di Luigi Ambrosoli – In “Nuova Antologia”, “Per Giovanni Spadolini”, a. CXXIX, fasc. 2192, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 141-145.



Agli inizi del 1950 la Casa editrice Longanesi aveva pubblicato uno dei libri di Giovanni Spadolini destinati a diventare subito oggetto di discussione e a favorire la sua affermazione come scrittore acuto e brillante osservatore e critico della storia dell’Italia contemporanea: Il Papato socialista. Mi occupavo, tra l’altro, in quel periodo, del movimento cattolico in Italia e raccoglievo materiale su Romolo Murri e la prima democrazia cristiana. Era naturale che l’argomento del libro dello Spadolini rientrasse tra quelli per me di maggiore interesse, mi affrettai a procurarmelo, lo lessi rapidamente e preparai una recensione per la «Nuova Antologia», allora diretta da Mario Ferrara, redattore capo factotum Antonio Baldini.
La recensione uscì nel fascicolo numero 1793 del maggio 1950 alle pagine 89-91 nella sezione Libri di politica e la scelta della rubrica in cui collocarla era forse dipesa dall’impostazione data al mio scritto perché in esso erano stati sottolineati gli aspetti del libro che potevano rappresentare un contributo al dibattito politico successivo al grande successo ottenuto dalla democrazia cristiana nelle elezioni del 1948 che aveva suggerito di ricostruire le varie fasi attraverso le quali erano passati l’orientamento e le prescrizioni della Chiesa e il conseguente comportamento politico dei cattolici in Italia dopo l’unità.
Il mio articolo esordiva proponendo una distinzione tra «saggistica» e «storia» forse suggerita dall’esistenza, alla quale allora era facile richiamarsi, delle due collane dell’editore Einaudi di Torino: la «Biblioteca di cultura storica» e i «Saggi», suddivisione che per delle collane editoriali poteva, su un piano prettamente pratico, essere giustificata mentre lo era molto meno per introdurre il giudizio su un libro che, per la verità, era difficile inquadrare senza alcuna perplessità in un genere ben definito; la conclusione alla quale pervenivo era, comunque, che Il Papato socialista apparteneva ai saggi e non alle opere storiche.
Devo ricordare che ero uscito da una scuola nella quale s’imparava ad essere anche formalmente rigorosi; sia l’insegnante di storia romana sia quello di storia medievale e moderna facevano precedere i loro corsi monografici da un buon numero di lezioni metodologiche nelle quali venivano affrontati, nei loro molteplici aspetti, in parte diversi per la storia romana o medievale o moderna, i problemi della ricerca storica. Ritrovate nelle dispense universitarie, alcune di queste lezioni di metodo furono in seguito diffuse largamente. La critica delle fonti era un esercizio preliminare indispensabile per affrontare qualsiasi ricerca e, siccome ogni fonte presentava suoi problemi particolari, la loro analisi costituiva la prima diretta presa di contatto con le questioni che la ricerca era destinata ad affrontare.
Per ritornare a Il Papato socialista mi pareva, ad esempio, che non fosse possibile classificarlo come vero e proprio lavoro storiografico stante la mancanza dei riferimenti alle fonti dalle quali erano state attinte le notizie prese in considerazione e della rassegna ragionata degli scritti che, in precedenza, avevano affrontato il medesimo argomento ed erano pervenuti alla formulazione di un giudizio sui fatti e sulle idee presi in considerazione. Ecco perché, con una certa spavalderia, scrivevo allora che lo Spadolini era più che storico saggista e definivo il saggista come «chi, alla fine delle ricerche eseguite, abbandona il materiale raccolto per riordinarlo liberamente nella propria mente, fino a cogliervi, in modo soggettivo, un filo conduttore o tema centrale o tesi da svolgere fino alle estreme conseguenze». A confronto con Il Papato socialista ponevo Chiesa e Stato negli ultimi cento anni di Arturo Carlo Jemolo, uscito due anni prima, per evidenziare come quest’ultima opera fosse condotta con rigoroso metodo storico e proponesse con linearità i vari momenti e i risultati di un’indagine di grande ampiezza e respiro.
Devo dire che, in rapporto alle mie convinzioni politiche, mi infastidiva anche quel cercare il socialismo dovunque, e non nel movimento che si richiamava propriamente a tale denominazione e a tale ideologia. Nel 1912 Mario Missiroli aveva pubblicato La monarchia socialista; ora, a quarant’anni di distanza, Giovanni Spadolini proponeva Il Papato socialista e ciò avveniva nel momento in cui, soprattutto con la rivista «Movimento operaio», fondata nel 1949, si cominciava a raccogliere il materiale documentario indispensabile per una trattazione storiograficamente corretta della storia delle correnti politiche socialiste e operaiste. Che alcuni partiti politici avessero un programma sociale era fatto indiscutibile ma ciò non significava che avessero qualcosa da spartire con il socialismo. Anzi, il programma sociale che alcuni movimenti si erano dati era proprio in funzione del contenimento della diffusione del socialismo, prospettando un’analisi dei problemi della società, come era per il movimento cattolico, ben diversa da quella classista.
Su questo punto si manifestava il dissenso più netto tra la posizione di Spadolini e la mia, un dissenso motivato dalla diversità delle nostre posizioni di fondo, dei nostri orientamenti ideologici. Liberalismo e socialismo, scrivevo allora, erano in contrasto con la visione politica e morale della Chiesa cattolica che non aveva mancato di condannarli; ma, sul piano prettamente pratico, il socialismo era apparso più pericoloso del liberalismo e la Chiesa aveva deciso di combatterlo con maggiore vigore. Da quest’ultima decisione derivava l’ostilità della Santa Sede nei confronti di Romolo Murri per gli accenti populisti e sinistrorsi del programma della sua democrazia cristiana e, di conseguenza, la opposizione ecclesiastica alla formazione, proposta da Murri e dai suoi giovani amici, di un partito cattolico con un programma politico e sociale avanzato.
Lo Spadolini riteneva invece che l’opposizione del Vaticano alle iniziative del Murri andasse attribuita al fatto che «dal punto di vista politico la formazione di partiti cattolici operanti nell’ambito della democrazia, anticattolica per definizione, era un assurdo» (Il Papato socialista, p. 76), mentre ad avviso del sottoscritto, considerato che la Chiesa aveva ormai di fatto accettato in altri paesi, sia pure con alcune riserve, la democrazia, l’abolizione virtuale del non expedit e l’avvento dei cattolici alle urne erano stati determinati dalla preoccupazione di salvare l’ordine sociale e di evitare che i socialisti potessero ampliare la loro influenza disponendo di un numero maggiore di deputati al Parlamento.
L’alleanza clerico-moderata, come fu chiamata, non poteva essere interpretata che come una decisione dettata dalla paura del socialismo. Ma Spadolini, e questo è stato possibile avvertirlo meglio nei suoi lavori successivi, considerava in primo luogo l’esigenza della convivenza tra cattolici e laici e considerava positivamente tutto quanto potesse rappresentare una «mediazione» tra le due posizioni e allontanasse il pericolo di uno scontro. Mentre per altri storici il clerico-moderatismo e il patto Gentiloni avevano rappresentato la fine del processo di laicizzazione dello stato italiano aperto dalle unilaterali leggi delle Guarentigie, per lo Spadolini essi andavano considerati come un fatto positivo perché destinati a consentire la convivenza tra laici e cattolici con le conseguenti ma opportune rinunce da una parte e dall’altra. Quell’Italia laica da lui tanto amata ed apprezzata aveva rinunciato a portare alle estreme conseguenze il processo di laicizzazione dello Stato avviato dopo l’unità perché esso sarebbe inevitabilmente sfociato, e se ne erano avuti alcuni segni premonitori, in un movimento anticlericale e antireligioso: laicità, ripeterà più volte, e non laicismo.
Tra laici e cattolici doveva crearsi un equilibrio, i laici avrebbero dovuto tollerare, nel significato più classico della parola, l’esistenza dei cattolici con i loro problemi rappresentati dall’essere cittadini di uno Stato ma di appartenere, nel medesimo tempo, ad una confessione religiosa dalla quale ricevevano insegnamenti e indicazioni relative alle modalità di comportamento inerenti la stessa vita sociale e civile. I cattolici, a loro volta, dovevano trovare, con piena convinzione, il giusto equilibrio tra la loro qualità di cittadini di uno Stato, manifestantesi non soltanto attraverso l’inderogabile rispetto delle sue leggi ma in forme di reale e leale partecipazione alla sua vita e ai suoi problemi, e la loro appartenenza a una confessione religiosa.
Mi pare di poter affermare che da Il Papato socialista ai lavori successivi si possa riscontrare, nello Spadolini, un profondo cambiamento; all’andamento saggistico sottolineato per quel libro egli sostituì un metodo di lavoro più attentamente legato al documento ed all’interpretazione del documento e quindi conforme alle esigenze del lavoro storico, dalla presentazione dei risultati raggiunti attraverso ad esso alla loro puntuale giustificazione. Il sistema di maneggiare, come altri recensori, alcuni in maniera drastica, gli avevano rimproverato, dei «blocchi» di idee a suo piacimento per farli comparire quando gli pareva necessario per esprimere la sua valutazione dell’atteggiamento di un movimento cedette il posto ad una documentata analisi di ogni passo compiuto dal movimento stesso, di ogni sua scelta e decisione e la costruzione storica, pur conservando qualche, ma ben limitata, tendenza alla generalizzazione, acquistò un altro spessore e divenne, di conseguenza, convincente.
Già nella prima edizione (1955) de L’opposizione cattolica era possibile riscontrare questa diversità di far storia dello Spadolini rispetto alle opere precedenti e non soltanto per l’apparato delle note e per la presentazione delle fonti e della bibliografia; era possibile parlare di una «svolta» dovuta probabilmente alla volontà di trasformarsi da giornalista, pubblicista, saggista, in uno storico destinato, come avvenne non molto tempo dopo, ad accedere alla cattedra universitaria. Nel successivo libro su Giolitti e i cattolici (1901-1914) (Le Monnier, Firenze, 1960) questa svolta era ancora più evidente: il problema del clerico-moderatismo e del patto Gentiloni era oggetto di un nuovo esame attraverso il quale Spadolini confermava la sua convinzione che a Giolitti andava attribuito il merito di non aver ripreso la legislazione antiecclesiastica e di aver promosso un’«Italia dalle distinzioni precise» nella quale sarebbe stato raggiunto l’auspicato equilibrio tra coscienza religiosa e coscienza politica.
Un grave errore commesso dai cattolici fu indicato dallo Spadolini nell’intervista con la quale il presidente dell’Unione elettorale aveva attribuito alle alleanze clerico-moderate il merito di aver favorito l’elezione di 228 deputati; quello che doveva rimanere nel silenzio era stato reso pubblico e aveva determinato la sollevazione della parte dei liberali che non accettava tale compromesso. Questo errore aveva contribuito, ad avviso dello Spadolini, a far entrare in crisi il clerico-moderatismo e la crisi del clerico-moderatismo consentì, qualche anno dopo, la nascita del Partito popolare di don Sturzo.
Era così fallita quella «conciliazione silenziosa» nella quale «Giolitti aveva creduto alla pari di Pio IX» (Giolitti e i cattolici, p. 386) ma si era aperta una fase ben più importante della vita politica italiana dopo l’unità e cioè la nascita di un partito cattolico e il ricupero dei cattolici alla vita politica dello Stato italiano. La storia, pareva affermare allora lo Spadolini e tale affermazione fu da lui spesso ripetuta, non ammetteva salti, non ammetteva balzi in avanti troppo precipitosi destinati a interrompere il lavoro paziente di costruzione dei rapporti politici; occorreva dare tempo al tempo, lasciare trascorrere il tempo indispensabile perché le mediazioni raggiugessero il risultato prefisso.


Luigi Ambrosoli

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