di Gennaro Sasso – In «Nuova Antologia», a. CXXIX, fasc. 2192, “Per Giovanni Spadolini”, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 371-377. È il testo della commemorazione letta il 29 novembre 1994 a Napoli, nella sede dell’Istituto italiano per gli studi storici.


Signor presidente, autorità, colleghi, borsisti, signore e signori,

le opere che quest’anno hanno visto la luce qui, in questo nostro Istituto, vorrei idealmente dedicarle tutte a Giovanni Spadolini, nel ricordo del lavoro da lui svolto dal 1990 come nostro presidente, e in segno di gratitudine per l’entusiasmo, l’intelligenza, l’affetto, e quindi la misura e la discrezione, con cui l’ha svolto. Prima ancora di essere un uomo pubblico e politico, Spadolini era un professore, uno storico, un erudito che amava intensamente il suo lavoro, un ricercatore e scrittore inesauribile, un instancabile cacciatore di libri e di cimeli risorgimentali. Ma non c’è stata una sola occasione nella quale egli sia intervenuto nelle questioni scientifiche e culturali dell’Istituto di cui aveva la cura presidenziale; e mai è accaduto che egli proponesse un’iniziativa che andasse oltre la sua competenza istituzionale, mai è accaduto che proponesse un argomento fra quelli che pure accendevano il suo legittimo interesse e gli stavano a cuore. Quando riceveva l’omaggio dei nostri libri, ne era visibilmente compiaciuto, perché di libri, come ho detto, era desideroso e, come gli studiosi autentici, persino avido. Ma, come presidente, mise a tacere i suoi gusti personali, frenò la sua naturale tendenza a giudicare del contenuto; e si attenne con rigore alle «forme» perché, come schietto erede della tradizione liberale, sapeva che queste non sono mai vuote quando siano intese come autonomia e rispetto dell’autonomia, come limite e rispetto del limite. Non sono vuote; e tanto poco in effetti lo sono che significano «civiltà». Non sono uso a pronunziare elogi dei quali non sia convinto. E nel dire quello che ho detto, la mia intenzione non era di idealizzare Giovanni Spadolini. Era piuttosto di dire, con parole semplici (che forse non gli sarebbero dispiaciute), quale presidente l’Istituto abbia perso con lui.
Nei prossimi tempi, Giovanni Spadolini sarà certo commemorato, studiato e discusso da chi, assai meglio che io non possa, saprà ripercorrerne l’opera di storico e di interprete della politica e della cultura italiana quali si atteggiarono fra l’Otto e il Novecento, i secoli ai quali egli dedicò le sue cure più assidue. Ma a me parrebbe di venir meno a un dovere se qualcosa non ne dicessi anch’io che, per circa quarant’anni, ho avuto con lui una consuetudine che, estemporanea e sporadica quand’egli viveva tra Firenze, Bologna e Milano, dopo la sua venuta a Roma si andò progressivamente intensificando e approfondendo. Sarà tuttavia, il mio, un discorso breve e non scientifico, diviso fra l’aneddoto e qualche meno occasionale considerazione. E allora mi si permetta, cominciando con un aneddoto, di dire che lo conobbi a Bologna nel lontano 1953, quand’egli, ancora assai giovane, vi dirigeva il «Resto del Carlino», durante una serata in casa di amici, alla quale anche partecipavano, con Nicola Matteucci, Francesco Compagna, Vittorio de Caprariis e forse anche il carissimo e indimenticabile Renato Giordano. Erano i mesi in cui molto si discuteva della famosa legge maggioritaria, che sprezzantemente le opposizioni avevano definita «legge truffa», evocando per essa l’ombra maligna di Giacomo Acerbo, e che Spadolini e gli altri amici, che in questo riflettevano l’orientamento del «Mondo» e dello stesso Salvemini, invece difendevano con passione. Di questa legge e del significato che le era intrinseco, o almeno le si attribuiva, anche quella sera si discusse molto, non solo con vivacità e, come ho detto, con passione, ma anche con la brillantezza un po’ ricercata che era caratteristica dei giovani studiosi liberaldemocratici di allora. Erano, anche quelli che allora vivemmo, anni duri, difficili, e anzi, per certi aspetti, sul serio drammatici. Il conflitto che dilaniava e divideva in due il mondo presentava e rifletteva sulla scena italiana una fosca, diffusa, sorda violenza, che fu all’origine di molte altre, successive tragedie. Il linguaggio era greve, plumbeo, denigratorio. Da una parte e dell’altra si dicevano cose, come Machiavelli le avrebbe definite, sanza esemplo. Democrazia significa innanzi tutto il «patto» in cui le violenze contrapposte si esprimono secondo una regola da tutti accettata e, sopra tutto, condivisa; e senza «patto» non c’è democrazia, e meno che mai questa può esserci e prosperare dove la regola non sia, oltre che accettata, condivisa come l’orizzonte non oltrepassabile di ogni possibile, ulteriore progresso. Chi perciò in quella violenza avvertiva un pericolo grave per le sorti della giovane Repubblica italiana, e d’altra parte era ben consapevole che la durezza del conflitto costituiva un dato di realtà non superabile con le parole, tanto più drammaticamente viveva in se stesso l’angustia mortificante di quella situazione. Come ho detto, chi in questa situazione si sentiva coinvolto, non era disposto a superarla con le parole; ma anche, e con forza dolorosa, avvertiva il disagio nascente della sua «assolutizzazione» (che costituiva un modo improprio, e persino subdolo, di considerarla «normale»).
La disposizione problematica, che per questa parte era in me, mi estraniò alquanto (lo ricordo bene) dalla conversazione di quella sera. Ma per converso mi consentì di osservare con attenzione quello, fra i partecipanti, che non conoscevo di persona e che mai, prima d’allora, avevo visto all’opera. Con Compagna, de Caprariis, Giordano, Matteucci avevo grande dimestichezza: Spadolini invece non l’avevo mai visto; e, osservandolo, al di sotto dell’apparente giovialità bonomia e gioia di vivere che il suo aspetto esprimeva, mi parve di avvertire e di cogliere qualcosa di diverso e molto peculiare: un tratto di durezza intellettuale, riflesso nel colore grigio-azzurro dei suoi occhi, e un’inclinazione alla malinconia che a tratti affiorava e rompeva, o sembrava rompere, il ritmo dei suoi brillanti paradossi, come se in lui la socievolezza fosse minacciata dalla solitudine.
Ne ricevetti insomma una singolare impressione; e credetti di capire che il personaggio era molto più complesso di quanto, esercitando forse l’arte del nascondimento, egli stesso non desse a vedere. Rispetto ai bon mots degli altri, anche i suoi paradossi mi apparvero diversi, di una particolare natura; e capii più tardi che nascevano dalla sua storia, che era fiorentina in primo luogo, tessuta dalle parole e dalle idee che nella prima metà del Novecento avevano avuto il grido nella sua città: Prezzolini, Soffici, lo stesso Papini, gli scrittori insomma della «Voce» e poi quelli della «Ronda», e così via, senza escludere Gadda e Montale. Una storia fiorentina, e molto diversa dunque dalla nostra, che aveva qui, nella Napoli di Benedetto Croce, e in questo stesso Istituto, il suo luogo ideale. Di questa peculiarità, che poteva anche cogliersi nella qualità del suo «centrismo» degasperiano, credo che non sarebbe giusto trascurare o diminuire l’importanza; e, se ci si fa caso, essa consente infatti di cogliere quel che di estroso e di impaziente era nel fondo del suo animo e che il ragionamento non riusciva del tutto a vincere nella sua radice lontana.
Non si trattava, del resto, soltanto di una peculiarità psicologica ed esistenziale, di un retaggio artistico, di un’inclinazione letteraria. Si trattava anche di idee. Nella sua espressione migliore (che fu senza dubbio quella degasperiana), il centrismo teneva insieme, e cercava di avviare alla sintesi, molte cose, diverse l’una dall’altra. Al superamento delle tentazioni clerico-moderate, o addirittura clerico-fasciste, di una parte del cattolicesimo italiano, che costituì il punto saliente del programma o del progetto degasperiano, faceva riscontro, sull’altro fronte, il ripudio delle esagerazioni anticlericali e radicaleggianti della tradizione laica e democratica. E nel fondo non era difficile cogliere qualcosa come il desiderio di un accordo, per allora inattuale, con i socialisti, una vena, insomma, di persistente giolittismo, una sfida lanciata alla sinistra che i più sensibili avvertivano che non si sarebbe troppo a lungo potuto lasciare ai margini estremi di un sistema del quale, per altro verso, era pur sempre (e non solo dal punto di vista politico-parlamentare) parte integrante. Questo fu, tradotto in termini politici e, insieme, culturali, il centrismo di Spadolini; e vi rifletteva infatti la riflessione storiografica che egli avrebbe di lì a poco svolta, e che già comunque aveva iniziata, sul tema dei cattolici e sull’altro, costituito dall’azione politica di Giovanni Giolitti, che finì per diventare come una sorta di emblema non solo delle difficoltà, ma anche della consapevolezza che allora se ne ebbe nella prospettiva del loro superamento. Giolitti non fu certo, per Spadolini, il ministro della mala vita di salveminiana memoria. Non fu nemmeno il «demiurgo» teorizzato nel primo dopoguerra da Filippo Burzio, uno scrittore torinese che solo pochi oggi ricordano, e che Spadolini, per certo, non aveva dimenticato. Ma, come si è detto, fu tuttavia una sorta di emblema di quel che Spadolini intendeva per «politica»: non un costruttore di nuovi mondi, un rivoluzionario, ma un moderatore e mediatore di istanze e tendenze opposte, un paziente eroe della prosa.
Ai suoi esordi, tuttavia, Spadolini era stato un assai diverso autore e questo spiega perché nella schiera liberaldemocratica egli stesso con un suo accento, a volte paradossale e sempre inconfondibile. Da Oriani, da Gobetti, forse anche da Giuseppe Ferrari, aveva appreso un modo peculiare di concepire e di scrivere la storia: incentrato sulle contrapposizioni e le antitesi brucianti, incline a un tal quale catastrofismo, attento ai fallimenti, alle «rivoluzioni mancate», ai drammi irrisolti piuttosto che alle sintesi «dialettiche» e alle conciliazioni provvidenzialistiche, vicino insomma assai più alla Rivolta ideale e al Risorgimento senza eroi, che non alla Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e alla Storia d’Europa nel secolo decimonono. Non spetta a me di far vedere come in concreto si determinasse questo suo giovanile gusto storiografico, che ha nel libro su Il papato socialista il suo maggior documento, e che, se fosse stato perseguito fino al limite estremo della coerenza e proseguito, quindi, oltre queste prime prove, gli avrebbe procurato un posto di rilievo nella schiera degli storici revisionisti: al polo opposto, dunque, rispetto a quello occupato da Benedetto Croce e, sopra tutto, da Adolfo Omodeo, critico severo della storiografia gobettiana. Non spetta a me di indicare come, nel giovane studioso che faceva le sue prime prove nel mondo insidioso della ricerca storica, questa vena revisionistica vagamente filoprotestante, che gli veniva da Gobetti, da Oriani, forse da Ferrari, si conciliasse e potesse coesistere con il senso acuto del passato e con la nostalgia che ne costituisce l’essenza, con l’amore, fra pittorico e psicologico, del chiaroscuro, che si coglie anche nei suoi inizi e che certo contrasta alquanto con la storiografia delle lacerazioni e delle antitesi, dei processi inconclusi e delle rivoluzioni mancate. Non spetta a me; che, inoltre, nemmeno saprei dire come altresì nel suo animo s’intrecciassero fra di loro il contemporaneo Gobetti e l’ottocentesco e neoghibellino Atto Vannucci, e come altresì nel quadro spadoliniano entrasse Pasquale Villari, un autore non amato da De Sanctis e duramente criticato da Croce (e anche da Gentile). Ma se è certo che l’amore e il gusto del passato, il senso a volte acutamente malinconico del suo essere trascorso e non esserci più, il gusto pittorico che fino all’ultimo giorno Spadolini coltivò insieme alla sua curiosità per i molti volti dell’uomo, lo tennero al di qua di ogni esagerazione moralistica e da ogni revisionismo, vero è anche che agli scrittori che all’una e all’altro avrebbero potuto avviarlo lungo una via senza ritorno egli non disse mai addio. E anche dal loro esempio gli venne, forse, l’interesse per i radicali dell’Ottocento, e poi, per dir tutto con una formula, la netta preferenza con la quale, piuttosto che all’opera di Omodeo (che un suo autore non fu e non divenne mai), guardò all’opera di Luigi Salvatorelli. Per non parlare, naturalmente, ancora una volta di Gobetti, che mai uscì dal suo cuore, e al quale con particolare insistenza tornò negli ultimi tempi della sua vita, quando forse cominciò ad avvertire che questa volgeva al termine e che era tempo ormai di ricongiungere la fine al principio.
Per queste varie ragioni, malgrado la grande considerazione nella quale tenne la tradizione crociana e i fondamentali valori che la costituiscono, come storico Spadolini non è riconducibile a questa. E potrebbe forse persino dirsi che, essendo disposto a definirsi crociano nel senso più lato del termine, la sua adesione a questa cultura fosse bensì senza riserve: salvo che in lui c’era anche «altro», e a tal punto che è proprio l’accordo difficile e problematico di queste due «parti» della sua anima a fare il fascino della sua opera, che perciò non assomiglia a quella di nessun altro fra gli storici della sua generazione, e, prima ancora, direi, della sua personalità. Non da Croce, in effetti, e lo abbiamo accennato, Spadolini era partito. Il filosofo napoletano non era stato fra gli autori della sua giovinezza fiorentina; e si sa quanta importanza abbia, nella formazione del suo «stile», questa stagione della sua vita. Del resto, poco incline alla filosofia, non era per la via di questa che egli avrebbe mai potuto incontrarlo. Egli lo incontrò infatti mentre camminava su una via in qualche modo, rispetto a Croce, indiretta; e fu quando, giunto ormai alla maturità della sua interpretazione della storia d’Italia, le intemperanze e i paradossi che Gobetti aveva ereditati da Alfredo Oriani e, più in là ancora, da Giuseppe Ferrari, a loro volta si liberarono della loro esteriorità, si essenzializzarono, rimasero come una sorta d’imperativo morale a non considerare chiuso e compiuto, ma aperto e da tenere aperto, il lavoro degli uomini che fecero l’Italia. Fu a questo punto (ed è singolare che ciò avvenisse nella carducciana Bologna) che dentro di sé l’allievo di Oriani e di Gobetti, ma anche di Prezzolini, scoprì o riscoprì Croce; che era come nascosto in lui e aspettava di diventarvi attuale.
Spero di essere riuscito a comunicare con qualche chiarezza il senso delle impressioni che nel tempo Spadolini suscitò dentro di me: la sua duplicità, che fu poi la ragione della sua ricchezza e quella altresì che, ora che proviamo a ripensarne l’opera, ci impedisce di trovarlo affine a questo o a quello, e sopra tutto a coloro che pur considerava come maestri. E forse non a torto perché molti studiosi di ieri e di oggi Spadolini amava e ammirava, Salvatorelli e Jemolo, Morandi e Chabod, Valiani e Romeo; ma maestri a rigore non ne ebbe. Intendo maestri che da vicino lo influenzassero e gli insegnassero il mestiere. E maestra gli fu la curiosità, gli fu la fantasia, gli furono i libri che lesse, le occasioni e le esperienze che incontrò e che, tenacemente, seppe mettere a frutto dentro di sé. In questo senso, per chi legga i suoi molti scritti e, attraverso l’individuazione delle ascendenze e delle «fonti», cerchi di capirne il segreto, quello di Spadolini è e rimane un libro chiuso, o, quanto meno, difficile da decifrare. L’uomo è stato definito di forte temperamento egocentrico, dominato da una tendenza, amabile ma perentoria, a porsi al centro del quadro perché lo si osservasse e ammirasse. Ed è vero, chi potrebbe negarlo? Spadolini fu un uomo di aperto, e perciò onesto, temperamento egocentrico: così aperto, e così onesto, che, con il suo sottile senso di humour, egli stesso sapeva scherzarci su. Ma non escluderei che questa fosse la sua esteriorità, un abito che amava indossare a protezione e a difesa di quel che gli si agitava dentro – la malinconia, la solitudine, il pensiero della morte che talvolta s’indovinavano dietro il freddo colore del suo sguardo. Non so se abbia sul serio avuto confidenti, e se anche agli amici suoi più fidati fosse disposto a dire qualcosa di sé. E l’uomo certo era impenetrabile ancor più di quanto sia riconducibile ad altri la sua storiografia, così singolarmente divisa fra se stessa, la letteratura e la pittura. Forse non è un caso che, con ovvia allusione a Johan Huizinga, un suo libro lo intitolasse Autunno del Risorgimento. Nell’omaggio recato al grande studioso olandese, il cui maggior libro avrebbe dovuto, nelle iniziali intenzioni, essere un contributo all’arte dei van Eyck e dei loro successori, e soltanto in itinere divenne l’Autunno del Medioevo, Spadolini volle forse rivelare, ma poi anche nascondere, una parte importante di sé: volle ricordare la pittura di suo padre Guido, e anche che le sue radici erano a Firenze, sulle colline che circondano la città, nel «Tondo dei cipressi», nella più perfetta delle figure geometriche, simbolo del pensiero, ma anche della bellezza, che nell’esprimere se stessa invita a scendere nelle proprie profondità e rende infinita la fatica dell’interpretazione.


Gennaro Sasso

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