gilanico è reale?

 

 

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