di Sandro Rogari – In «Nuova Antologia», a. CXXIX, fasc. 2192, «Per Giovanni Spadolini», ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 182-186.


Non ho conosciuto altri uomini che trasmettessero, come Giovanni Spadolini, un così forte senso di vitalità e di energia da sembrare inesauribili, nel tempo oltre che nella quotidiana attività. Oso quasi dire che il suo dar l’impressione di appartenere a più di una generazione, di vivere in una dimensione esistenziale ben più lunga di quella di una comune esperienza umana, connotasse la sua personalità meglio e più di qualunque altro tratto. Sono consapevole di addentrarmi sul terreno del paradossale, del non giustificabile, come accade per tutte le percezioni non sottoposte al controllo della ragione, e soprattutto contraddicente col mestiere che Spadolini – ed io stesso in più modesta dimensione – praticava, quello dello storico. Se c’è una lezione che lo storico assimila dal primo apprendistato è proprio la caducità di tutte le cose umane. Figurarsi delle persone. Eppure, per Spadolini il destino sembrava aver disposto diversamente.

Talvolta, questo senso di permanenza è trasmesso, anche artatamente, dall’uomo di grande potere per esorcizzarne la finitezza temporale, che è uno dei limiti palesemente incomprimibili del potere. Il potente la vuole allontanare da sé come destino di esaurimento, terrorizzante e rifiutato. Ma questo non era il caso di Giovanni Spadolini. Non era un potente. Né aveva mai inteso quella fetta relativamente modesta di potere che aveva esercitato se non come servizio verso le istituzioni, verso la patria, l’Italia, ch’egli amava profondamente, fino al punto da vivere in simbiosi con essa e con le sue istituzioni repubblicane. Se facessimo un’analisi quantitativa del suo lessico, troveremmo che il termine potere ricorre assai poco e mai riferito a se stesso. Rifuggiva da tutto ciò che di nefasto tale parola evoca.

No, non era quella la fonte del senso d’inesauribilità che trasmetteva a chi lo avvicinava. Essa risiedeva in una dimensione assai più nobile. Era il frutto del suo incredibile cursus onorum accademico, giornalistico, politico. Era il prodotto del suo essere stato enfant prodige, precocissimo negli studi e nel giornalismo, e poi d’avere continuato ad essere prodige quando non era più enfant in tutto l’arco della sua esistenza.

Quando i suoi coetanei arrivavano, se in pari con gli esami, alla laurea, Spadolini assumeva l’incarico d’insegnamento di Storia moderna (poi contemporanea) presso la «Cesare Alfieri». All’età in cui i giovani più fortunati ottenevano da qualche quotidiano un contratto di praticantato che li avviasse all’agognata carriera giornalistica, Spadolini collaborava al «Corriere della Sera» e assumeva la direzione del «Resto del Carlino». Sorridendo, si vantava di non essere mai stato assistente universitario e di non aver mai fatto il praticante in un giornale. Era uno dei pochi giornalisti italiani, forse il solo, che fosse entrato nell’ordine come professionista divenendo prima direttore di quotidiano. Insomma, a noi più giovani di una generazione che non potevamo avere memoria diretta di quando Spadolini non era ancora professore e direttore – ma c’era mai stato quel tempo? – sembrava impossibile immaginarlo altrimenti che così.
Per tutto questo, Spadolini era stato naturalmente, fin da giovanissimo, «coetaneo» (mi si scusi il bisticcio) di uomini ben più anziani di lui con cui dialogava da pari a pari, fossero grandi giornalisti o statisti – Missiroli, Montanelli, Einaudi, Saragat, Nenni, La Malfa e tanti altri – come se dietro alle sue spalle non ci fosse una manciata d’anni di vita e d’esperienza, ma una lunga carriera che invece, pur brillantissima fin dall’inizio, era ancora tutta da percorrere.
Per quanto mi riguarda, ho sempre avuto grosse difficoltà ad immaginarlo ragazzo. Le fotografie di famiglia, con il padre Guido, venerato, l’amatissima madre Lionella e i fratelli maggiori, stavano lì a dimostrare il contrario. Eppure, forse anche per come egli ricordava gli anni della sua adolescenza immerso nei libri, sembrava impossibile che avesse mai giocato a calcio o avesse fatto una corsa in bicicletta con i suoi coetanei.

A nessun altro italiano, credo, almeno in questa seconda metà del secolo, è stata riservata la stessa sorte. Studiosi precoci hanno raggiunto con rapidità posizioni di grande prestigio accademico. Giornalisti di razza hanno dominato per decenni il mondo della carta stampata, e qualcuno, anche più anziano di lui, continua a tenere il campo. Politici fin troppo longevi hanno monopolizzato il proscenio di quella che con brutta e impropria impressione, sempre rifiutata da Spadolini, viene appellata la prima Repubblica. Ma nessuno ha attraversato tutti questi campi come una meteora sempre in ascesa come Spadolini. Il fatto è che nella sua biografia insegnamento, giornalismo, attività politica non sono stati universi distinti. La stessa profonda passione civile ha animato il suo operare come storico, come giornalista, come politico e uomo di istituzioni. Questo era il tratto forte della sua personalità e il segreto del suo arrivare sempre prima e con maggior sicurezza di altri alle scelte da operare, come lo era della sua prodigiosa energia.

Mi sono chiesto più volte a chi possa essere paragonato fra gli italiani illustri di questo secolo. La risposta che pare più naturale è Gobetti, figura di intellettuale e organizzatore di cultura precocissimo che Spadolini amava molto, forse proprio per questo riunirsi in Gobetti di qualità, interessi e passioni – soprattutto quella dell’editoria che Spadolini era riuscito a realizzare divenendo, come Gobetti, editore di se stesso con la «Nuova Antologia» e con i quaderni ad essa collegati – che erano comuni anche alla sua personalità.
Tuttavia, ritengo che sia più pertinente avvicinarlo a Giovanni Amendola che, come Spadolini, visse esperienze di intellettuale, di giornalista e di politico unite dalla stessa grande passione civile. Nell’Amendola di Etica e biografia ci sono già le premesse e i fondamenti etici della sua azione politica che, come per Spadolini, fu mediata dal giornalismo. Certo, in Spadolini non c’erano le cupezze di Amendola, né ebbe la disavventura di vivere e di morire in giovane età per la tragedia del fascismo. Ma come per il filosofo morale Amendola, lo storico Spadolini va letto sempre in chiave di riflessione e di guida per la critica politica dell’Italia contemporanea e, nell’ultimo ventennio, per l’azione civile e politica.
Questa chiave di lettura sembra meno giustificata per le sue prime opere storiografiche, quelle degli anni Cinquanta e Sessanta, dall’Opposizione cattolica a Firenze capitale, ma questa mi sembra essere la cifra più giusta per comprendere la sua biografia intellettuale e politica. Anzi, mi pare proprio che qui si nascondesse il secondo segreto del suo trasmettere l’impressione di vivere in una dimensione storica più ampia che non fosse l’arco temporale di una comune esistenza. I protagonisti e i comprimari della storia d’Italia con cui dialogava nelle sue opere – Cavour, Ricasoli, Giolitti, gli uomini dell’opposizione laica, quelli dell’opposizione cattolica, i grandi intellettuali del nostro secolo – erano sempre vivi e rivissuti in una luce fortemente contemporaneistica. Spadolini si calava sempre nel fragore delle passioni e della battaglia politica nel quale essi avevano operato per trarre le lezioni utili per la crescita civile e politica dell’Italia di oggi e di domani. In ciascuno dei personaggi studiati andava alla ricerca di un frammento da scoprire dell’amata patria, con le sue grandezze ma anche con le sue miserie.

Nei protagonisti come nelle comparse della sua storia, non diversamente che nei contemporanei a lui vicini, sapeva cogliere le qualità, individuare i talenti, da quel grande conoscitore di uomini che era. Vasti vedere quanti giornalisti oggi famosi, formatisi al «Carlino», come al «Corriere» ma anche alla «Voce Repubblicana», lo ricordano con affetto e devozione, avendo avuto proprio in lui il talent scout decisivo per la loro carriera. Se ad essi poi aggiungiamo i molti beneficiati che non conservano o non manifestano gratitudine, perché, com’è noto, questa è una qualità più divina che umana, il numero diviene davvero cospicuo.

Tuttavia, come dicevo, non dimenticava mai che esistono anche le miserie, i limiti, nei singoli individui come nella storia, che non vanno trascurati perché farlo può comportare guai peggiori. Aveva fatto propria la metafora giolittiana del sarto che quando taglia un vestito deve tener conto della gobba di chi lo deve indossare. E l’aveva sempre applicata nella vita politica, convinto com’era che ciascuno dovesse dare il meglio di sé, ma anche che l’astratta perfezione non è di questo mondo e può essere nemica del bene possibile. In questo è stato interprete della migliore lezione dei moderati del Risorgimento.
Eppure, nonostante tutto quello che ho scritto fiora e a sua parziale smentita, aggiungo subito che nell’animo di Spadolini era forte il senso della finitezza, della morte. Non so dire se l’abbia sviluppato a poco a poco, con gli anni che passano, o se fosse in lui connaturato. Posso azzardare che, se già era presente, esso sia stato accentuato dai tragici eventi del 1978 che lo colpirono profondamente: l’assassinio di Moro e la scomparsa della madre. Da allora, più spesso cominciarono a trapelare dalla sua conversazione, anche se sempre rattenute dal pudore che aveva per sentimenti tanto profondi, l’amarezza e la tristezza per quel senso acuto della fragilità della vita che dà vedere scomparire persone tanto care.
Il distacco dalla casa della sua infanzia di via Cavour divenne più difficile, anche se la «casa dei libri», come la chiamava, di Pian dei Giullari era da tempo destinazione estiva degli Spadolini. Temeva la malinconia che talvolta instilla la campagna, diceva. Ma, senza dichiararlo apertamente, credo anche che rifuggisse dell’idea di chiudere definitivamente l’appartamento di via Cavour, consolidando il distacco con una fase della sua vita nella quale l’affetto e il legame con la madre avevano accompagnato i primi grandi successi della sua carriera. Solo in tempi recenti, infatti, nell’estate del 1986, dopo un’ultima riunione di colleghi e allievi nel salotto di via Cavour – simbolo di un decoro borghese solido, ma senza sfarzo – dove sono ancora oggi raccolti i libri e le collezioni di riviste che hanno alimentati i suoi primi studi storici, chiuse definitivamente, con la casa, una pagina della sua vita.
Citava spesso Moro, ribadendo che bisogna operare ogni giorno come se fosse l’ultimo, ma s’impegnò anche perché, una volta compiutosi l’ineludibile destino degli esseri umani, sopravvivesse quella concezione di civiltà in cui aveva creduto. L’idea della Fondazione Nuova Antologia è maturata in quel cupo tramonto degli anni Settanta ed è venuta a compimento nel 1980. Essa era per Spadolini quel figlio che non aveva avuto; quella creatura cui si vogliono trasmettere i valori che sono stati bussola del proprio operare; che deve testimoniare e perpetuare, oltre la finitezza dell’esistenza umana e la caducità della memoria, quanto di buono e di bene siamo riusciti a fare a questo mondo. Ad essa aveva riservato tanta parte di quella inesauribile energia che la natura gli aveva dato, anche in anni nei quali gli impegni politici erano divenuti particolarmente assorbenti e onerosi.
Credo che in questo lascito all’amata Firenze, alla Firenze della tradizione umanistica, patrimonio universale della civiltà, sia racchiuso il senso compiuto della sua prodigiosa esistenza. Sandro Rogari

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