Intervista con Randolfo Pacciardi a cura di Giampiero Mughini - «Mondoperaio», aprile 1982, pp. 134-135.

Il 1982, anno «garibaldino», era quello adatto per ricordare l’epica dei combattenti italiani per la libertà della Spagna repubblicana. Apre così il 13 maggio, a Palazzo Braschi, organizzata dal romano Istituto di studi per la storia del movimento repubblicano, una grande mostra dedicata al «Battaglione Garibaldi». Il nocciolo ne è costituito dall’archivio personale del comandante del Battaglione, Randolfo Pacciardi. Altri apporti verranno dall’archivio Berneri, di proprietà della famiglia dell’anarchico ucciso in Spagna dai comunisti, e dell’archivio della famiglia di Bruno Lugli, un militante di «Giustizia e libertà» caduto in Spagna, di cui viene offerto l’inedito diario. Supervisore della mostra è stato Giorgio Braccialarghe, capo degli arditi del Battaglione Garibaldi.
Il «comandante» Pacciardi godeva di un’eccezionale popolarità nell’esercito repubblicano. Ernest Hemingway, che in Spagna c’era da giornalista, lo definì beautiful in action, splendido nel momento dell’azione. Michail Koltzov, il bravissimo corrispondente della «Pravda» (poi scomparso nelle purghe staliniane), lo descrisse con ammirata simpatia. Da due anni Pacciardi, le cui polemiche contro il centro-sinistra sono ormai lontane, è rientrato nel PRI. Gli abbiamo chiesto di rievocare per «Mondoperaio» la sua straordinaria esperienza.

Pacciardi, cosa la indusse ad andare in Spagna?


Una lettera di Carlo Rosselli dell’agosto ’36, dove mi scrisse che si stava formando in Spagna una legione internazionale e mi chiedeva se potevano contare sul mio concorso.


Per lei era l’occasione di potersi finalmente misurare faccia a faccia con i fascisti, cosa che non le era stata possibile in Italia, nel ’25, dopo il delitto Matteotti.

Fossi stato più esperto, nel ’25, come ho scritto nel mio libro Il Battaglione Garibaldi, avrei tentato l’insurrezione contro il fascismo, che era in un momento di gravissima difficoltà.

Uomo d’azione lei lo era stato fin da giovanissimo, fin dalla sua partecipazione, come volontario diciassettenne, alla prima guerra mondiale: una proposta di medaglia d’oro, cinque decorazioni al valore, imprese mirabili…

Quelle che lei giudica imprese mirabili sono in parte imprese avventurose, tentate per sopravvivere: così è stato al ponte di Livenza, dove andai all’attacco di un nugolo di ungheresi perché era l’unico modo per salvare la pelle.


Torniamo alla Spagna.

La possibilità di andare in Spagna dalla parte dei repubblicani riaccendeva in me i ricordi garibaldini, di quel Garibaldi che andava a far grande il nome dell’Italia in giro per il mondo, partigiano di tutte le cause di libertà.

C’era da sfatare la leggenda secondo cui gli italiani non sanno battersi in guerra…

E le assicuro che quella leggenda la sfatammo. Hemingway giudicò il Battaglione Garibaldi come il battaglione modello dell’esercito repubblicano.

Quali furono i problemi da risolvere nell’organizzare militarmente il Battaglione Garibaldi?

Dalla parte dei repubblicani era molto diffusa una mentalità simpaticamente anarchica, ma disastrosa sul piano militare. Per l’esperienza che avevo fatto della guerra, mi rendevo conto che era impossibile affrontare i franchisti con delle bande organizzativamente scucite tra di loro. Occorreva disciplina, gerarchie rispettate e funzionanti, una perfetta conoscenza delle risorse di un esercito moderno. Ora, la grandissima parte degli uomini a mia disposizione non aveva alcuna esperienza militare.

I più pronti ad afferrare la necessità dell’organizzazione e della disciplina furono i comunisti.

Difatti, era assieme il loro difetto e la loro virtù. Alcuni di loro venivano dalle scuole di partito russe, dove avevano appreso i rudimenti della lotta militare.

In Spagna lei conobbe Luigi Longo, nome di battaglia Gallo. Che impressione le fece?

Un eccellente organizzatore e uomo di coraggio. Pur essendo un politico e non un militare, l’ho visto battersi e battersi bene, mentre Togliatti una sola ora in trincea probabilmente non la passò mai. Gallo – con questo nome lo conoscevo – era poi un uomo oscuro e duro, uno che aveva la cittadinanza sovietica, il perfetto esemplare del comunista caporalizzato.


Chi fu il primo commissario politico del Battaglione Garibaldi?


Il comunista torinese Antonio Roasio, un ex operaio, bravissimo. Meno bravo, perché un po’ troppo politicante, quello che lo sostituì, Ilio Barontini.

Nel momento delle più furibonde polemiche tra lei e i comunisti, negli anni sessanta, che piega presero i rapporti personali tra lei e quei comunisti che erano stati al suo fianco in Spagna?


Con qualcuno di loro non ci parlavamo più. Altri, quando mi incontravano nella buvette di Montecitorio, continuavano a chiamarmi affettuosamente «comandante», come nel ’36 – ’37.


Con quali criteri scelse i suoi collaboratori più diretti, i comandanti di compagnia e gli ufficiali del Battaglione, dovendo valutare gente che non aveva esperienza militare?


Mi interessava tutto fuorché la loro fede politica. Cercavo di intuire quali sarebbero state le loro capacità sul campo di battaglia. Nominai Giorgio Braccialarghe, un anarchico italiano che veniva dall’Argentina, capo degli arditi e la scelta si rivelò eccellente. Una volta litigai con i comunisti perché volevano mettere a capo del mio stato maggiore Felice Platone, il futuro traduttore di Lenin e Stalin, ottima persona che però non aveva adeguata esperienza militare. «L’ha scelto il partito», mi dissero. E a me che me ne importava?

Entrando nell’esercito repubblicano e conoscendolo da vicino, lei pensò che ci fosse qualche speranza di vittoria militare?

All’inizio, francamente no. Qui si muore, pensai. La disparità delle forze era immensa. Noi eravamo armati poco più che di bastoni e coltelli, loro erano un esercito regolare. Ma il calore umano e l’affetto di cui erano circondate le Brigate internazionali ci compensava di tutto. Più tardi, quando ci organizzammo militarmente, sì, qualche speranza di vittoria l’ho nutrita.

I vostri avversari si battevano valorosamente?


L’episodio della difesa dell’Alcazar fu indubbiamente notevole. Spagnoli franchisti e spagnoli antifranchisti erano del tutto simili sotto questo aspetto: ora eroici sino all’incredibile, ora un branco di pecore.

Lei è sempre stato un uomo d’azione. Ha mai avuto paura?


C’è chi ha un coraggio fisico assoluto: non era quello il mio caso. La paura l’ho sempre avuta e ho cercato di vincerla: mi dicevo che dovevo comandare, e dunque non potevo permettermi di avere paura. Ciò nonostante, ci sono stati alcuni momenti in cui la paura mi ha immobilizzato o, comunque, in cui vincere la paura era difficilissimo. Una volta, ad esempio, alla Città Universitaria di Madrid, quando andai a raggiungere, sotto le raffiche dei franchisti, una nostra pattuglia rimasta isolata. Correvo da un albero all’altro mentre le pallottole fioccavano: fu terribile.


Ernest Hemingway l’ha definita «il più prode e il più amabile dei guerrieri».


Hemingway, che era corrispondente di non ricordo più quale giornale americano, girava tra noi accompagnato da una donna bellissima, che divenne poi la sua quarta moglie. Non amava l’ambiente comunista e stava molto volentieri con noi.


Quand’è che venne a sapere delle lacerazioni e delle lotte fratricide in campo repubblicano?


Nell’estate del ’37 ci arrivò l’ordine di andare in Catalogna. Mi colpì il fatto che, mentre passavamo per le strade, ci circondasse un muro di diffidenza. Le persiane si abbassavano, la gente si scostava: era la prima volta che ciò accadeva da quando ero in Spagna. Seppi dei massacri di anarchici a Barcellona. Mi rifiutai categoricamente di portarvi i miei soldati. Tentarono di prelevare uno dei miei battaglioni e li feci arrestare. Non ero venuto in Spagna per combattere gli anarchici, da cui pure dissentivo politicamente. Ottenni di essere rimandato al fronte, contro i franchisti.


Nella battaglia di Huesca…


Una battaglia sanguinosissima nella quale cadde, fra gli altri, Libero Battistelli. Vi morì anche uno dei comandanti comunisti che apprezzavo di più, un ungherese che si faceva chiamare Lukács, dal nome del celebre filosofo. Era un ufficiale che nel primo dopoguerra s’era battuto contro i comunisti e poi era passato dalla loro parte.


I comunisti avevano l’egemonia della condotta militare?


L’avevano perché l’URSS mandava tanks e mitragliatrici e la democrazia di Léon Blum no. È anche vero che i comunisti si battevano molto bene.


Qual è stato il significato militare e politico della vittoria repubblicana a Guadalajara?


Militarmente, tanto per non arrogarmi meriti che non ho, presi parte alla battaglia di Guadalajara quando era già iniziata la nostra controffensiva. Mi ero preso qualche giorno di riposo, e mi trovavo a Parigi quando la battaglia cominciò. Il significato politico della nostra vittoria fu enorme. Il fascismo italiano con l’impresa di Etiopia, aveva consolidato il suo potere e la sua immagine. La sconfitta di Guadalajara fu l’inizio della sua disfatta. Esattamente come aveva previsto Rosselli: oggi in Spagna, domani in Italia.


Qual è, nella guerra di Spagna, il momento di svolta a partire dal quale la sconfitta diventa inevitabile?


C’è stato un momento in Spagna, tutta la fase della difesa di Madrid, in cui ci siamo battuti con il coraggio della disperazione. Non c’era altro modo per compensare la disparità di forze in campo: ed è stato il momento più bello, più entusiasmante. Più tardi l’esercito repubblicano si organizzò, sino a comprendere oltre 150 divisioni. Dal punto di vista militare, la vittoria divenne possibile. Ma in quello stesso momento cominciò, da parte comunista, il tentativo di impadronirsi della vittoria con l’impadronirsi dei comandi. E difatti il comando della Brigata italiana mi venne tolto e affidato a Penchienati, un uomo di cui i comunisti si fidavano e che più tardi divenne ferocemente anticomunista. Nenni protestò per quella decisione, ma poi lasciò perdere. Sa com’era Nenni, uno che si diceva: «La rivoluzione ha i suoi diritti».

Cosa ha imparato dalla sua partecipazione alla guerra di Spagna?


Ho imparato a conoscere i comunisti da vicino. Badi bene, io ero assolutamente favorevole alla solidarietà antifascista di tutti i partiti. Quando fondai «L’Italia libera», dopo il delitto Matteotti, incontrai due volte, in via della Mercede, a Roma, Antonio Gramsci per studiare forme di collaborazione antifascista. Le ho già detto che i comunisti si battevano bene, che molti di loro erano delle ottime persone, che dal punto di vista dell’organizzazione militare io ero d’accordo con loro e non con gli anarchici, tanto che i comunisti russi mi definivano un «bolscevico nato». Ma non era un partito, era un esercito. Era gente che aveva sostituito Dio con il partito e che di quella religione faceva una vera e propria superstizione. Per fortuna, adesso stanno cambiando e sono cambiati.


E il ricordo più bello?


L’aver fatto dell’antifascismo un movimento politico, e non più soltanto l’occasione per bisticci da caffè, per gelosie personali. Il fascismo era entrato nella storia con la conquista dell’Etiopia, impresa discutibile quanto si vuole ma che gli assicurò nel paese vasti consensi. Noi antifascisti entrammo nella storia dando vita alle Brigate internazionali. Ed è un ricordo tanto entusiasmante che, a confronto, le delusioni subìte, la mia stessa defenestrazione dal comando, mi appaiono minuzie irrilevanti.

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