A cura di Giampiero Mughini – «Mondoperaio», giugno 1980, pp. 145-151.



Per tutta una generazione, di chi aveva attorno a vent’anni nel luglio 1960, i Dieci inverni (Feltrinelli, 1957) di Franco Fortini sono stati un breviario. Dove imparare a sillabare non soltanto le idee, quel tormentatissimo intreccio di temi culturali e politici, ma anche il modo di stare al mondo. I «fortiniani scalzi», secondo la fulminante espressione di Carlo Muscetta. Ricordo una conferenza di Franco Fortini nella città dove sono nato, a Catania, nel 1964. Una sala zeppa come un uovo. Un’ora e mezza durante la quale non si udì volare una mosca. Una funzione religiosa meritò raramente tanto silenzio, tanta concentrazione, tanta interiorizzazione. Una mia amica, che se stava in un angolo, mi disse più tardi di aver pianto: per la commozione, per la tensione. Di Franco Fortini le edizioni Einaudi hanno cominciato a pubblicare le opere complete in ordine cronologico.



Hai detto, una volta, di avere «gli anni della Rivoluzione d’Ottobre». Lo ridiresti oggi?

Farebbe ridere. La distanza tra noi e l’Ottobre è cresciuta enormemente. Sarebbe come dire «ho gli anni della Rivoluzione francese».

Quella cultura francese che ti è così cara ha perduto di recente due dei suoi protagonisti, Roland Barthes e Jean-Paul Sartre. Ricordiamoli.

Cominciamo da Sartre. Anche in questi ultimi anni avevo continuato ad ammirarlo, periodo maoista a parte. Mi colpiva il suo stile, la sua assoluta mancanza di recitazione, come avviene anche nella lunga intervista che ha rilasciato a Benny Lévy un mese prima di morire. Stavo rileggendo in questi giorni il suo studio su Flaubert dove, assieme a pagine di inaudita difficoltà, ci sono delle intuizioni straordinarie…

E Roland Barthes?

Alessandro Pizzorno mi aveva dato l’indirizzo di Edgar Morin, a Parigi, nel ’55, e lì incontrai per la prima volta Barthes. A Milano facevano «Ragionamenti»; loro avevano in mente una rivista analoga, fui io a suggerirgli il titolo, «Arguments». Sai che l’«argumentum» è il clistere, il serviziale, l’espurgatore insomma?

E «Ragionamenti», come «Arguments», dovevano fungere da clisteri con cui espurgare la cultura di sinistra dei tempi della guerra fredda…

Già. I miei rapporti con Barthes si raffreddarono più tardi. Erano i tempi delle ratonnades antialgerine a Parigi, uomini massacrati di botte, gettati nella Senna. In quel momento il gruppo di Barthes aveva organizzato un raffinato convegno di studi su L’année dernière à Marienbad, il film di Alain Resnais. Scrissi a Barthes il mio stupore per questo loro distacco da quanto succedeva nelle strade di Parigi. Lui mi rispose con una lettera risentita, in cui mi diceva che ogni volta che un intellettuale accusa un altro di disimpegno, è in malafede.

Aveva cioè rotto verticalmente con la tematica dell’«engagement»?

Aveva rotto on l’engagement degli appelli, delle firme. Devo dire, con coerenza più rigorosa di quanto non fosse in Morin, che cercava di far coesistere vitalismo e rivoluzionarismo. Ricordo una frase di Morin: «On fait l’amour et puis on descend dans la rue contre les flics». Strana commistione che confermeranno certi suoi libri successivi, tra il geniale e il delirante.

Ti stai riferendo ai libri scritti «retour d’Amérique»?

Soprattutto quello. Anche se l’innamoramento di Morin per l’America ha una sua spiegazione. Lui è un sociologo e in California non poteva non trovare il paradiso della sua materia e dei suoi interessi. Roland Barthes, invece, il paradiso ce l’aveva sotto casa…

Nelle strade dove avevano camminato Racine e Proust…

Una volta gli chiesi cos’era per lui la Francia. Mi disse: la Francia è per me la lingua francese, nella quale mi trovo come un topo nel formaggio.

Qual è il libro del Barthes degli anni ’70 che ti tocca di più?

L’ultimo, quello sulla fotografia, che trovo molto commovente. Invece i Frammenti di un discorso amoroso mi sembra un libro troppo grazioso, più famoso che davvero importante. Era lo stesso Barthes a riconoscerlo.

E fra i suoi libri più propriamente di critica letteraria?

Esiterei a chiamarlo un critico. Barthes non si mette mai di fronte a un autore, non gli dice: a noi due! Lo affronta di fianco, gli costruisce una rete attorno. Ancor prima che critica la sua è scrittura, coscienza altissima del significante. È stato detto giustamente che le sue Mythologies potrebbero esser lette come delle poesie. In lui c’è tutta la grandezza della prosa e della lingua francese. Strano che fosse Barthes a dire che in fatto di scrittura «o si innova oppure è meglio tacere», lui che ha tutto dello scrittore del XVII secolo. Non ricordo chi diceva che quando Sartre andava a comprare i giornali, al mattino, la statua di Diderot gli faceva un cenno di saluto. Nel caso di Barthes erano le quattro statue di Saint – Sulpice a fargli un cenno di saluto, Bossuet in testa.

Dato che siamo in argomento, quali sono i rapporti tra retorica e verità?

Ho sempre creduto che tra la strumentazione formale di un discorso e il suo senso ci sia una vera identità. Non c’è una «verità» dietro la «forma». La mia personale utopia è quella di un ordine di cose nel quale gli uomini riconoscessero di essere servi delle forme e solo così di poter pagare il loro debito alla verità. Quel che rispondeva Ernst Bloch a chi gli chiese, durante una conferenza, se era ateo. «Sì, sono ateo per amore di Dio», rispose Bloch.

Ritorniamo a Sartre. C’è un passaggio dell’intervista con Benny Lévy che mi sembra di capitale importanza. Avevamo creduto, dice Lévy, che a partire dai «luoghi caldi» della società la si potesse mettere a caldo tutta intera: l’idea della rivoluzione. Oggi, continua Lévy, sappiamo che in ogni società esistono «luoghi caldi» e «luoghi freddi» e che si tratta di farli coesistere, pena lo scatenarsi del terrore e del fanatismo: l’idea della democrazia. Sartre acconsente. E tu?

A questo problema accenna Walter Benjamin parlando delle nozioni del tempo. Esiste il continuum del tempo normale, dice Benjamin, e esiste l’accelerazione del tempo rivoluzionario. Ora sappiamo che qualsiasi illusione di cambiare il continuum del tempo, di accelerarlo, comporta pericoli terribili: il terrore e le stragi. E tuttavia, in determinate circostanze, non è possibile ottenere determinati risultati senza alterare il corso del tempo. È l’analisi che Sartre fa del «gruppo in fusione», riferendola al 14 luglio dell’89. C’è qualcosa per cui il tempo viene vissuto dagli insorti parigini, quella mattina, in maniera diversa da come avevano vissuto le giornate precedenti: ciò che in un certo modo avvicina quell’esperienza all’esperienza erotica. Al polo opposto c’è il tentativo fittizio di accelerare il tempo, di garantire l’eccezionalità di quanto sta accadendo con qualcosa di irrevocabile, da cui non si torna indietro, come, ad esempio, il fatto di sangue: ecco l’orrore del terrorismo.

Come difendersi dalla china che porta al terrorismo o alle forme più distruttive di giacobinismo?

Con la convinzione che ogni società comporta una pluralità estrema di soggetti e di esperienze. Nessuna di queste deve prevaricare le altre. Come diceva Giacomo Noventa: il presente di taluno non è che il futuro di un altro. Del resto è il senso più profondo della lezione marxiana: la rivoluzione non sta nel far cadere il governo del Costarica ma in un processo ben più complesso.

Qualcuno osserva che, se si tratta di un processo complesso, allora Newton conta più di Robespierre: le trasformazioni economiche – sociali sono più decisive del giacobinismo attivistico.

Ed è questo uno dei punti su cui la mia generazione deve fare la più ampia autocritica. In astratto conoscevamo il primato dell’economico – sociale, ma ci siamo fatti prendere dal teatro della politica. Con questo non voglio negare quel che è della politica. Concordo anzi con Mario Tronti nel bisogno di definirne una sua specificità, di regole e di meccanismi. Che la politica fosse arte suprema di adulti lo sapevano i romani antichi, i cinesi di sempre, gli inglesi imperiali. Un bambino inglese lo sapeva a 15 anni. Noi, al contrario, e mi riferisco a gruppi, riviste, rivistine, nell’arco di anni che va dal ’55 sino alla morte di Moro abbiamo pasticciato enormemente contro la politica scambiandola col comportamento del ceto politico.

In morte di Sartre, ho ricordato a Leonardo Sciascia un giudizio del filosofo parigino secondo cui Camus era un uomo di destra. Sciascia mi ha risposto: e allora vuol dire che è meglio la destra.

Il mio giudizio su Camus si avvicina a quello di Sartre e questo malgrado la grande simpatia umana che provavo e provo per lui. C’era in Camus una sorta di estetismo, qualcosa che lo apparentava a Vittorini, il non accettare il senso della contraddizione e volerlo sostituire con il senso della fraternità…

Quando si trattava di battersi e di rischiare, Camus non si è mai tirato indietro.

Lo so bene. E perché tu non creda che io sottovaluti Camus, sappi che da giovane mi ero messo a tradurre L’Etranger per Einaudi (poi lasciai perdere perché i diritti di traduzione li aveva comprati Bompiani). Di quell’esperienza mi restò qualcosa, tant’è vero che in un mio romanzetto Emilio Cecchi credette di ravvisare la lezione della scuola di Kafka e di Camus.

Ma chi aveva ragione, il Sartre di «I comunisti e la pace» o il Camus de «L’uomo in rivolta»?

Avevano torto tutt’e due, tacevano entrambi su troppe cose. È Simone De Beauvoir a ricordare che tra lei e Sartre era intercorso il patto di non parlare dei «campi» sovietici. D’altra parte, con le posizioni di Camus non potevi andare verso null’altro se non constatare la devastante presenza della violenza nella storia degli uomini. In questo Camus è più vicino a Barthes che non a Sartre. Ricordo quella sua frase conclusiva de L’uomo in rivolta, dove, a proposito della Rivoluzione francese, dice che è stato «uno scandalo ripugnante aver presentato come un grande momento della nostra storia l’assassinio di un uomo debole e buono», allude a Re Luigi. Ma senza la Rivoluzione francese, Camus quella frase non avrebbe potuto scriverla perché, figlio di una serva, sarebbe rimasto un servo.

C’è che Camus è il primo, nel dopoguerra, a porre con tanta enfasi il problema della legittimità della violenza.

Indubbiamente, e questo è un suo merito. Anche se il suo mi sembra un elenco un tantino confuso di tutte le forme di violenza e di sopraffazione possibili, dopo aver constatato le quali all’uomo, moderno Sisifo, non resta che tornare a prendere il suo masso, assolvere il suo compito individuale. È un po’ il caso di Antoine de Saint – Exupéry. Lui e Camus sono esempi bellissimi di rigorismo individuale, di nobiltà d’animo. Ma, una volta entrati in quell’ordine di idee, meglio essere completamente agnostici, quel che era divenuto Barthes. Io riconosco la ripresa e l’ampiezza, su scala mondiale, della tematica anarchica; sono disposto ad appoggiare singole iniziative; ma, contemporaneamente, la sento molto estranea. Nelle più recenti tendenze della cultura francese c’è una contraddizione. Da un canto, dopo aver raso al suolo l’umanesimo, predicano che l’uomo non è che l’incontro occasionale di un fascio di forze; dall’altro predicano la più assoluta autodecisione e autodeterminazione dell’individuo, divenuto «vescovo di se stesso».

Scrisse una volta George Orwell che per lui la storia si era fermata al 1936: al tempo cioè dei contrasti interni al fronte repubblicano durante la guerra civile di Spagna. Fu per lui decisiva l’esperienza, fatta in prima persona, della distruzione fisica e politica degli anarchici da parte degli staliniani. E c’è invece uno scrittore, di cui sei stato traduttore e interprete, Bertolt Brecht, per il quale Stalin, le contraddizioni e le stragi interne alla sinistra, sembrerebbero non essere mai esistite.

Ti dico subito che io ho molto amato Orwell e in particolare il bellissimo Omaggio alla Catalogna.
Di non parlare di Stalin, almeno apparentemente, Brecht lo ha scelto, e lo ha fatto per quella che volgarmente si chiama opportunità personale. Le cose le sapeva. Quando andò a Mosca, a metà degli anni ’30, certò di starci il meno possibile. Appena poté tagliò la corda. A costo di lasciare nel letto di un ospedale un’ex operaia tedesca che gli era devotissima, Margarethe Steffin. Sulla Transiberiana gli arrivò un telegramma: la compagna Steffin ha adempiuto il suo ultimo dovere verso il partito. Era morta. C’è un gruppo di poesie di Brecht, che ho tradotto di recente, che va sotto il nome di «Raccolta Steffin», a ricordare quella sua compagna morta in un ospedale russo.
C’è un rapporto di Brecht con lo stalinismo russo e c’è un rapporto di Brecht con lo stalinismo di Ulbricht. La sua scelta di campo, di andare a vivere nella Germania est, non fu senza contrasti: tra la fine della guerra e il suo ritorno a Berlino passano almeno due anni. A quel punto la sua scelta di non parlare di Stalin è semplicemente la scelta di sopravvivere. Sapeva che le sue pièces erano impresentabili sui palcoscenici dell’est. Quando venne a Milano per l’edizione strehleriana dell’Opera da tre soldi, io lo incontrai all’albergo Manin: era felicissimo. Credo, più che per l’esecuzione di Strehler, per il fatto che la sua opera fosse stata rappresentata, ciò che a Berlino non era possibile.
Un altro episodio. Brecht si propose di riscrivere in versi il Manifesto del 1848. Compose qualche centinaio di versi che non sono privi di significato. Di fronte all’uso intimidatorio che della parola di Marx si faceva nei paesi dell’est, Brecht compie un’operazione opposta. Lavora tutto sulla patina formale, un po’ come faceva nel suo teatro quando con quei gettiti di luce violentissima finiva col rendere irreale la scena. Lo stesso effetto di straniamento compie sul Manifesto, ne fa un classico, un poema.

Come fosse l’Ariosto…

Appunto. C’è, come tu dici, un buco nero in Brecht; ma se lo raffronto col buco nero che c’è in un altro grande poeta comunista che ho tradotto, Paul Eluard, si vede che quello di Brecht era un buco piccino e quello di Eluard una vera e propria voragine. Né Brecht ha mai composto dei versi di elogio dello stalinismo come ha fatto Eluard.

Non è in gioco la valutazione dell’intelligenza di Brecht, è in gioco la valutazione della sua morale.

Non te lo nego. Ed è un buco nero di tanta parte della sinistra. Io sono stato uno dei pochissimi che hanno preso le difese di Solzenicyn, quali che siano state successivamente le sue involuzioni politiche. Per il Manifesto scrissi un’intera pagina col titolo «Del disprezzo per Solzenycin» di cui non ritiro una sola parola.

Quand’è che la tua generazione intellettuale seppe per la prima volta dell’esistenza del gulag?

Per la mia generazione, più che l’esistenza dei campi, sono emotivamente importanti i processi di Mosca. Nel ’44, a Zurigo, ebbi la fortuna di trovare un libretto di Victor Serge, 14 fusillés Moscou, la cui lettura fu per me rivelatrice. Acquistai così un considerevole vantaggio sui comunisti del «Politecnico», che dei «campi» e dei «processi» non sapevano o non volevano sapere. Eppure bastava venire a contatto con quel nido di vespe che era la cultura francese per venire a sapere cose che avrebbero messo il prurito sotto la pelle della cultura italiana di sinistra di allora, terribilmente arretrata e disinformata.

Ci sono gli scritti di un certo Ignazio Silone…

Silone mi consegnò la mia prima tessera socialista nel 1944, dicendomi che mi avrebbe dato molti più dolori che gioie. Da parte mia gli dissi di non farsi illusioni, che in Italia non avrebbe avuto successo. Fui facile profeta. Per il resto, di testi antistalinisti ne circolavano davvero pochi. C’era qualcosa che veniva dalla IV Internazionale e qualcosa che veniva dagli anarchici. Tieni inoltre presente la portata della pressione propagandistica antisovietica che era in realtà sconfessione di quel mito o quella realtà che noi chiamavamo Resistenza.

A Zurigo c’è, in quegli stessi anni, uno che diverrà un tuo interlocutore costante, Cesare Cases.

L’ho conosciuto nel dicembre ’43. Io frequentavo l’ambiente antifascista e in particolare Fernando Schiavetti, l’ex deputato repubblicano che nel 1927 si era battuto a duello con Curzio Malaparte. Quell’ambiente aveva un inconfondibile sapore mazziniano; frequentandolo, a me pareva di star leggendo Ippolito Nievo. Nel solaio di Schiavetti gettai lo sguardo su alcune agendine degli anni ’30, dove erano annotati i suoi appuntamenti con Nenni, con i Rosselli, una specie di ministoria degli esuli antifascisti a Parigi. Ogni tanto venivano a far delle conferenze uomini come Stefano Jacini o il vecchio Modigliani. Fu lì che incontrai Cases. Il 6 gennaio ’44, vestito da Befana, ho recitato per i bambini della scuola libera antifascista una lunga sequenza di versi martelliani scritti dal Cases. Ma il mio vero e proprio rapporto intellettuale con lui è di molti anni dopo.

Quando?

A Milano, nei primi anni ’50. Cases faceva coppia fissa con Renato Solmi, che credo fosse stato suo compagno di liceo. Erano entrambi di formazione filosofica: io dovetti imparare il gergo hegeliano per reggere il confronto con loro. Era un giro di cui facevano parte Michele Ranchetti, Armanda e Roberto Guiducci, Delfino Insolera, Luciano Amodio, un altro hegeliano arrabbiato. Il giro da cui nascerà Ragionamenti. Cases mi impressionava per la sua straordinaria lucidità intellettuale, ma anche per la sua ortodossia lukacsiana che apparentemente non conosceva crepe, arrivando sino all’apologia delle autocritiche che Lukács aveva fatto pur di sopravvivere allo stalinismo. Mi era sinceramente amico ma non approvava nulla di quello che scrivevo, per non dire del silenzio assoluto, atteggiamento che non era solo suo, sui miei versi.

Quando si spezza questa crosta e olimpicità lukacsiana?

Poco dopo l’Ungheria, in seguito a un’esperienza di lettore di lingua italiana in un’università della Germania dell’est. Ricordo una gita in auto in Brianza, io, mia moglie Ruth e Cases, e le sue parole di sconforto e di critica nei confronti di quel che aveva visto in Germania.

È di pochi mesi dopo il suo famoso saggio su «Nuovi argomenti».

Pure ancora cauto e misurato nei confronti del «socialismo reale». La sua rottura filosofica e culturale con quel mondo avverrà un poco più tardi. All’ortodossia lukacsiana Cases è andato sostituendo un atteggiamento scettico e critico. Prima ha contrapposto Brecht a Lukács, poi Adorno a Brecht.

Cosa ti interessa di più di Cases?

La sua straordinaria capacità di sistemazione filosofica. Sotto questa luce, il suo testo più bello è forse la prefazione alla nuova edizione de Il mondo magico di Ernesto De Martino, pubblicato da Boringhieri. Un testo che fa il paio, per genialità intellettuale, con la prefazione di Renato Solmi alla prima edizione einaudiana dei Minima moralia di Adorno. Di Cases ricordo anche il giorno della sua investitura a professore ordinario, a Pavia, quando tenne una stupenda prolusione su uno scambio epistolare tra Georg Cristoph Lichtenberg e Alessandro Volta.

C’è un testo politico di Cases di cui volevo chiederti. Apparve sulla prima pagina del «Manifesto» a pochi giorni di distanza dal rapimento di Aldo Moro. Cases vi argomentò la tesi del «né con le Br né con lo Stato».

Non l’ho letto quell’articolo. Nei giorni successivi al rapimento di Moro mi sembrò di star perdendo la testa per la tensione. Le notizie di accavallavano, si contraddicevano. Decisi di scappare a Londra, dove rimasi un mese. Una sera vidi spuntare da una cassetta postale un giornale su cui stava scritto, a grossi caratteri, «SHOT» («ucciso»). Capii.

Abbiamo detto del rapporto con Cases. Parliamo di quello con Roberto Guiducci, tuo sodale ai tempi di «Ragionamenti» e poi teorico di una pista (il centro – sinistra, la programmazione) alternativa a quella da te proposta.

Non voglio in nessun modo sottovalutare la qualità, la generosità, la costanza di Roberto Guiducci. Ho l’impressione però che il continuo rilancio di speranza contenuto nei suoi libri non faccia dovutamente i conti con quel che è successo dell’esperimento politico che lo ebbe tra i principali sostenitori, il centro – sinistra. È come se a Guiducci mancasse una sorta di veduta su se stesso. Lo prenderesti per un uomo fattuale e di notevole equilibrio, e invece ti accorgi che non è affatto così. Sembra impermeabile alle critiche, ed è un atteggiamento micidiale per un uomo che si muove su quei temi.

Hai scritto su «Quaderni piacentini» un testo che, prendendo lo spunto dal «Doppio diario» di Giaime Pintor, era una vera e propria bomba incendiaria. Ti dico subito che di quel testo io giudico straordinaria l’intuizione di partenza, un po’ forzato lo spunto-pretesto offerto dal personaggio di Giaime Pintor. È uno scritto che ti è valso una risentita replica di Luigi Pintor e di Rossana Rossanda.

Ti faccio innanzitutto la storia di quell’articolo. Fu Pintor a telefonarmi, chiedendomi se volevo scrivere qualcosa in occasione della pubblicazione del libro di Giaime. Risposi di sì, con entusiasmo. Passano mesi, esce il libro. Scrivo, invio. Silenzio. Telefono. Mi si dice che Luigi Pintor è spiaciuto di quanto ho scritto, c’è soprattutto una frase che lo amareggia. Dico subito che sono pronto a buttarla via.
Non c’era in me alcuna intenzione di togliere nulla all’eroe Pintor, al coraggio e alla risolutezza della sua scelta partigiana. Fatto è che Luigi Pintor mi manda un biglietto durissimo in cui mi accusa di brigatismo morale. Ci sono stato male per sei mesi. Gli ho risposto con un biglietto molto calmo. Nuovo silenzio. A quel punto decido di passare il resto ai «Quaderni piacentini». Dei tempi contenuti nell’articolo su Pintor avevo accennato in un dibattito pubblico a Milano. La cosa filtrò sulla stampa e «l’Espresso» montò un servizio sull’argomento, battendo in velocità lo stesso numero dei «Quaderni piacentini» su cui era stato pubblicato il mio Vicini e distanti. Nel numero successivo dell’«Espresso» apparve l’articolo di Luigi Pintor che concludeva meravigliandosi come avessimo potuto, per un certo tempo, scrivere sullo stesso giornale, specificando che si riferiva al «Manifesto» e non al «Corriere». Il che mi parve particolarmente offensivo dato che io ero stato uno dei pochissimi collaboratori del «Corriere» a dimettermi al momento dell’avvento di Di Bella e a restare coerente con quella decisione. Sono stato per mesi a prendere appunti, a tormentarmi se rispondere a Pintor, di cui ho grande stima.

Pintor Giaime a parte, il nocciolo di quel tuo testo era l’affermazione di una continuità, culturale e di classe, tra una certa zona del fascismo e una certa zona del postfascismo.

Sì, era l’idea di far saltare l’ignobile convinzione secondo cui il fascismo si riduce al fascismo della guerra civile. L’idea per eccellenza di Giacomo Noventa.

Non a caso riedito con una prefazione che ha colto più acutamente il tema della «continuità» tra fascismo e postfascismo, Augusto Del Noce.

A differenza di Del Noce, che è un filosofo di straordinaria acutezza, quel tema io l’ho interpretato alla maniera viscerale e individuale di un letterato. E per questo mi era parso di un certo interesse che uomini come Elio Vittorini, Giaime Pintor, Pier Paolo Pasolini fossero tutti, in camicia nera, al convegno di Weimar dell’ottobre 1942 (l’articolo che ne scrisse Giaime Pintor fu inviato a «Primato» ma non venne pubblicato).

Imputato Franco Fortini, hai scritto nel 1973 che la Cina è l’unico paese al mondo in cui non ci si vergogna di chiamarsi uomini.

Con una correzione che facevo subito. Che andare a viverci non avrei voluto, ma a morire sì. Tu mi chiedi cos’è rimasto di quel giudizio. Io credo che la difficoltà di capire la Cina sia quasi insuperabile per uno straniero. È impossibile capire se il modo in cui i cinesi stanno fra loro ha a che fare con la storia della loro rivoluzione o invece con loro cose più antiche. È impossibile cioè sapere sino a che punto il loro presente si mescoli al loro passato. Tutto questo senza comunque volerne trarre un qualche giudizio di primato o di modello. Quel che resta del giudizio da te citato è che con la rivoluzione culturale ho imparato, e per sempre, alcune cose del rapporto fra intellettuali e partito: ho capito cioè la fine dell’intellettuale funzionario e dell’intellettuale organico. Al suo posto mi interessa la figura di chi, senza avere alcun mandato, alla fine di una riunione alza il dito e pone alcune domande. Era stato lo stesso Mao a dire: sono solo un maestro elementare che se va sotto la pioggia con un ombrello.

Quel maestro elementare, dicono oggi molte ricostruzioni degli anni della rivoluzione culturale, scagliò le guardie rosse contro i suoi nemici politici. E le guardie rosse non fecero complimenti.

Lo so e ti assicuro che non voglio scaricarmi con leggerezza della morte di nessuno. Dico soltanto che la Cina si è trovata in una macina storica fatta di guerre civili, di milioni di morti, di una rivoluzione vittoriosa. Ricordo una conferenza di Giulio Preti nel ’45 a Milano, quando si era appena finito di seppellire i morti. Guardate, diceva Preti ai suoi giovani ascoltatori, che la rivoluzione è una gran brutta faccenda; comporta case bruciate, bambini gettati dalla finestra; se decidete di farla, la rivoluzione, dovete assumervi la responsabilità di tutte queste cose.

C’è in Franco Fortini, un Franco Lattes o sono la stessa persona?

Non sono la stessa persona. Sono stato e sono tentato, in questi ultimissimi anni, di riprendere l’individualità anagrafica, tanto sento chiuso il quarantennio (1938-1978) di una figura che ho in qualche modo inventata, con l’aiuto, beninteso, della storia universale… e certi diritti umani debbono essere difesi col nome della propria carta d’identità non con la eco di quello che, ahimè, si chiama nome d’arte. Ho firmato Lattes una lettera dello scorso anno al «Corriere della sera» per segnalare il valore civile del gesto di undici operai Fiat che rifiutarono di firmare dichiarazioni di consenso alla politica del sindacato in cambio della sua protezione legale.

Cos’è una donna a un uomo?

Grazie al movimento femminista io sono forse passato dal democratismo nei confronti dell’altro sesso a capire, almeno in parte, la specificità della condizione della donna. Che cosa sia veramente una donna io non lo so ancora. Siccome ho delle relazioni sociali, mi attengo all’atteggiamento liberale di rispetto, e di rispetto intellettuale. Se poi parliamo della donna come fantasma dell’eros, come fantasma dell’inconscio, lì sono proprio balbuziente, continuo a non capire, non mi arrischio a dare giudizi. Devo lottare contro la tendenza a sottovalutare tutto ciò che ha a che fare con la sfera del corpo; e so di avere dei pregiudizi contro le dottrine che lo esaltano oltremodo.

Roversi ha scritto di te: «Personaggio pubblico, la sua figura più vera è forse quella di un uomo che cercando con estrema tenerezza di raccogliere una rosa si è ferito le mani, fino a sanguinare e a soffrire. È quindi un clandestino e un solitario. Per me, io penso che occorre saper scegliere e quindi accettare che le ferite di un raccoglitore di rose non siano affatto diverse, nella sostanza delle cose, da quelle di un soldato. La spina ferisce e uccide come una lama. Solo che non vanno confuse». Ti riconosci in queste immagini, in questo giudizio?

Sì e no. L’immagine che io mi faccio per sopravvivere non risponde a questa; ma capisco che questo è quello che gli altri vedono di me, con l’acutezza dell’amicizia o dell’inimicizia. È stato Nietzsche a scrivere che solo un nemico può condurti per mano all’interno della fortezza di te stesso.

«So benissimo che le mie convinzioni più profonde – vale a dire le sole di cui voglio essere chiamato a rispondere – sono in contrasto con la forma della maggior parte di questi scritti; e che quella è un omaggio a una lingua, a una cultura, a un sorriso, a una meditazione che sono lingua cultura sorriso meditazione di signori. Sono anzi la moneta che pago, il costume che indosso per il diritto di non essere del tutto lasciato alla neve e al vento e di sedere almeno vicino alla mensa dove viene recato il pane degli angeli, cioè degli sfruttatori e dei mangiatori di uomini». È un tuo congedo da un libro di quindici anni fa. Se dovessi riscriverlo oggi, per il tuo oggi?

Lo scriverei pari pari. Con il rimpianto di non aver fatto abbastanza contro gli sfruttatori e i mangiatori di uomini.


Riferimenti bibliografici

Un breve riferimento ai libri e agli articoli citati durante il colloquio. In ordine di apparizione. L’intervista di Jean-Paul Sartre a Benny Lévy è stata pubblicata sui nn. 800, 801, 802 del «Nouvel Observateur», 1980. Di «Ragionamenti», la rivista milanese di Fortini e Guiducci, le edizioni Gulliver hanno di recente pubblicato una ristampa anastatica con «Testimonianze» di Luciano Amodio, Franco Fortini, Armanda Guiducci, Roberto Guiducci, Franco Momigliano (Ragionamenti 1955-1957, Gulliver, 1980, L. 8.500). Il libro che meglio racconta l’esperienza del gruppo francese di «Arguments» è l’Autocritica di Edgar Morin, Il Mulino, 1962. La Chambre claire di Roland Barthes, il saggio sulla fotografia apparso in Francia un mese prima della sua morte, sta per essere tradotto in Italia da Einaudi. Sempre da Einaudi sono state pubblicate le opere principali di Barthes, compresi i Frammenti di un discorso amoroso e Miti d’oggi (che traduce il francese Mythologies). La formula marxiana secondo cui Newton conta più, ai fini della trasformazione della società, di Robespierre si trova in una sua lettera a Engels (devo questa indicazione a Luciano Pellicani). Lo scritto di George Orwell, in cui dice che per lui la storia si è fermata al 1936, è Looking Back on the Spanish War, del 1942, mai tradotto in italiano. Di Paul Eluard, Franco Fortini ha tradotto in italiano le Poesie (Einaudi, 1955). Alcune vicende e problemi della cultura nella RDT, il bellissimo saggio di Cesare Cases pubblicato originariamente su «Nuovi argomenti» (1958), è adesso compreso in Saggi e note di letteratura tedesca (Einaudi, 1963).
Lo scritto di Cases sul «Manifesto», pubblicato a pochi giorni dal rapimento Moro, e l’accesa discussione che ne seguì è riassunta da Giampiero Mughini, Gli intellettuali e il caso Moro, Libreria Feltrinelli, 1978. Il testo di Fortini a proposito di Giaime Pintor, Vicini e distanti, venne pubblicato su «Quaderni piacentini» n. 70-71, 1979. La replica di Rossana Rossanda, Fortini, che cosa ti viene in mente?, venne pubblicata sull’«Espresso» n. 23, giugno 1979. Quella successiva di Luigi Pintor, Com’era mio fratello e come sei tu, sull’«Espresso» n. 25, giugno 1979. Tre parole sulla Resistenza di Giacomo Noventa, con una fondamentale introduzione di Augusto Del Noce, è stato ripubblicato da Vallecchi, 1973. Il saggio di Del Noce è poi stato riversato ne Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, 1978. La frase di Fortini sulla Cina che gli ho «imputato» è in Ancora in Cina, «Quaderni piacentini» n. 48-49. A proposito dei «complimenti» fatti dalle guardie rosse ai loro avversari è utile la lettura della morte di Liu Shao-chi per come è stata ricostruita da due ex-maoisti francesi, Claudie e Jacques Broyelle, sull’«Express» (tradotto sull’«Europeo» n. 24, 1980, col titolo Che la morte sia lenta, Liu deve soffrire). Il giudizio di Roberto Roversi su Franco Fortini è in Scrivere le parole. Dal tempo della Resistenza ai giorni dell’eurocomunismo, il libro più difficile – e disperato – di Franco Fortini, «Il manifesto», 5 ottobre 1978. Il «congedo» di Fortini che chiude la conversazione è in L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, De Donato, 1966.

https://musicaestoria.wordpress.com/...-fortini-1980/