di Luciano Cafagna – «Mondoperaio», febbraio 1980, pp. 97-102.



Pietro Nenni aveva avuto, nel 1956, l’intuizione storica della necessità, per la sinistra italiana, di riprendere la strada del socialismo democratico europeo e di abbandonare le ambiguità di una situazione socialcomunista di tipo latino. Far questo con una pattuglia del 15% era, a dir poco, eroico, perché dietro a quella situazione c’è una realtà storica radicata, basata su industrializzazioni e urbanizzazioni ancora incomplete e magmatiche, impastata di complementari, benché contrapposte, correnti di massimalismo anarchico e di riformismo che si provocano a vicenda. Un tentativo tanto più eroico in quanto quella pattuglia era essa stessa inquadrata da quegli stessi mali e, in più, di altri pronti a emergere, di affarismo e clientelismo simili a quelli della pseudo-socialdemocrazia saragattiana.




Pietro Nenni fu, con Fanfani, il protagonista degli anni centrali e decisivi del mutamento italiano, dal 1956 al 1963. Ebbero ambedue sorte sfortunata: Fanfani finì in una specie di esilio interno. Nenni fu imprigionato in una segreta di Palazzo Chigi. Mentre Fanfani bruciò interamente la propria immagine in un continuo e disperato tentativo di rientro come salvatore della patria, Nenni conservò intatta la sua dignità, ritirandosi – dopo il fallimento della unificazione socialista – davvero e per sempre, con grande decoro. La sua generosa avventura politica era finita, ed egli ne prese atto.


Un conto in sospeso



Ricostruire la speranza di quell’avventura non è cosa facile, perché essa fu un filo sottile, sul quale già allora si ingrommavano sostanze corrosive di ogni sorta. Non riuscì mai a vibrare come avrebbe dovuto. Erano gli anni di uno dei più profondi processi di cambiamento che la società italiana abbia mai conosciuto. Prese il via un dinamismo che, a ben guardare – sia esso per essere cosa pazza verso la morte o solo travagliatissimo viaggio a buon fine – non si è ancora arrestato. Ed erano altresì gli anni in cui, nel mondo, da Mosca a Washington a S. Pietro, i volti arcigni della guerra fredda avevano bruscamente lasciato il posto a volti-immagine di buona volontà: incauti, forse, e anche contraddittori nei loro comportamenti, ma aggrediti da aspettative tali che li forzavano prepotentemente all’assolvimento del ruolo.
Tutto questo, come oggi sappiamo, sarebbe poi, e rapidamente, andato a male. Ma, pur non credendo nelle artificiose precisioni del controfattualismo, penso ostinatamente che sia da respingere una pretesa di ineluttabilità fondata su una implacabile logica di «meccanismi» o «sistemi», cioè sul funzionamento programmato di componenti (economiche o di classe o che altro si voglia) della realtà, aventi forza privilegiata sugli eventi, di portata tale da ridurre a illusorie velleità di marionette i tentativi di uomini e gruppi. Altra cosa è, naturalmente, un giudizio di ineluttabilità che tenga conto anche del mondo della politica, delle concrezioni specifiche di interessi che in questo si formano, delle idee dominanti nei gruppi che ne sono protagonisti e in quelli, più o meno intellettuali, che li influenzano. Che un cieco, il quale sia anche zoppo, d’indole distratta, privato del suo bastone, e per giunta ubriaco, cada dalle scale, è cosa talmente probabile da potersi anche considerare ineluttabile. Lo schematismo consiste nel ritenere che, da sole, cecità o claudicanza siano fattori necessitanti e incontrastabili, o, peggio, che la concomitanza di queste sfavorevoli circostanze sia riconducibile ad un’occulta e comune matrice.
Per venire al disegno di Nenni – imporre in Italia il socialismo della democrazia – se questo fallì, la causa non sta nel «sistema». E non sta neanche nella Democrazia cristiana, la quale fece la sua ovvia parte di resistenza, peraltro elastica, alla svolta che si proponeva. Sta in Nenni stesso e, specialmente, io credo, nella cultura della sinistra del suo tempo. È qui che bisognerà indagare. C’è, al riguardo, un conto in sospeso da tempo, che non sarà mai veramente saldato finché non si formerà nel nostro paese la nuova cultura sufficiente per farlo. Per la quale occorrono capacità intuitive (e queste sono in certa misura affiorate), ma anche nuove strumentazioni concettuali, una puntuale esperienza professionale sedimentata, che si faccia altresì mentalità ed ethos, e soprattutto una radicale inversione di senso dell’emotività politica, la quale tramuti una, finora predominante, passione dell’assoluto in una passione del relativo, che sappia davvero e concretamente il fatto suo. Il revisionismo italiano – bisogna riconoscerlo – non è andato molto al di là del livello intuitivo, e non sempre efficacemente. Una nuova strumentazione concettuale comincia a formarsi o imporsi solo ora[1]. Ma – ciò che più conta – l’emotività politica prevalente è stata, in tutti questi anni, di segno nettamente anti-riformista. Il che è quanto dire sostanzialmente ostile all’avventura nenniana.


Riformismo e «politica delle cose»



Pietro Nenni, e non altri, è stato il maggior riformista della sinistra italiana nell’arco di questo quarto di secolo. Così dicendo si sottolinea il grande rilievo della sua figura e, insieme, il limite del fenomeno. Il quale era un tentativo – della cui ispirazione, con il trascorrere degli anni si comprenderà sempre più la validità contro ogni altra ipotesi – per rompere una situazione di stallo storico (la «grande bonaccia delle Antille» di Italo Calvino: un apologo che diceva già tutto sul «fattore K» più di venti anni fa). E per romperla in forme che non fossero peggiori dello stallo stesso. Questo in una situazione nella quale tutto si muoveva ormai nell’economia e nella società, e si trattava di volgere tale movimento di progresso all’ordine di una consolidata diffusione e non al disordine dell’entropia e dell’autodistruzione.
Ma Pietro Nenni si mosse a livello soltanto intuitivo. Il resto, si potrà dire, non era affar suo. L’affar suo era la già di per sé difficilissima battaglia politica per far vincere quella intuizione, per creare una nuova situazione. Il resto sarebbe toccato all’«intendenza». Ma l’intendenza non seguiva. Perché, semplicemente, non c’era. Questo Napoleone non aveva né i suoi Carnot, né i suoi Daru. Affar suo sarebbe stato il preoccuparsi di crearli? Ma, forse, troppe cose insieme non si possono fare, oppure egli ne sapeva fare alcune e non altre. O, anche, erano vere l’una e l’altra cosa e, in più, la carenza di ingredienti per fare era davvero paurosa.
L’intuizione nenniana della «politica delle cose» era una grande intuizione[2]. Un non italiano non potrebbe capire questo, non potrebbe capire che, in Italia, non si trattava di una banalità. Qui prolifica – come dice Lucio Colletti[3] – l’homo ideologicus, accompagnato dall’ideologia dappertutto, persino a letto e tra le lenzuola, dentro la scienza e dentro la minestra. Ma quali erano quelle «cose»? Qui si apre un problema sul quale tornerò più avanti. Vorrei invece mettere subito in rilievo, per un sommario chiaroscuro del quadro, come l’altra formula famosa del Nenni di quegli anni – «entrare nella stanza dei bottoni» – rivelasse, per contro, ingenuità e impreparazione. Esiste veramente, infatti, una stanza dei bottoni? E, in caso, di che «bottoni» si tratta? Ogni tastiera ha la sua specifica area di comandi e i suoi limiti. Quella di una autovettura, adattissima alla routine di un tassinaro, non consente però di volare. E, poi, basta entrare nella «stanza dei bottoni», o non bisogna anche saperli usare e, all’occorrenza, riparare?
Ma quando Nenni diceva, in quegli anni, «cose» o «bottoni» simboleggiava il senso di una azione. Egli era il generale, l’unico generale possibile, l’unico generale emerso da questa nostra piccola storia, il quale dirigeva le operazioni per creare una situazione nuova. Era un Garibaldi, o un Pancho Villa: un condottiero. Nessun altro avrebbe avuto la statura per fare ciò che lui tentava. Ad altri sarebbe dovuto toccare il compito di preparare lo sfruttamento dell’eventuale vittoria, l’assetto della nuova situazione. Ma questi altri non c’erano. O erano diversi.
La cultura socialista di quegli anni era la cultura di Lombardi, la cultura di Foa, la cultura di Basso, la cultura di Panzieri. O la non-cultura di Vecchietti. Intorno vi era un mondo intellettuale visceralmente antiriformista. Era composto di comunismo traumatizzato ma ostinatamente difensivo della propria superiore nobiltà organizzativa (rispetto allo straccionismo dei socialisti in questo campo) o di eretici ed ex militanti inconsolabili, alla ricerca disperata di una surenchère sulla delusione subita (che cominceranno presto a trovare nella Cina). Oppure vi era, sì, una certa diffusa cultura mini-pragmatica, come in certi ambienti settentrionali (e segnatamente milanesi): chiusi, però, questi, in una sorta di serra ottocentesca. Totalmente inerte nel dibattito ideale – che guardava senza comprendere – questo demi-monde residuo di un antico riformismo era del tutto inadatto a comprendere i problemi di una disarticolata realtà nazionale, nella quale covava un uragano tale da poter ben frantumare i vetri di quella serra.


Nenni e Lombardi



Il più vicino alla ispirazione nenniana, fra questi filoni, era, in definitiva, quello di Lombardi: non a caso – in quel clima – fra i più avversati dal dominante antiriformismo viscerale. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che l’autonomismo socialista rinato alla metà degli anni ’50 porta due nomi e non uno solo: quello di Nenni e quello di Lombardi.
Lombardi fornì alla svolta nenniana l’apporto culturale che Nenni e il suo stretto entourage non avevano vocazione per produrre. Occorre dire che senza tale apporto il tentativo nenniano avrebbe corso seriamente il rischio di venire strozzato in fasce. Certo l’attrattiva tribunizia e popolare dell’uomo era grande, e tale da poter da sola alimentare una corrente cospicua di sostegno nel paese (del che non era stato capace il freddo e altezzoso Saragat). Ma in questo campo non si può, in ogni caso, costruire da soli. E l’entourage nenniano diede subito sin troppi evidenti segni di gretto carrierismo politico, i quali trasparivano fra le maglie di una scena non totalmente e costantemente coperta da un leader straordinariamente vitale ma ormai settantenne. L’opposizione interna si incaricava poi di sottolineare gli innegabili elementi deteriori del «governativismo» di molti nenniani.
In tali condizioni la prestigiosa figura intellettuale e morale di Riccardo Lombardi contribuì in modo decisivo a salvare l’immagine dell’autonomismo, dentro e fuori il partito, e specie fra i giovani. E fu determinante nel contenere il prezzo di scissione della svolta nenniana entro la soglia del tollerabile per il compimento dell’operazione. Nonostante la sua forte personalità, Lombardi non ebbe mai, però, la vocazione delle grandi responsabilità. In più circostanze avrebbe potuto, sfruttando il suo fascino sui quadri e favorevoli contingenze tattiche, prendere le redini del partito. Non lo fece. Forse giuocò in lui, nei confronti di Nenni, la convinzione disinteressata e leale del valore patrimoniale rappresentato per il partito dalla popolarità di Nenni. Si mantenne nel ruolo di free-lancer, ispiratore critico e battagliero, e infine capo, ma di un dissenso minoritario.
Ora, quel che deve essere sottolineato è il fatto che le «cose» della «politica delle cose» nenniana furono, nei programmi e nei negoziati, le «cose» della cultura lombardiana. Benché senza alcuna partecipazione – credo che questo si possa dire – Nenni accettò interamente di impostare la sua operazione sulla base di un programma lombardiano. Perché?
Ci si deve soffermare un momento, a questo punto, sui tratti fondamentali della cultura politica lombardiana. Io non so se Lombardi lo abbia mai detto, ma credo che l’ispirazione centrale della sua cultura politica sia da ricercare nel New Deal rooseveltiano e nel motivo dello Stato democratico che entra in conflitto con il potere economico privato, per limitarlo, porlo sotto controllo, piegarlo a finalità pubbliche. Il suo ideale di socialismo democratico era uno Stato capace di operare in questo senso sotto la pressione specifica di forze socialiste (ricordo una sua lettura in questa chiave del Contemporary Capitalism di John Strachey, sul «Mondo» del 1956, mi pare, che non ho ora sottomano).
A differenza della predicazione comunista (e spesso anche socialista) contro i monopoli, che era predicazione a distanza – parola d’ordine mobilitante, funzionale alla raccolta di consensi, più che obiettivo avente valore in sé – la campagna lombardiana si è sempre presentata, già almeno dal 1949-50, come una volontà aggressiva con pretese immediate e significato concreto. Nell’ortodossia comunista, lo Stato prima della rivoluzione è borghese e non può non esserlo, qualunque cosa faccia: non può ledere potere privato se non per rafforzarlo in altre forme. Questa ortodossia nel 1956 (ma segni ve ne erano stati anche prima) cominciò ad essere abbandonata. Non però per un impegno in direzione contraria, il quale, in definitiva, non avrebbe avuto senso. Per quale speranza di governo o per quale trattativa politica concreta i comunisti avrebbero dovuto mai mettersi a imbastire un’azione politica determinata per un progetto di nazionalizzazione o una legge urbanistica? E qualunque realizzazione di questo tipo, realizzata da un qualunque governo, la si sarebbe dovuta sempre presentare come naturalmente non buona, pena una lesione del sistema di convinzioni su cui si reggeva il consenso di tipo radicale (rivoluzionario) da loro coltivato.
L’agilità della pretesa lombardiana – che aveva dell’inaudito: smantellare roccaforti del potere economico, utilizzando come punta di diamante una smilza pattuglia inferiore al 15% dell’elettorato – era tale da provocare un certo choc nell’ambito di una siffatta cultura comunista, colpita dalla crisi di ortodossia del 1956. E l’idea di Lombardi era, infatti, che questa azione di punta dovesse costringere forze arroccate su altre posizioni (comunisti, sinistra cattolica) a un coinvolgimento cui non avrebbero potuto sottrarsi[4]. Non a caso essa si incontrava con la filosofia delle «riforme di struttura» che Antonio Giolitti aveva elaborato come svolgimento revisionistico direttamente derivato dalla piattaforma comunista degli anni ’40-’50, tentando di sciogliere su un versante aperto l’ambiguità togliattiana fra «parole d’ordine transitorie» del vecchio bagaglio terzinternazionalista e i contenuti nuovi della breve primavera della «democrazia progressiva» censurata presto da Stalin e Zdanov. Il senso di tutto ciò era che lo Stato democratico, ormai, potesse essere piegato a «contenuti di classe» disparati, farsi variabile espressione di mutabili rapporti di forze.


Lombardi e Foa



Se consideriamo questa impostazione dal punto di vista della politica avviata da Nenni possiamo però dire che essa era viziata da un certo qual ideologismo dimostrativo. Tendeva più ad una azione che dimostrasse l’infondatezza di un sistema di convinzioni che non a un mutamento completo dei termini della formazione del consenso a sinistra. Era una linea puntigliosa, difficile e, in sostanza, poco produttiva. La nazionalizzazione dell’industria elettrica, la nominatività dei titoli azionari, una legge urbanistica espropriativa sono indubbie erosioni di posizioni di potere economico. Se realizzate, dimostrano che lo Stato, senza necessità di una rivoluzione che lo sostituisca con gli «operai armati» (metafora del partito leninista), può esprimere un diverso equilibrio di rapporti di forze. Ma queste misure non sono però, di per sé, maggiore sviluppo della occupazione, aumento dei redditi reali operai pro capite, più case d’abitazione popolare. Si può sostenere che quelle posizioni di potere privato impediscono o frenano tutto questo. Ma non è immediatamente e facilmente dimostrabile. Soprattutto non si tratta di un passaggio logico immediatamente percepibile da vasti strati della popolazione. Vi è di più: il braccio di ferro aperto esclusivamente o quasi su rinunce da parte dell’opposto blocco sociale tende a provocare il panico fra gli operatori economici, e quindi una contrazione nell’attività e nell’occupazione.
Basterà, inoltre, un insuccesso per far crollare tutta la pretesa dell’ideologismo dimostrativo, e favorire il formarsi di una situazione di tutt’altro tipo. Val la pena di ricordare che negli anni fra il rilancio autonomistico del PSI (1956) e l’ingresso socialista nella maggioranza (1962), Riccardo Lombardi condusse una significativa polemica con Vittorio Foa (culminata nel Congresso di Napoli del 1959[5]).
Tale polemica – in cui è forse ravvisabile il momento più intenso della discussione interna della sinistra in quegli anni – investiva le reali prospettive della fase di movimento aperta dall’iniziativa nenniana. Foa contestava il «parlamentarismo» della impostazione autonomistica, in nome di una insostituibile azione di forza entro le strutture (che erano, in pratica, le fabbriche). Foa, per finezza, si elevava di una spanna su tutta la sinistra, perché viveva a un livello politico la consapevolezza degli emergenti problemi di relazioni industriali che un Panzieri, invece, già inclinava a dottrinarizzare.
E, a ben guardare, nelle osservazioni che allora faceva Foa si trova in nuce una previsione esatta degli svolgimenti che avrebbero prevalso nella lotta sociale-politica italiana degli anni successivi.
Diceva Foa: io capisco perfettamente che l’iniziativa nenniana nasce da stati d’animo «che dopo molti anni di immobilismo vorrebbero trovare vie nuove e diverse».
Ma – egli diceva – non vi fate illusioni sulla esistenza di «scorciatoie»: «le rivendicazioni di fondo, che sono la trasformazione della nostra economia, il miglioramento delle condizioni di lavoro, la industrializzazione del nostro Mezzogiorno, la acquisizione al lavoratore degli strumenti del suo domani» non sono «cosa che possa fare oggetto di trattativa».
Foa intendeva la trattativa parlamentare e fra partiti. Ed è un fatto che questa via di trattativa fu un clamoroso fallimento complessivo. La capacità dimostrativa della rottura delle posizioni di potere privato manifestata dalla nazionalizzazione della industria elettrica fu completamente neutralizzata dalla rilevanza stessa di questa operazione, che parve alla controparte già abbastanza difficile da digerire (si smantellarono per sempre le possibilità di un azionariato diffuso o di massa). Ogni altra pretesa incontrò un blocco fermo e totale: e fu questo, politicamente, a venire in primo piano, la frustrazione e non la vittoria. I contraccolpi economici immediati, poi, furono negativi. Il movimento sindacale, dopo una brevissima fase di disorientamento (1965-67) divenne in breve l’unico protagonista dinamico della situazione, nel bene come nel male che un siffatto monopolio di iniziativa finisce con il comportare.
Fu, quindi, uno «scenario Foa» a prevalere. Ma, singolarmente, esso fu scatenato proprio dalla «rottura parlamentaristica» operata dal centro-sinistra. Il massimo effetto del centro-sinistra fu infatti un nuovo clima per l’azione sindacale. E la principale riforma del centro-sinistra – lo Statuto dei diritti dei lavoratori – fu sostanzialmente un propellente di azione sindacale. È da notare, per contro, che Lombardi si era mostrato consapevole dei pericoli dello «scenario Foa»: «Non vorrei – aveva detto a Napoli in termini che appaiono oggi profetici – si insinuasse l’altra correlativa e altrettanto pericolosa illusione (rispetto a quella «parlamentaristica») che… porterebbe ad una straordinariamente inattesa reviviscenza addirittura del sindacalismo rivoluzionario o dell’antiparlamentarismo bordighiano». Proprio questo, invece, e più che questo, è poi accaduto. La rottura parlamentare operata dalla pattuglia del 15% beneficiò sostanzialmente la prospettiva Foa, non quella Nenni, non quella Lombardi.


Socialisti e comunisti



La differenza di prospettiva politica fra Lombardi e Nenni era sostanzialmente questa: l’uno come l’altro pensavano che bisognasse affrontare lo stallo italiano, la «bonaccia della Antille» con la pattuglia del 15%. Ma, mentre Lombardi riteneva che la rottura avrebbe trascinato con sé altre forze e le avrebbe indotte, in questo coinvolgimento, a trasformarsi (egli puntava sul revisionismo comunista, sullo scissionismo cattolico di sinistra), Nenni coltivava la ipotesi dell’innesco di un grande processo di riallocazione elettorale nell’ambito della sinistra. «Non siamo ancora il partito della maggioranza dei lavoratori. Ma vogliamo diventarlo», diceva a Venezia nel 1957[6]. «Penso a un movimento di fondo che avrà lo stesso significato della vittoria delle forze popolari in Francia nel 1936 o della prima grande vittoria del Labour Party nel 1945», dichiarava all’«Express» nel 1959[7]. Erano convinzioni fra loro assai diverse. Non a caso le reazioni dei due uomini al cataclisma comunista del 1956 erano state diametralmente opposte: Lombardi aveva sollevato la proposta di un partito unico con un comunismo ormai revisionista[8], mentre Nenni aveva subito pensato a una riunificazione con i socialdemocratici. Ed in questa direzione aveva alla fine sperato il recupero della sua prospettiva di riallocazione elettorale, anche dopo l’insuccesso traumatico delle politiche del ’63 (che avevano però visto i saragattiani in ascesa). Solo la sconfitta del partito unificato nelle elezioni del 1968 metterà definitivamente fine al suo sogno.
E vengo al punto. Con una prospettiva come quella di Lombardi si poteva anche pensare a condurre la lotta su una piattaforma caratterizzata da quel che ho chiamato ideologismo dimostrativo. Era al massimo ulteriore generosa illusione – ma non insensatezza – il credere che, cominciando a scalpellare i poteri, si potesse avere una accelerazione di processi revisionistici in tutta la sinistra, attraverso un coinvolgimento che la chiamasse a sostenere i primi successi e magari, successivamente, a soccorrere la pattuglia minacciata dalla controffensiva. Quando quest’ultima cosa accadde, nel 1964, i comunisti, invece, non seppero far altro che affrettarsi ad additare l’errore del calcolo socialista. La generosità di Lombardi, che guardava alla sinistra e non ai partiti e ai loro interessi elettorali, non era cosa loro. E non era, a voler essere sinceri, cosa appropriata alla logica politica della democrazia competitiva.
Ma la prospettiva di Nenni non poteva appoggiarsi su una filosofia di tipo lombardiano. Questa non rendeva elettoralmente (dopo la nazionalizzazione elettrica il PSI perse voti, non ne guadagnò: mentre avanzarono PCI e PSDI), e non era concepita in tale ottica. Mentre la prospettiva di Nenni non poteva rinunciare ad alimentarsi di successo elettorale. Però, per questo, avrebbe avuto bisogno di praticare, sì, una «politica delle cose», ma di «cose» diverse, di cose popolari e, al tempo stesso, non tali da sconquassare il funzionamento del sistema economico. Una democrazia parlamentare non sopporta trasformazioni implicanti gravi prezzi congiunturali: o meglio, può sopportarli, ma chi le vuole, le paga. Oppure deve avere l’ampio vantaggio tattico di una intera legislatura di recupero, il controllo sostanziale di questa e un accorto e calcolato piano dei tempi e dei modi per conseguire tale recupero.
Pietro Nenni aveva avuto, nel 1956, l’intuizione storica della necessità, per la sinistra italiana, di riprendere la strada del socialismo democratico europeo e di abbandonare le ambiguità e l’impasse di una situazione social-comunista di tipo latino. Far questo con una pattuglia del 15% era, a dir poco, eroico, perché quella sindrome è realtà storica radicata, basata su industrializzazioni e urbanizzazioni ancora incomplete e magmatiche, impastata di complementari – benché contrapposte – correnti di massimalismo anarchico e si provocavano a vicenda; ed è alimentata da una folta intellighenzia disoccupata e romantica. E quel tentativo era tanto più eroico in quanto quella pattuglia era essa stessa inquinata da quegli stessi mali e, in più, da altri, pronti a emergere, di affarismo e clientelismo senza aggregati referenti sociali, simili a quelli della pseudo-socialdemocrazia saragattiana.


Case, scuole, ospedali



Il disegno lombardiano era quanto mai inadatto a quella operazione già sufficientemente eroica e disperata. Ma Nenni non aveva in mano nient’altro. Il suggerimento di Saragat: «qui occorrono case, scuole ospedali» era – bisogna dirlo (e chi non lo direbbe oggi?) – il suggerimento corretto. Aveva il solo difetto di venire da un pulpito puramente predicatorio e sterilmente saccente. Ma più gravi difetti aveva la cultura socialista che lo dileggiò. Non so cosa avrebbe potuto impedire alla finanza pubblica italiana non dissestata dei primi anni ’60 di impostare una seria politica sociale di questo tipo, né perché la Democrazia cristiana avrebbe dovuto rifiutare questa condizione per l’ingresso socialista nel governo (necessario a una maggioranza stabile), né per quali ragioni il mondo degli operatori economici avrebbe dovuto provare panico per un siffatto programma. Certo: ci sarebbero stati illeciti arricchimenti, speculazioni sulle aree: che si sono avuti comunque o se ne è avuto l’equivalente da altre parti. Ma la svolta del centro-sinistra avrebbe significato per gli italiani qualcosa, che invece non c’è stato.
Credo che in nessun altro periodo (ma occorrerebbe verificare) si siano costruite meno case, scuole, ospedali rispetto al fabbisogno. Mentre cominciò invece la travagliata e interminabile discussione sulla «riforma» urbanistica, sulla «riforma» scolastica, sulla «riforma sanitaria». Poi, a un certo punto, prevalse lo «scenario Foa»: si scatenò il movimento dal basso. E fu un movimento «monetizzante». Dal canto loro case, scuole, ospedali divennero oggetto di processi rivendicativi interni, affare dei serventi più che degli utenti, affare degli utenti immediati più che della collettività. L’Italia del 1980, naufragata in un mare in cui galleggiano spezzoni di pseudo-riforme rivendicative, ma senza case, senza scuole, senza ospedali dimostra che di tutti gli «scenari» ventilati in quegli anni crogiuolo quello «Foa» era il più profetico, ma, insieme, il più rovinoso. È sopraggiunto a colmare il vuoto lasciato dal fallimento degli altri, ma in un modo del tutto perverso. Ha avuto una retombée positiva: la grande emancipazione degli spiriti, che solitamente accompagna tutti i grandi sconvolgimenti, anche quelli cui nessuno si sognerebbe di attribuire di per sé un segno positivo, come le guerre.
Nenni, come ho detto in principio, finì in una segreta di Palazzo Chigi, e ci rimase per quattro anni. Ebbe per mite ma inflessibile carceriere Aldo Moro. Fuori la bonaccia riprese per qualche tempo. Poi venne il tifone.


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[1] Colgo l’occasione per segnalare un esempio interessante del formarsi – finalmente – di un nuovo modo di analisi anche in ambito comunista: il rimarchevole saggio di E. Somaini, Crisi della sinistra e ripresa neoconservatrice in Europa. Dinamiche distributive e mediazioni politiche, «Critica marxista», 5/1979, pp. 17-48.


[2] Va notata la concordanza della formula nenniana con quella contemporanea, ma meno icastica, di un altro grande (e ancor meno fortunato) riformista di questo stesso quarto di secolo, Giorgio Amendola: la «politica delle esigenze obiettive del paese». Vedi per questo G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 188-189.


[3] L. Colletti, Le ideologie, in AA. VV., Dal ’68 ad oggi. Come siamo e come eravamo, Bari, Laterza, 1979, p. 146.


[4] Cfr. PSI, 33° Congresso nazionale. Napoli 15-18 gennaio 1959. Resoconto stenografico, Milano, Edizioni Avanti, 1959, pp. 178-208 e specie pp. 193-194.


[5] PSI, 33° Congresso, cit., pp. 118-128; pp. 178-208.


[6] P. Nenni, Relazione al 32° Congresso, in P.N., Il socialismo nella democrazia, a cura, con prefazione e note di G. Tamburrano, Firenze, Vallecchi, 1966, p. 43.


[7] Op. cit, p. 88.


[8] Di questo errore di valutazione Lombardi farà ammenda pubblicamente a Napoli. Cfr. PSI, 33° Congresso cit., p. 203.