Intervista con Massimo L. Salvadori – «Mondoperaio», luglio-agosto 1980, pp. 89-92



Weber è stato definito un «Marx borghese». Al di là del carattere un po’ di effetto di questa definizione, come si può delineare il rapporto fra Marx e Weber?



Direi che l’accostamento di Weber a Marx poggia sui seguenti elementi: 1) Entrambi sono stati dei «dotti» mostruosi, la cui cultura abbracciava molti campi diversi andando nel profondo. 2) Tale ampiezza nell’ambito delle conoscenze scientifiche non era l’espressione di un gusto, per così dire, più o meno enciclopedico (che si nota, invece, ad esempio in Engels, un altro grande dotto); era la risposta ad alcuni interrogativi fondamentali sul «destino» della società umana, risposta che, per concretarsi, richiedeva una indagine, di dimensione gigantesche, sul passato e sul presente, indirizzata a dare all’uomo strumenti per la costruzione del proprio futuro. 3) In questo senso, tanto Marx quanto Weber considerano la scienza come un mezzo e non come uno scopo. Entrambi si sono collocati nella scia, per fare un solo nome, di Machiavelli. 4) Per interpretare il «destino» dell’uomo nella società contemporanea essi hanno focalizzato la loro analisi sul capitalismo, di cui hanno offerto un’interpretazione volta a coglierne le direzioni di sviluppo.
Credo che quanto ho detto sopra consenta di capire perché Weber è stato definito «un Marx». Bisogna spiegare però perché «borghese». Il motivo è chiaro. Marx giunse alla conclusione che il capitalismo in quanto sistema di sfruttamento fosse da distruggere attraverso un processo rivoluzionario guidato dal proletariato. Weber invece giunse ad una conclusione del tutto diversa: il capitalismo non era solo un sistema di dominio di uomini su altri uomini, eliminabile con l’«espropriazione degli espropriatori»: esso era anche il frutto di un processo di razionalizzazione in cui la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione costituiva un connotato ineliminabile; tanto ineliminabile che anche una società socialista funzionante non avrebbe potuto farne a meno. Infatti, per Weber, la separazione e l’organizzazione gerarchica che da questa derivava rappresentavano una caratteristica necessaria di qualsiasi organizzazione razionale della società. La salvaguardia della libertà umana non poteva derivare, come pensava Marx, dall’eliminazione del capitalismo e delle sue «sovrastrutture» (Weber, come vedremo, era convinto che questa eliminazione avrebbe accresciuto il dominio delle minoranze sulla maggioranza), ma dalla difesa del carattere dinamico del sistema nelle sue varie relazioni interne. Il problema per Weber era quello di impedire allo spirito burocratico di diventare spirito dominante, con la conseguenza di distruggere la creatività umana. Ecco in quale senso Weber è sì un Marx, ma «borghese».


Ma questa denuncia della burocrazia come minaccia era uno dei cavalli di battaglia anche di Marx. Pensa solo alle pagine sulla filosofia del diritto di Hegel e a quelle sulla Comune di Parigi. Lo spirito «antiburocratico» non è perciò un tratto che unisce ulteriormente Marx e Weber?



L’atteggiamento di Marx e Weber di fronte alla burocrazia ha, è vero, un elemento comune, ma al tempo stesso rappresenta il terreno su cui è dato scorgere, nel modo più lampante, lo spartiacque fra i due. Voglio dire che il problema rimane in essi largamente comune, ma il tipo di analisi e il tipo di soluzioni sono del tutto diversi. Più che diversi, antitetici. Per esaminare questo aspetto, occorre inquadrarlo in quello più generale dei rapporti che legano Stato moderno/burocrazia/istituzioni giuridiche e politiche/ economia. Marx ritiene che questi rapporti siano segnati da una coerenza fondamentale, cioè l’organizzazione, in tutti i suoi aspetti, del sistema di sfruttamento economico, per cui il dato «strutturale» economico regge tutto l’insieme degli elementi dipendenti «sovrastrutturali». Da tale impostazione, come è ben noto, deriva una conseguenza: l’abolizione della proprietà privata e la fine del sistema di sfruttamento economico comportano il sovvertimento dell’insieme degli apparati giuridici/politici/ideologici funzionali al sistema capitalistico. La lotta di classe costituisce la fenomenologia concreta delle contraddizioni capitalistiche e della tendenza storica al loro superamento. Marx, coerentemente, pensa che l’organizzazione burocratica sia uno strumento tecnico/amministrativo che incorpora in sé, essendo la burocrazia un corpo separato al servizio delle classi privilegiate, il dominio delle minoranze privilegiate sulle maggiorane sottoposte a siffatto dominio.
Weber non nega che lo Stato moderno, gli apparati giuridici e politici, l’economia capitalistica siano espressione di un dominio di minoranze. Su questo concordava con Marx pienamente. Senonché egli nega che il dominio delle minoranze sia superabile con l’abolizione della proprietà privata. La divisione fra dominanti e dominati, nella società moderna, poggia su un generale processo di espropriazione economica e politica dei secondi da parte dei primi che trova la sua espressione nello Stato, nei partiti, nella fabbrica, dove i vertici esercitano il loro potere attraverso una organizzazione gerarchico/burocratica necessaria ad assicurare l’esecuzione secondo criteri razionali ed efficaci. L’espropriazione politica ed economica è la condizione della centralizzazione. La centralizzazione a sua volta è la condizione dell’organizzazione sociale complessa figlia dello sviluppo, la quale si esprime attraverso la divisione del lavoro, la specializzazione, le gerarchie. Ciò vuol dire che, secondo Weber, il tessuto connettivo della complessità sociale, se non si vuole precipitare nel caos, deve essere necessariamente gerarchico/burocratico. Quindi l’organizzazione burocratica è per Weber l’intelaiatura razionale, cioè efficace, di qualsiasi organizzazione sociale complessa. L’abolizione della proprietà privata – egli pensava – anziché porre fine all’espropriazione dei lavoratori salariati, l’avrebbe allargata, in quanto la collettivizzazione dei mezzi di produzione avrebbe attribuito alla burocrazia statale, sottraendolo ai capitalisti, un potere anche economico senza precedenti. Il potere sottratto ai capitalisti sarebbe stato affidato non ai lavoratori, ma ad un nuovo ceto di funzionari e di managers statali, il quale avrebbe concentrato nelle proprie mani quei poteri statali ed economici che nel capitalismo non sono organicamente fusi. Il dominio e le gerarchie non sarebbero quindi venuti meno, ma avrebbero mutato la loro base, aumentando i poteri dei dominanti sui dominati. Weber affermava significativamente che contro uno Stato divenuto strapotente i lavoratori non avrebbero certo più potuto scioperare, così perdendo quella capacità di resistenza che essi conservavano nel capitalismo grazie alla loro organizzazione autonoma politica e sindacale. Per Weber, è chiaro, gli ideali di una società senza Stato, senza burocrazia, ecc. erano espressione di un utopismo estremo, «musica dell’avvenire», una sorta di ideologia messianica destinata ad una caduta verticale. Weber riteneva dunque sì il socialismo possibile, impossibile però la realizzazione del progetto rivoluzionario marxiano, da lui ridotto ad una forma di «socialismo utopistico». L’unica forma di socialismo realizzabile per lui era il socialismo burocratico.
Sicché, il «destino» della società moderna è un destino burocratico. Ma Weber non amava affatto la prospettiva di una generale burocratizzazione della vita, di cui il socialismo realizzato avrebbe rappresentato a suo avviso il compimento estremo e disumanizzante. Gli uomini delle società sviluppate si trovano, secondo Weber, fra Scilla e Cariddi, fra la necessità di accettare il carattere imperativo della burocratizzazione della vita e il compito di impedire che questa burocratizzazione schiacci l’uomo, privandolo della sua anima. Il da fasi per Weber è accettare la razionalità burocratica da un lato, e dall’altro sottoporre questa stessa razionalità a controllo. L’idea di distruggere la razionalità burocratica opponendo ad essa l’ideale della società senza classi, dell’autogoverno, dell’estinzione dello Stato era come tentare di spaccare il ferro con la cera. Weber pensava che la nemesi del socialismo antiburocratico sarebbe stata quella – una volta consumato il proprio fallimento – di capovolgere se stesso e di giungere a spaccare con il ferro della burocrazia la libertà umana ridotta a cera.


Come giudicò Weber il socialismo della sua epoca?



Weber analizzò in termini estremamente acuti le contraddizioni proprie della socialdemocrazia tedesca. Tanto acuti che molti dei suoi giudizi sono in seguito diventati luoghi comuni della storiografia. L’essenza della sua valutazione può essere così espressa. La socialdemocrazia tedesca poggia su una scissione fra teoria e pratica: la prima rivoluzionaria, la seconda non rivoluzionaria. Questa scissione è storicamente radicata. La teoria rivoluzionaria è il frutto del radicalismo delle origini, generato dall’emarginazione politica e sociale degli operai, ed espressione «religiosa» dell’aspirazione alla liberazione totale e definitiva da questa emarginazione. Il Manifesto dei comunisti è il grande documento «profetico» di siffatto radicalismo. Bismarck, con la sua politica antisocialista, ha contribuito in maniera determinante a lasciare la socialdemocrazia nell’isolamento e quindi a dare all’ideologia rivoluzionaria una funzione di «integrazione» interna ad un partito isolato nella società e nello Stato. Funzione rimasta inalterata anche quando in concreto la rivoluzione aveva cessato di essere una prospettiva realistica, perché la leadership politica del partito, pur dopo la fine delle leggi antisocialiste, considerava il marxismo come un cemento ideologico della propria base e un mezzo per dirigerla.
Anche dopo il 1890, la classe dirigente tedesca favorì con tutti i mezzi l’isolamento della socialdemocrazia, denunciata come il nemico interno, la quale fu così indotta a conservare l’ideologia rivoluzionaria sia pure in termini sempre più vaghi e astratti. Il revisionismo di Bernstein venne respinto perché giudicato tale da costituire un fattore di destabilizzazione interna al partito, quindi per motivi strumentali e funzionali alle esigenze del partito in quanto macchina, e non perché il partito continuava ad essere effettivamente rivoluzionario. A partire dallo svuotamento della rivoluzione come possibilità pratica e dalla utilizzazione del marxismo contro il revisionismo a fini di integrazione interna, la socialdemocrazia tedesca, divenuta col tempo una potente macchina burocratica, un vero «Stato nello Stato», venne a poggiare appunto sulla scissione organica fra teoria e pratica.
Partendo da questi presupposti analitici, Weber impostò la sua proposta strategica. Convinto com’era per un verso che il capitalismo fosse ben lungi dalla sua fine e dall’altro che la Germania avesse bisogno di unificazione sociale di tipo nuovo, tale da consentire ad essa di presentarsi sulla scena delle lotte mondiali su basi di forte coesione interna – Weber era un acceso nazionalista – condusse una forte polemica contro quei conservatori che per i propri fini o per incomprensione prendevano per buona la minaccia rivoluzionaria della socialdemocrazia, auspicando per contro il pieno riconoscimento dei diritti economici e politici della classe operaia, della funzione dei sindacati e degli effetti positivi del coinvolgimento della socialdemocrazia nelle amministrazioni comunali. Weber non aveva alcun timore di un partito socialdemocratico in cui il marxismo rivoluzionario era una semplice facciata e valutava esattamente il carattere moderato dei sindacati, da lui apprezzati come la più autentica espressione degli operai. Non risparmiò commenti impietosi e sarcastici a ciò che si potrebbe chiamare la rivoluzione propagandata in poltrona. Dal punto di vista umano il suo rispetto era per gli autentici rivoluzionari, che però riteneva dei folli in stato di innocenza teorica.
Dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi in Russia e in relazione alla crisi del dopoguerra soprattutto in Germania, Weber si oppose attivamente alle correnti rivoluzionarie. In Germania auspicò un blocco socialdemocratico/sindacale/borghese in grado di contrastare le ali rivoluzionarie del movimento operaio, il cui successo politico avrebbe a suo giudizio determinato la catastrofe economica e politica. Il suo scopo era di ridare dinamismo al sistema capitalistico: un dinamismo che attribuisce un ruolo preciso ma subalterno alla socialdemocrazia e ai sindacati.
Il bolscevismo venne bollato da Weber come dittatura militaresca e predatoria capace di consumare risorse ma non di ricostruirle. Facendo proprio un giudizio allora largamente diffuso, ritenne che esso, con ogni probabilità, non avrebbe potuto durare al potere a lungo. Egli non seppe riconoscere l’anima burocratico/centralistica del leninismo, quell’anima che consentì al bolscevismo di costruire il futuro potere sovietico. Comunque, Weber affermò che, nella misura in cui il bolscevismo durava al potere, ciò avveniva perché questo rinnegava il proprio programma originario.


In quali termini delineò Weber il funzionamento di una società del socialismo realizzato?



Come ho già sottolineato, Weber polemizzò con i marxisti sulla necessità storica del socialismo, di un socialismo concepito quale prodotto delle irresolvibili contraddizioni del capitalismo. Ammise però che il socialismo fosse realizzabile. Egli cioè non negava la possibilità che, se si fossero determinate certe circostanze storiche specifiche (Weber comprese che lo spirito imprenditoriale capitalistico stava entrando in crisi e che una simile crisi avrebbe potuto favorire l’avvento del socialismo), si sarebbe arrivati a una società post-capitalistica.
La storia reale del capitalismo dopo Marx aveva dimostrato, secondo Weber, di andare in una direzione che aveva ben poco a che fare con le previsioni marxiane. L’analisi weberiana sullo sviluppo capitalistico si trovò nei punti decisivi – come si può vedere con estrema chiarezza da Der Sozialismus del 1918 – a coincidere con l’analisi che vent’anni prima aveva condotto Bernstein. Non quella polarizzazione del corpo sociale su cui Marx aveva poggiato l’ipotesi rivoluzionaria; le masse lavoratrici avevano visto riconosciuto il proprio ruolo nel sistema capitalistico e si erano organizzate prevalentemente per la difesa di questo stesso ruolo e non per la sovversione del sistema; una grande dilatazione dei ceti intermedi, orientati più in senso antisocialista che in senso socialista; crescita del ruolo delle specializzazioni e delle gerarchie; sviluppo enorme degli apparati burocratici, di cui nessun tipo di amministrazione di un sistema industriale può fare a meno; una grande concentrazione degli apparati industriali, ma anche una accresciuta capacità di guida interna al sistema e quindi di controllo delle crisi. La crisi del capitalismo e della funzione in particolare della proprietà privata avrebbe avuto come conseguenza il passaggio del potere industriale a una classe di managers e di burocrati, che avrebbero concentrato nelle loro mani, una volta statizzata o collettivizzata l’economia, il controllo sulla globalità della società. Uno stato proprietario anche dei mezzi di produzione avrebbe dato tutto il potere – politico, ideologico ed economico – al suo strato dirigente. I lavoratori sarebbero stati espropriati in ogni senso.
In Economia e società Weber ha argomentato la tesi che il marxismo poggiava su una contraddizione fatale. Da un lato lo spirito centralistico/pianificatore, dall’altra lo spirito antistatalista e antiburocratico. Per Weber dire pianificazione voleva necessariamente dire statalismo e burocratismo; del pari antistatalismo e antiburocratismo volevano dire impossibilità di pianificare. In ogni caso il socialismo era possibile solo in quanto pianificatore e quindi in quanto socialismo burocratico. Qualsiasi realizzazione dell’antistatalismo e dell’antiburocratismo avrebbe significato irrazionalismo e distruzione delle basi stesse di una società industriale. Kelsen mise in luce questa stessa contraddizione nella sua opera su Il socialismo e lo Stato.
Il destino del socialismo pianificatore era dunque per Weber quello di portare all’eccesso la burocratizzazione, con ciò dando alla burocrazia una signoria assoluta sulla società e portando al congelamento dell’anima umana. La logica suprema della burocrazia onnipotente sarebbe stata quella di autoriprodursi e di conservare il proprio potere. Il potere burocratico, ormai incontrollato, avrebbe accentuato come mai prima un dominio sulla società basato sulle sue prescrizioni e sui suoi comandi, alternando gli appelli di natura ideologica alla repressione. D’altra parte, neppure nella società burocratica i contrasti generati dai diversi interessi sarebbero cessati. Per questo la burocrazia dominante, non potendo aprire il proprio sistema alla compartecipazione dei dominati, avrebbe avuto come regola suprema quella di governare attraverso una dittatura volta a preservare la propria autocrazia.

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