di Pietro Nenni – «Mondoperaio», giugno 1960, n. 6. Si tratta di un discorso pronunciato da Nenni il 28 marzo 1960 a Bruxelles.



Il tema che mi è proposto dalle prospettive attuali del socialismo in Europa, accentra su di sé, in questo momento, l’attenzione di tutti coloro che si interessano all’avvenire del nostro continente e della umanità.
Ne parlo volentieri a Bruxelles dove sono venuto sovente durante il mio lungo esilio e dove ho avuto amici i quali hanno occupato un grande posto nella storia del socialismo; mi basti ricordare, per riferirmi soltanto ai morti, Emilio Vandervelde e Luigi De Brouckère.
Ne parlo volentieri in un paese e in una città dove il movimento socialista ha posizioni di grande importanza, dove ha combattuto memorabili battaglie, dove è chiamato a grandi responsabilità.
La prima osservazione che vorrei fare è che esistono attualmente le condizioni obbiettive di un passo decisivo in avanti del socialismo europeo ma che tali condizioni obbiettive di per sé sole non bastano, in quanto l’evoluzione della società non è un fatto automatico, non è inscritta negli astri, è opera dell’azione degli uomini in condizioni determinate dall’ambiente storico e sociale, dipende per i socialisti dalla tecnica di realizzazione della loro giusta dottrina.
Tra i fattori che stanno creando le condizioni di un vero e proprio salto storico dell’umanità vengono in primo luogo il nuovo corso distensivo della politica internazionale (col trasferimento sul piano del negoziato degli urti di potenza finora cristallizzati nell’ambito della politica della forza); le grandi scoperte scientifiche e tecniche che stanno rivoluzionando i rapporti di produzione e quelli sociali e spezzano i quadri nazionali dell’economia, con conseguenze analoghe a quanto avvenne a metà dell’Ottocento in seguito alle mirabili scoperte della forza motrice e della locomotiva, nella quale Marx vedeva un fatto rivoluzionario; lo scoppio della libertà in Africa e in Asia, con la fine degli imperi coloniali coi quali era cominciata, all’incirca un secolo fa, la trasformazione del capitalismo dalla fase liberista e liberale alla fase imperialista e reazionaria.
Per un secolo il socialismo è stato all’avanguardia del progresso che ha cambiato la faccia del mondo. Ma da qualche tempo in qua esso sembra colpito in Occidente da un inaridimento dell’azione e dell’ottimismo della volontà, mentre nella forma comunista assunta nell’Est europeo, ristagna in forme di burocratizzazione, specie nei paesi dove non c’è stata una grande spinta rivoluzionaria dal basso, come in Russia, in Cina e in Jugoslavia, e il comunismo è una importazione ed una creazione dall’alto.
Il punto più basso della parabola fu raggiunto alla fine del 1956 con la compromissione della SFIO nell’avventura di Suez e la sanguinosa repressione in Ungheria di un moto popolare di rivolta provocato dal dispotismo di una dittatura di partito.
Il socialismo occidentale riparte nel 1960 da una crisi assai seria, dopo la sconfitta in Francia della democrazia e dopo le recenti sconfitte elettorali in Germania, in Inghilterra, nel Belgio. Esso è quasi ovunque alla opposizione, fatta eccezione per i partiti scandinavi e per la socialdemocrazia austriaca. Questa può essere una condizione di favore se concorrerà a ridare al movimento l’energia di un tempo, a ricreare l’unità dei metodi col fine.
Tuttavia non può esserci azione coerente ove manchi chiarezza nei principi e nell’indirizzo generale. Da questo punto di vista il revisionismo di cui oggi tanto si parla va considerato da un duplice punto di vista. Esso è un elemento positivo, connaturato alla natura stessa del movimento socialista, se rivolto a ricercare una migliore tecnica di applicazione dei principi del socialismo e un adeguamento dei metodi alle nuove condizioni sociali, fuori di che c’è soltanto dogmatismo e stagnazione, c’è un clericalismo, rosso o nero che sia. Esso è un elemento negativo se segna, come è avvenuto in Germania col congresso socialdemocratico di Bad Godesgerg, una rottura con la dottrina, un passo indietro dal socialismo scientifico all’utopismo piccolo borghese, da Carlo Marx a J. J. Rousseau com’è stato giustamente detto. La «querelle» ideologica s’è chiusa in Inghilterra con un compromesso tra quello che viene chiamato il «vecchio Testamento» (cioè il programma originario che al paragrafo quarto contempla la socializzazione della proprietà capitalistica e dei mezzi di produzione) e il «nuovo Testamento», vale a dire i 12 punti di Gaitskell (che costituiscono una specie di programma minimo rispetto alle finalità).
È compito della sinistra socialista assicurare in ogni partito la fedeltà alla dottrina ed alla metodologia del socialismo scientifico, fuori dal quale il socialismo scade al ruolo di una sinistra borghese e liberale. Ma così non vuol dire che non ci sia nulla da cambiare nel linguaggio, nel metodo, nelle prospettive.
Molte cose in verità sono cambiate nella società da quando Marx lanciava, nel 1848, lo storico manifesto del socialismo scientifico preparato qui a Bruxelles, e pubblicava, una ventina di anni più tardi a Londra, il Capitale. Né il movimento operaio né il capitalismo sono più quali erano un secolo fa.
E tuttavia se sono cadute alcune delle teorie economiche e delle previsioni politiche dei fondatori del socialismo moderno, rimane valida la loro concezione del divenire della società: rimane valido il loro giudizio sul capitalismo.
Il capitalismo non è in grado di risolvere la contraddizione tra l’interesse privato e l’interesse collettivo; soprattutto non è in grado di riassorbire la più profonda delle sue contraddizioni, quella che Marx ravvisava nella lacerazione della società tra un processo di crescente concentrazione capitalistica e un processo di crescente dipendenza salariale degli operai, degli impiegati e dei tecnici, tale da creare dislivelli sociali i quali tolgono concreto valore al principio democratico della eguaglianza dei cittadini.
Nei confronti del capitalismo il socialismo si pone, oggi come un secolo fa, in termini di negazione e non di conciliazione. È questa la sua forza ideale e morale e politica.
Nulla è più ingiusto di considerare i valori morali come estranei al socialismo, soltanto – come diceva Blum (del quale ricorre oggi il decimo anniversario della morte) – il socialismo ha dato a tali valori un altro senso, li ha sganciati dalla metafisica dei miti e collocati coi piedi per terra.
I comunisti hanno molto insistito negli ultimi anni sull’antirevisionismo. Essi vedono nel revisionismo il nemico numero uno. Tuttavia occorre riconoscere che la parola ha per loro un significato diverso di quello che noi gli diamo. Essi chiamano revisionismo il valore permanente della democrazia nella lotta per il potere e nell’esercizio del potere e chiamano revisionismo il comunismo nazionale che respinge i blocchi militari e respinge la direzione centralizzata del movimento internazionale. C’è, nella loro polemica, il rifiuto o l’impossibilità di andare a fondo in quel tanto di revisione che fu posta in atto dal XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica con una critica coraggiosa agli errori del passato, la quale però si arrestava alla denuncia del culto della personalità e dei delitti di Stalin, senza mettere in discussione la concezione egemonica del partito e dello Stato che è alla base del leninismo, la potenza incontrollata degli apparati che caratterizzò il trentennio staliniano, l’assenza di organiche garanzie di vita democratica che sono le cause vere della degenerazione del potere rivoluzionario.
E tuttavia è facile prevedere che codesta polemica non arresterà quel tanto, quel molto di nuovo, che è maturo nei paesi dell’Est, come conseguenza delle stesse vittorie comuniste nel campo della produzione, della scuola, della tecnica e della scienza e che non può non tradursi in una sempre maggiore esigenza di allargamento della base democratica dello Stato e della assunzione delle masse a più alte responsabilità politiche, non può cioè non sfociare in forme nuove di democrazia.
In tal senso la politica della distensione opera in tutti i paesi del mondo, quelli comunisti compresi, nei più avanzati e nei più arretrati, in Europa e in America, in Asia e in Africa, come un fermento di rinnovamento in tutti i campi e in tutte le direzioni.
Stanno così di fronte al movimento operaio europeo due battaglie di fondo. Una è la battaglia per la distensione internazionale, l’altra è quella per le riforme economiche e sociali di struttura, attraverso le quali il progresso tecnico si traduce in progresso sociale. È questa la battaglia per dare un contenuto sempre più concreto alla vita democratica.
Diversi fattori hanno aperto la via alla politica della distensione. Uno è rappresentato dalla spinta dei popoli per la pace; un altro dal fallimento della politica delle posizioni di forza, quale fu concepita dal fu segretario del dipartimento di Stato americano Foster Dulles e lo è tuttora dal cancelliere tedesco Adenauer; un terzo fattore è la rinuncia sovietica alle vecchie tesi della guerra inevitabile e della lotta di classe (la quale diverrebbe tanto più drammatica ed intransigente quanto più avanza la costruzione del socialismo); un quarto fattore è rappresentato dal progresso stesso delle armi nucleari che farebbe della terza guerra mondiale un suicidio universale.
Nella previsione e nella preparazione del nuovo corso della politica mondiale la socialdemocrazia europea si è lasciata sorpassare da gruppi liberali e democratici americani ed europei, i quali hanno avuto prima di essa la consapevolezza dei termini diversi e nuovi in cui ormai si pongono i problemi della organizzazione della pace.
Oggi la linea di divisione dell’Europa e del mondo non è più quella che oppone tra di loro il blocco atlantico e quello di Varsavia, ma è quella che entro i blocchi e fuori, separa quanti vogliono sostituire il metodo dei negoziati e della coesistenza pacifica, da quanti, in un campo e nell’altro, non vogliono perpetuare la divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi, ma dei blocchi accettano la ideologia in termini di fanatismo e di intolleranza.
Il problema non è più quello della accettazione o del rifiuto dei blocchi militari, ma dell’impegno di creare tra di essi, e tra tutti gli Stati, le condizioni della sicurezza collettiva e della coesistenza pacifica e competitiva.
La via che conduce alla pace non è facile e neppure breve. Ci sono stati e ci saranno grossi ostacoli da superare. La conferenza di Ginevra sul disarmo, quella sulla limitazione o soppressione delle esperienze nucleari, l’ormai imminente conferenza al vertice, si presentano irte di difficoltà[1]. Basti pensare alla complessità della questione tedesca e di Berlino. E tuttavia basterà avere coscienza dei rischi che minacciano l’umanità per percorrere la via della pace fino in fondo, senza lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà. In questa battaglia l’impegno socialista ha da essere senza riserve e senza limiti. Il socialismo non si identifica con nessuna posizione di forza e di potere dei singoli Stati o dei blocchi. Esso si identifica soltanto con la pace.
La seconda grande battaglia del socialismo è quella delle riforme di struttura, attinenti al sistema della produzione oltre a quello della distribuzione, sia sul piano nazionale che su quello della integrazione europea. Su questo terreno il socialismo e il sindacalismo operaio dànno la misura della loro capacità d’azione.
L’euforia inerente alle condizioni attuali di relativa prosperità, ha fatto dimenticare la permanente minaccia di crisi insita nella struttura economica capitalista. Ne è nata una polemica artificiosa sulle nazionalizzazioni, la quale è il riflesso delle illusioni alimentate da una congiuntura economica favorevole di cui nessuno sa se e quanto durerà. La nazionalizzazione dei maggiori complessi produttivi e lo sviluppo del settore pubblico dell’economia, rispondono ad esigenze ineluttabili, ad un tempo economiche e politiche, tecniche e si potrebbe dire morali.
Si sente parlare di un pericolo per la libertà umana, in un mondo che va verso forme economiche e politiche di più in più egualitarie. Il pericolo esiste e lo si risolve non già lasciando le strutture economiche in balia dei monopoli e dei cartelli privati, sibbene organizzando il settore dell’economia pubblica e dei servizi nazionalizzati o socializzati sulla base della più larga decentralizzazione, del controllo operaio e della autonomia amministrativa. Lo si risolve con l’auto-gestione delle aziende; lo si risolve con le cooperative agricole, cioè con forme associative in cui l’interesse e la libertà individuale si conciliano con l’interesse e la libertà collettiva.
Allora la pianificazione, la nazionalizzazione, la socializzazione perdono ogni aspetto tecnocratico e burocratico e diventano manifestazioni di vita democratica.
Su questo piano la lotta non va condotta soltanto sul settore nazionale ma su quello europeo. L’esperienza del mercato comune sottolinea le insufficienze del movimento socialista e di quello sindacale. La pressione dei monopoli e dei cartelli capitalisti si esercita in modo attivo su ogni manifestazione ed attività del MEC. Le organizzazioni sindacali assicurano in ordine sparso, e con scarsa efficienza, la tutela degli interessi dei lavoratori dei diversi paesi che hanno interessi tra di loro solidali.
È su questo terreno, sul terreno della lotta per la pace e sul terreno delle riforme di struttura, che il socialismo europeo giuoca la sua carta decisiva, non solo nei rapporti con l’Est dell’Europa, ma nei rapporti coi paesi nuovi dell’Asia e dell’Africa, il cui peso politico è in progressivo aumento e che vanno aiutati non solo economicamente ma anche politicamente.
La lotta si presenta in condizioni diverse da paese a paese; appare più agevole laddove le classi lavoratrici sono politicamente e sindacalmente unite; pone in Francia in Italia e nella battaglia clandestina in Spagna il problema dei rapporti coi comunisti, che non possono considerarsi in termini di alleanza politica o di fronte popolare, da quando è apparso chiaro, attraverso l’esperienza, che dietro tali formule, il comunismo non rinuncia mai alla sua volontà di egemonia, ma che non possono essere neppure rapporti tali da prescindere dai comuni interessi dei lavoratori nelle loro quotidiane rivendicazioni di classe e di categoria; pone nei paesi cattolici il problema dell’incontro tra i socialisti e le tendenze cattoliche di sinistra, particolarmente attive e vivaci, in Francia, in Italia, in Spagna, nonché quello della confluenza con i gruppi e i partiti di democrazia laica.
Un problema di codesta natura è al centro della crisi ministeriale che si svolge in Italia da due mesi ed è al centro della crisi politica che sovrasta la crisi ministeriale[2].
L’oggetto stesso della lotta è diverso da paese a paese, pur avendo ormai un dato comune nella esigenza dell’autonomia dei socialisti, autonomia non solo nei confronti dei comunisti, come da tanta parte si dice e mi si dice, ma autonomia rispetto all’ideologia ed agli interessi dei partiti borghesi e delle forze di conservazione.
La battaglia più generosa e coraggiosa è quella della opposizione al regime di Franco in Spagna che purtroppo non solleva al di qua dei Pirenei e oltre Atlantico l’interesse, la simpatia, la solidarietà effettiva di tutti i democratici e di tutti i socialisti. La battaglia destinata ad incidere più profondamente sui destini dell’Europa è quella dell’opposizione in Francia contro il potere personale del generale De Gaulle e le interferenze dell’esercito sul potere civile. In Germania incombe sulla socialdemocrazia il compito di fronteggiare con ogni energia la rinascita militarista che, come nel primo dopoguerra, si avvale della complicità della classe politica al potere, per riprendere, in forme diverse ma con non mutato spirito, i vecchi piani di egemonia continentale. Da noi in Italia il problema dei socialisti è ancora quello di portare a un livello più alto la ristrettezza materiale della condizione economica dei lavoratori e di allargare la base dello stato con l’immissione dei lavoratori nelle responsabilità del potere.
Sono lotte diverse che hanno in comune il duplice obbiettivo della conquista democratica dello stato e della conquista socialista della democrazia.
Sono lotte che tra di loro si condizionano e si sostengono, in una solidarietà che noi vorremmo meno burocratica ma più operosa tra le forze socialiste in tutta l’Europa.
Forse è caduto in questo ultimo quarantennio il mito della «lotta finale» come viene cantata nell’inno famoso dell’«Internazionale». Forse è vero che non c’è una lotta finale, che il destino dell’uomo è quello di un eterno ricominciare da capo, che superate le contraddizioni di una società divisa in classi altre se ne presentano. Ciò che importa è andare avanti, ciò che importa è salire gradino a gradino la scala che se non è quella di una umanità perfetta, senza problemi e senza contraddizioni, è però quella del progressivo elevarsi della lotta politica e della lotta di classe ad un livello sempre superiore di civiltà, di progresso, di fraternità.
Il socialismo non è altro che questa lotta nella sua più alta espressione di pace tra gli Stati e di giustizia egualitaria tra gli uomini.

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[1] La conferenza al vertice convocata a Parigi per il 16 maggio, è drammaticamente fallita. Pochi giorni innanzi, esattamente il Primo Maggio, l’abbattimento in Unione Sovietica dell’aereo americano U 2 che sorvolava il territorio russo per fini di spionaggio, aveva aperto una arroventata polemica tra Mosca a Washington, nel corso della quale l’America andò fino a teorizzare il diritto di sorvolo per evitare attacchi di sorpresa. Krusciov si trovò così in mano una carta polemica e politica formidabile. Grande parte dell’opinione mondiale e una parte di quella americana presero aperta posizione contro la provocazione dei militari americani e la tesi del Dipartimento di Stato. Krusciov sciupò in parte la sua carta presentandosi a Parigi con una richiesta pregiudiziale, di spiegazioni e di scuse, giusta in sé, ma che avrebbe trovato la sua sede naturale nel dibattito contestuale sul disarmo e sulla sicurezza. Tutti i problemi sono rimasti aperti. Ma si potrebbe dire che la gravità dell’incidente americano – sovietico ha confermato il carattere irreversibile della politica della distensione. Per molto meno (dispaccio di Ems, colpo di rivoltella di Serajevo) in altri tempo sarebbe scoppiata la guerra.

[2] Infatti la crisi ministeriale è stata formalmente chiusa il 29 aprile. La crisi politica e in particolare la crisi interna della DC, si sono fatte da allora ancor più gravi.