Intervista con Giovanni Spadolini, a cura di Giampiero Mughini – In «Mondoperaio», dicembre 1982, pp. 4-9




Dal momento in cui ha passato le consegne ad Amintore Fanfani, Giovanni Spadolini è tornato a pieno tempo al suo ruolo di segretario del PRI e alle amatissime fatiche di direttore della Nuova Antologia e dei «Quaderni della Nuova Antologia». Quando l’ho incontrato, la sera del 3 dicembre, nella mitica stanza che fu di Ugo La Malfa, Spadolini aveva appena consegnato e dedicato a Sandro Pertini un «Quaderno», il quindicesimo della serie iniziata nel 1978 con Il diario del dramma Moro, cui tiene sommamente: Tradizione garibaldina e storia d’Italia. Ripubblicare, nell’anno del centenario garibaldino così caro al PSI di Bettino Craxi, una serie di articoli e di prefazioni sulla storia e sull’epopea garibaldina, gli deve essere apparso beneaugurante per i futuri sviluppi dei rapporti tra repubblicani e socialisti.


Senatore Spadolini, cosa ha scritto nella dedica al presidente della Repubblica?



In quella dedica ho posto un esplicito riferimento al governo a guida laica che lui aveva voluto e poi difeso contro tutti gli ostacoli, un governo nel quale confluivano le esperienze di due mondi a lui cari del primo e secondo Risorgimento: il mondo repubblicano e il mondo socialista. L’occasione di questo omaggio al presidente della Repubblica mi consente di ricordare che quando diventai segretario del PRI, nell’ormai lontano settembre 1979, a pochi mesi dalla morte di Ugo La Malfa, andai a trovare Pertini, che mi accolse così: il tuo compito storico è di rinnovare la collaborazione tra repubblicani e socialisti, diradando i sospetti e le incomprensioni degli ultimi anni.


Usò la parola «incomprensioni» o un’altra più forte? Tra ’77 e ’79 i rapporti fra PSI e PRI non erano stati dei più amichevoli…



Usò la parola «incomprensioni». Quanto a me, posso dire che sei mesi dopo avevo mantenuto l’impegno, nel senso che, dopo molti anni, repubblicani e socialisti si affiancavano al governo, il tripartito presieduto da Francesco Cossiga. Per trovare l’ultimo esempio di collaborazione governativa fra i due partiti bisognava risalire a sei anni prima, al marzo ’74, al governo di centro-sinistra presieduto da Mariano Rumor. Ugo La Malfa vi assunse il ministero del Tesoro, che abbandonò otto mesi dopo a causa del suo contrasto con Antonio Giolitti sulle linee del Fondo monetario internazionale.


Abbiamo subito accennato a «incomprensioni» recenti dei due partiti. Proviamo adesso a risalire alle origini storiche della differente, e talvolta conflittuale, collocazione di PSI e PRI nella mappa politica italiana.



È stato un commentatore di parte socialista, Giuliano Amato, a fare un intelligente richiamo, in occasione del primo anniversario della morte di La Malfa, all’equivoco che divise il Partito d’Azione e i l PSI nell’immediato dopoguerra – e questo ancor prima della Liberazione di Milano, e cioè nel periodo dicembre ’44-gennaio’45 – un equivoco che è all’origine di tanti degli sviluppi contraddittori e paradossali della vita italiana. In quell’occasione Amato si riferì esplicitamente all’articolo «Nuovi equilibri» di La Malfa, apparso nei primi giorni del ’45 su L’Italia libera (allora diretto da Leo Valiani), articolo in cui il leader azionista più lontano dai socialisti sostenne la necessità di un’alleanza fra il Pd’A, le forze democratiche e riformatrici di sinistra, e il Partito socialista. Si trattava cioè, nel disegno lamalfiano, di fondare un blocco di centro-sinistra da contrappore tanto alla ricostruzione del partito cattolico quanto al partito comunista. Fu il primo grande sogno terzaforzista della storia italiana: il Pd’A come punto di coagulo e di incontro fra il socialismo e l’area laico-repubblicana.


Terzaforzismo è un termine che i comunisti staliniani usavano come un marchio infamante. Qual è in realtà la sua origine storica?



È un’espressione che ha all’origine la «terza via» tentata dai rooseveltiani, fautori di un’economia che non fosse né capitalistica né collettivistica. Credo che, nel linguaggio dell’opposizione antifascista, il primo a usare l’espressione «terza forza» sia stato Guido Calogero.


Torniamo alla proposta di La Malfa del ’45…



Va ricordato che quella proposta aveva un precedente in un episodio avvenuto ai tempi dell’emigrazione antifascista, allorché, sotto l’impulso di Carlo Rosselli, s’era delineato un blocco socialista-repubblicano che venne successivamente smentito sia dalla direzione socialista, sia da quella repubblicana in esilio.


Né una sorte migliore toccò alla proposta di La Malfa.



Purtroppo. La risposta di Pietro Nenni fu negativa, e da allora la via del PSI si differenziò – come ricordava appunto Amato – dalla via delle forze laiche e democratiche di centro-sinistra. Il PSI si andò sempre più spostando verso il PCI e questo determinò la frattura del Pd’A. Un anno dopo, nel marzo del ’46, si verificava infatti la spaccatura, nel Pd’A, tra l’ala non socialista (con La Malfa, Guido De Ruggiero, Luigi Salvatorelli), e l’ala filo-socialista (il cui esponente più significativo era Emilio Lussu). Il reincontro tra PSI e PRI, decisivo ai fini della nascita del centro-sinistra, avverrà nella seconda metà degli anni Cinquanta. Da una parte il Congresso socialista di Venezia del ’57, dov’è il generoso impegno ma anche la sconfitta tattica di Nenni, dall’altra il complesso dei convegni organizzati dagli «Amici del Mondo», dov’è decisiva l’impronta di La Malfa.


Qual è, nell’arco di questi anni, la consistenza politica ed elettorale del filone repubblicano?



Il PRI era partito con 25 deputati alla Costituente, il che rappresentava una vera forza popolare. Nel centro di Roma era addirittura più forte della DC. Molto radicato in Romagna e nelle Marche, il PRI fu gravemente colpito dalla collaborazione con i governi centristi a guida democristiana. Penso soprattutto alla tentata legge maggioritaria del ’53, che produsse nel suo seno una scissione non minore di quella avvenuta nel PSDI. Come dal PSDI uscì il gruppo di Piero Calamandrei e Tristano Codignola (che confluì nel gruppo di Unità popolare), così dal PRI uscì il gruppo di Oliviero Zuccarini, l’antico amico di Piero Gobetti. In termini elettorali, il PRI passò dal milione di voti nelle elezioni per la Costituente, ai 650 mila del ’48. Da allora, e fino al ’68, che coincide con la ripresa lamalfiana, fu un partito con sei-sette deputati e, per tre legislature, senza nessun senatore.


La Malfa-Nenni: è il binomio classico del centro-sinistra…



La Malfa fu l’uomo del colloquio con i socialisti, e lo dimostrano fra l’altro i recenti Diari dello statista socialista. E fu l’uomo, La Malfa, che ebbe più peso nell’ideare e volere la presidenza di Giuseppe Saragat, nel 1964, che gli pareva dovesse costituire il suggello del centro-sinistra e della unificazione socialista. Il centro-sinistra invece ebbe una vita abbastanza breve. Il suo momento migliore fu quello dei governi presieduti da Aldo Moro, tra il ’64 e il ’68. Una stagione comunque che deluse fortemente sia La Malfa che Nenni.


Quanta di quella delusione è da imputare alla divisione interna del PSI?



Una parte notevole. La scissione del PSIUP colpì Nenni in modo particolare, e di questo le sue memorie conservano numerose tracce.


Qual fu, in casa repubblicana, la manifestazione politica della delusione di cui lei diceva?



La politica cosiddetta della «coscienza critica», il distacco del PRI dal governo, pur restando nella maggioranza. Non dimentichiamo che La Malfa non fu mai ministro nei governi Moro, a differenza di quanto era avvenuto nel governo del ’62 presieduto da Amintore Fanfani, quando aveva accettato il ministero del Bilancio. Quando si costituì il centro-sinistra vero e proprio, La Malfa preferì la segreteria del partito e mandò al governo Oronzo Reale.


Quando avviene il rientro di La Malfa nel governo?



Rientrò come ministro del Tesoro nel governo Rumor. Era restato fuori dieci anni, dal ’63 al ’73. Sono anni di polemica fra il PRI, forte del suo modello di una società industriale basata sulla programmazione e la politica dei redditi, e la politica scialacquatrice e allegra di un centro-sinistra stanco, che aveva perso la guida magica e demiurgica di Moro, e che era passato dalla sapienza di Moro a quella che si può chiamare l’insipienza dei dorotei.


Vogliamo definire meglio questa «insipienza»?



La attribuisco a un minore senso dello Stato rispetto alla fase precedente, insomma a una minore capacità di comprensione dei problemi di una società industriale avanzata, ciò che portò a fare passi più lunghi della gamba.


Lo Statuto dei lavoratori fu la conquista più cara alla componente socialista del centro-sinistra in quegli anni. Il suo giudizio critico comprende anche lo Statuto?



Lì sarei più cauto. Lo Statuto dei lavoratori era una gestazione del periodo Moro poi completata dal povero Giacomo Brodolini, mio caro e indimenticabile amico, durante i governi Rumor. La sua filosofia stava tutta nel centro-sinistra, così come l’introduzione delle regioni a statuto ordinario. Fra i passi più lunghi della bamba indicherei piuttosto l’arrendevolezza verso l’azione sindacale, il non capire le trasformazioni di una società e quindi il non saperle guidare. Comunque, quel periodo chiude un’epoca e questo anche a causa della rottura dell’unificazione socialista, rottura contro cui mi pronunciai, luglio ’69, nella mia vesta di direttore del Corriere della Sera.
A suo giudizio, la scissione del luglio ’69 non era inevitabile?



La si poteva evitare. E io feci il possibile per evitarla. Sono testimone di quella giornata, il 5 luglio, in cui ero ospite a colazione di Saragat e assistetti alla telefonata tra Saragat e Nenni, il quale era convinto di essere riuscito a bloccare la scissione. La mia grande amicizia per Nenni si rafforzò nel giudizio che detti sul Corriere e che ci accomunava: quella scissione era un errore. Giudizio che Nenni mi confermò pochi mesi dopo in un’intervista al Corriere, la prima che il leader socialista accordava al giornale della borghesia lombarda. «Evitare un nuovo ‘22», ne era il titolo. La scissione aveva ferito profondamente Nenni e lo aveva allontanato da ogni carica politica nel partito: di cui per anni non è stato neanche presidente, non dimentichiamolo!


Da direttore del «Corriere» lei era uno dei fautori del centro-sinistra…



Arrivai al Corriere nel febbraio ’68 e feci la campagna elettorale per questa formula. E del resto la mia antica amicizia con Bettino Craxi risale a quell’epoca.


Come vi conosceste?



Ci siamo conosciuti agli inizi del ’68, quando lui era segretario della federazione provinciale di Milano, non ancora deputato, e preparava la sua campagna elettorale. Ogni volta che arrivava Nenni a Milano, Craxi combinava gli incontri col direttore del Corriere. Ricordo uno di questi colloqui, pochi giorni prima delle elezioni del 19 maggio, all’Hotel Cavour, in una minuscola camera da letto dell’albergo: Nenni stava appoggiato sul letto, io in un angolo del letto stesso e Craxi su una seggiola. Nenni disse: ci giochiamo tutto su quattro deputati. Lui sperava che il Partito socialista unificato avesse 96 o 97 deputati. Se sono 96 o 97, mi disse, ce la facciamo a tenere in piedi il centro-sinistra. Fossero stati 90 o 91, il centro-sinistra era finito. Come difatti avvenne. E anche questa previsione dimostrò la straordinaria lucidità dell’uomo.


Quella vicenda segnò il passaggio dal primo centro-sinistra al secondo, di cui Lei criticava poc’anzi la politica scialacquatrice.



Fino all’uscita dal governo di Moro, il centro-sinistra era stato molto moderato. È nel periodo successivo che assisteremo all’alternarsi di gesti demagogici e di gesti conservatori. Una miscela da cui il centro-sinistra esce distrutto.


Eppure questo benedetto centro-sinistra ha goduto di una stampa peggiore di quel che meritasse.



Su questo non c’è dubbio. E lei sa che, come storico, io ho difeso il valore del centro-sinistra, soprattutto del periodo Moro-Nenni, che giudico il periodo in cui più forte fu il senso dello Stato e più forte la capacità di commisurare le scelte politiche ai limiti obiettivi del paese. Ciò che spezzò la diplomazia morotea fu la contestazione, che infranse tutto e costrinse il PSI a doverne tenere in qualche modo conto. E dalla contestazione nascono tante cose…


Saltiamo alla metà degli anni Settanta, quando i rapporti tra socialisti e repubblicani si incupiscono nuovamente. Siamo nell’ambito della politica e della cultura politica della «solidarietà nazionale», che La Malfa sembra voler puntellare sul PCI piuttosto che sul PSI.



Io ero stato ministro del governo Moro-La Malfa e avevo continuato ad avere rapporti stretti con Craxi, vicesegretario del partito, e tramite Gaetano Arfè – allora consigliere di Francesco De Martino – con il segretario del partito. Il bicolore Moro-La Malfa tenne in notevole conto la posizione socialista, tanto che bastò un articolo pubblicato sull’Avanti! per indurre Moro alle dimissioni. Fu quella la fase in cui il centro-sinistra si consumò. A usare per primo la parola «emergenza» fu lo stesso Nenni, il quale la diffuse e la lanciò nel 1974, sull’onda dell’esperienza del referendum sul divorzio.
La lotta comune a favore del divorzio aveva creato una maggiore unità fra socialisti e repubblicani – non dimentichiamo la straordinaria manifestazione di piazza del Popolo con Nenni, Malagodi, Saragat, La Malfa, Parri e senza i comunisti – e un buon rapporto fra i due partiti. Fu con l’emergenza che cominciò la polemica sulla «terza fase». Moro, nel discorso alla Fiera del Levante di Bari nel settembre del ’75, dette l’impressione di guardare ai comunisti con qualche maggiore attenzione che ai socialisti…


C’erano state di mezzo le elezioni amministrative del giugno ’75, con quel poderoso balzo elettorale dei comunisti…



Difatti. Un balzo elettorale che era la diretta conseguenza del referendum, da cui il PCI aveva ottenuto un diritto di cittadinanza presso i ceti moderati. Ed è quel balzo a determinare l’attenzione di Moro verso i comunisti. Su questo giudizio Moro e La Malfa si riavvicinano. La Malfa, ormai scettico sulle esperienze di centro-sinistra, riteneva che il PSI fosse entrato in una fase di stanchezza, e questa valutazione trovò una conferma nel ’76, dalla vicenda del «Midas», dove fu proprio Craxi, alleatosi con la sinistra lombardiana, a rompere i vecchi equilibri e a ridare dinamismo al partito.


La Malfa s’era profondamente convinto che il PSI non sarebbe divenuto un partito di cultura moderna, riformatrice, tale da accettare le compatibilità di una società industriale complessa.



Questa era la valutazione di La Malfa. E sotto questo profilo egli non ebbe neanche il tempo di rivedere il suo giudizio, essendo morto nel marzo del ’79, quando questo processo era entrato in fase di sviluppo.


Da segretario del PRI lei incontrò diffidenze nel riavvicinare il PRI ai socialisti?



Forse favorito dall’esperienza di direttore del Corriere e di vecchio amico personale di Nenni, ristabilii facilmente i rapporti con il PSI di Craxi. Certo, ci sono state zone di critica ai repubblicani nel PSI e zone di critica ai socialisti nel PRI. Si tratta di zone che ci sono sempre state e sempre ci saranno.


Lei conobbe Craxi quando ancora non era nemmeno deputato, ebbe subito l’impressione di trovarsi di fronte un leader che avrebbe rotto col socialismo massimalista e populista?



Sì. C’è sempre stata in Craxi una forte influenza di Nenni. Io amo dire che anche il culto di Garibaldi gli deriva da quel filone risorgimentale verso cui così forte era l’attenzione di Nenni. Sotto questo profilo l’esperienza repubblicana di Nenni ha avuto un peso nel modo in cui Craxi giudica uomini e cose della storia italiana. Sicuramente Craxi non sarebbe arrivato a formulare l’idea di un «socialismo tricolore» se non provenisse da quelle ascendenze risorgimentali.


C’è stata da parte repubblicana una grande diffidenza nei confronti di uno dei temi portanti del nuovo corso socialista, la Grande riforma delle istituzioni. Era il timore di un piccolo partito di vedersi spossessato del suo ruolo o cos’altro?



Sia i repubblicani che il Pd’A ebbero sul problema dell’esecutivo, quello che sta più a cuore all’amico Craxi, una linea molto audace in seno alla Costituente. I partiti che più si batterono per rafforzare i poteri del capo del governo furono il Pd’A e il Partito repubblicano: assai più della sinistra socialista, dominata dai complessi di un «bloccardismo» antifascista che precludeva questa strada. E ci fu addirittura, nel Pd’A, una corrente presidenzialista, rappresentata da Piero Calamandrei e Leo Valiani. Questo per dire che se da un lato c’è nel PRI una forte diffidenza per tutto ciò che possa essere riforma da laboratorio, dall’altro c’è una grande apertura verso queste tematiche. E credo di averlo dimostrato essendo io l’autore di quei dieci punti che hanno consentito di risolvere la crisi, sia pure per poco, nell’agosto ’82, in vista di individuare i possibili rimedi istituzionali. Il che dimostra come forse un po’ di quella strada che ci divideva, alcuni anni fa, anche in virtù di questa complessa esperienza di governo, sia oggi, e di tanto, ridotta.
Resta, come ragione della diffidenza preminente dei repubblicani di periferia verso alcuni aspetti istituzionali della politica di Craxi, il timore che dietro la riforma delle istituzioni ci sia la riforma elettorale. Il nostro è un partito proporzionalista e nelle formule di ingegneria elettorale vede una ragione di diffidenza profonda. Debbo dirle che condivido pienamente tale sentimento perché sono convinto, sulla scia di Benedetto Croce, che la storia italiana è complessa e complicata, e non può passare attraverso semplificazioni radicali e tanto meno di laboratorio.


Questo vuol dire che il proporzionalismo assoluto vigente nel sistema elettorale italiano è un tabù?



Nulla è tabù in un sistema elettorale, e tuttavia nessun sistema elettorale può prescindere dalle ragioni storiche che rendono diversi e necessari i vari partiti. E d’altro canto debbo dire con soddisfazione che nei recenti contatti col PSI, anche durante il passaggio dal primo al secondo dei governi da me presieduti, ho trovato i socialisti piuttosto inclini a studiare strumenti per accentuare la proporzionalità, togliendo di mezzo quel premio ai partiti maggiori che è evidente soprattutto nelle elezioni al Senato.


Quali diventano allora le urgenze più improrogabili in fatto di riforma istituzionale?



La più urgente è la riforma della presidenza del Consiglio. Sono convinto di avere servito il mio paese facendo coincidere la crisi con una questione istituzionale, che ho portato all’attenzione del Parlamento: il problema dell’unità dell’indirizzo del governo e della collegialità, al di là delle persone, dalle quali le questioni di principio sempre prescindono. Sono convinto che il primo problema è l’istituzione governo. I dieci punti che ho lanciato, col pieno consenso del PSI, li ritengo tutti irrinunciabili: compresa la disciplina del voto segreto.


Tale deve essere il rafforzamento dell’esecutivo da potersi in qualche modo parlare di un «governo del Presidente»?



No. Il rafforzamento dell’istituzione governo non può alterarne la natura parlamentare, per lo meno in questa Costituzione.


Cosa resta, a questo punto della storia politica italiana, dell’ambizione di un terzo polo, laico e socialista, tale da riuscire a bilanciare l’influenza dei due partiti più grandi?



Io non ho mai creduto all’esistenza di un terzo polo laico-socialista: è un punto sul quale ho discusso tante volte, anche privatamente, con Craxi. Ho creduto e credo all’esistenza di un’area laica e socialista, che passa attraverso un polo di democrazia laica non socialista, quello facente capo al PRI, e attraverso un polo di democrazia socialista, che fa capo al PSI. Il buon rapporto fra me e Craxi è nato, in fondo, su una base di distinzione collaborativa: sapendo Craxi che io non intendevo entrare, alla Lussu, nella sfera mitica di un terzo socialismo in cui non c’è spazio, e sapendo io che Craxi non desiderava intervenire nella sfera di una democrazia «liberal», in senso anglosassone, non legata a schemi socialisti. E non dico marxisti perché il PSI può rispondermi che ha superato il marxismo.
Questo rapporto, competitivo e di collaborazione, fra le due aree va mantenuto vivo. E posso dire che il governo a guida laica è quello che ha consentito a tutta l’area laica di crescere. Se prendiamo i test amministrativi che hanno coinciso con il mio governo, soprattutto quello del giugno ’82, che ha interessato quasi un milione di elettori, si vedrà che il governo a guida laica ha avvantaggiato tutti: il PSI, che ha avuto l’incremento più forte, la socialdemocrazia, che ha continuato a guadagnare, il PLI che nel suo piccolo guadagnava in proporzione addirittura più dei repubblicani.


Un incremento che portava l’area laico-socialista a quale percentuale elettorale complessiva?



Se rapportato su scala nazionale, il test del giugno ’82 dava a quest’area il 27-28% dei consensi: che è poi la grande ambizione di Craxi.


Alla luce di quel che è successo dopo il rientro della crisi governativa di agosto, lei non pensa che tanto sarebbe valso interrompere allora la collaborazione di governo tra socialisti e repubblicani e andare a un appuntamento elettorale senza troppi traumi?



Il mio governo aveva un compito un po’ eccezionale, per volontà del presidente della Repubblica e col consenso insieme socialista e democristiano (l’uno e l’altro decisivi e irrinunziabili). Il governo aveva due obiettivi: evitare le elezioni anticipate ed evitare la radicalizzazione dello scontro sociale e politico. Da ciò il mio intervento volto ad evitare la disdetta della scala mobile. I due obiettivi li avevo raggiunti solo in parte, garantendo in agosto la sopravvivenza della legislatura, ma non l’accordo sociale, a causa della disdetta della scala mobile da parte della Confindustria.
Non ho mai dato torto a Craxi nel dire che fra prolungare una legislatura conflittuale e andare alle elezioni, è più corretto andare alle elezioni. Io dico che il presidente del Consiglio, investito di una fiducia speciale dal Capo dello Stato, non poteva fare nulla che avvicinasse né l’obiettivo delle elezioni anticipate né tanto meno quello di uno scontro sociale che in caso di elezioni poteva rischiare di diventare più duro. Di qui la scelta, che fu comune a socialisti e repubblicani, di fare un secondo governo a guida mia, in modo da arrivare, in un clima più decantato, e superato il conflitto sociale, e sciolto il nodo del costo del lavoro, a elezioni eventualmente abbinate, amministrative e politiche, nell’aprile ’83. Questo non è stato possibile per un complesso di ragioni: sulle quali la storia sarà un giorno più equa della propaganda di parte.


PSI e PRI cooperanti, lei ha detto, ma nettamente distinti. Ma davvero la distinzione fra un socialismo moderno e una democrazia laica di ispirazione riformatrice resta, sotto il profilo culturale, così netta e visibile?



Le rispondo con il titolo di un libro di Nello Rosselli, Mazzini e Bakunin. Sono 120 anni che movimento socialista e movimento repubblicano si affiancano: sono come due fiumi che si accompagnano, si sovrappongono, si intrecciano, ma restano sempre distinti. Guardi la UIL, che per tanta parte, alla sua origine, fu repubblicana più che socialista, e vedrà come vi è netto il confine fra la componente repubblicana e quella socialista.


A rendere talmente netta questa distinzione non è, piuttosto che la diversità dei ceppi ideali d’origine, la vischiosità dell’elemento partitico in quanto tale?



Non c’è dubbio che i partiti più «partiti» in Italia sono due, il socialista e il repubblicano, oltre tutto quasi coevi. I loro rispettivi elettorati, nelle zone di addensamento popolare, sono fedelissimi. La Romagna, ad esempio, ha visto per 30-35 anni una concorrenza asperrima fra PRI e PSI nella lotta per la conquista del controllo del bracciantato, delle aree sociali povere: perché il PRI, in Romagna, è un partito di coltivatori diretti, di contadini, di artigiani.
È difficile uscire da certe radici storiche. Ma è giusto porsi il problema di un partito moderno, dove il connotato di classe si svuoti e si arrivi a nuove forme di tipologia sociale. Ebbene, per l’elettore medio italiano l’identità repubblicana è quella del programma di La Malfa, un programma di democrazia rooseveltiana-progressista. L’identità socialista è quella di un programma riformatore nell’area di un socialismo umanitario moderno. Sono due cose ancora profondamente diverse. E aggiungo di più: nessuna ascesa elettorale repubblicana danneggia i socialisti, nessuna ascesa socialista danneggia i repubblicani.


Leggevo in questi giorni «Il custode della Costituzione», quel vero e proprio grido d’allarme in termini di cultura giuridica che Carl Schmitt scrisse nel 1930, alla vigilia dell’avvento del nazismo in Germania. Ci sono 30-40 pagine del libro – la denuncia della partitocrazia, un potere politico che s’è svuotato di ogni capacità di decisione e scelta, un paese lacerato dalle lotte dei vari gruppi sociali – che si potrebbero riproporre oggi, riferite alla situazione italiana, senza mutarne neppure una virgola. Siamo perciò anche in Italia alla sindrome di Weimar, di una democrazia che ha consumato se stessa?



Secondo me, no. Il paese è ricco di risorse, ha una volontà di lotta che non avevano più né il proletariato né la borghesia tedesca di Weimar. La sindrome di Weimar era soprattutto la sindrome di una grande sconfitta militare, non risarcita dal regime repubblicano. L’Italia repubblicana e antifascista non ha patito il complesso della sconfitta. Anzi. È un paese che è riuscito a collocarsi fra i vincitori della seconda guerra mondiale, avendo almeno in parte, attraverso la lotta partigiana e la resistenza, rovesciato la sua posizione. Nonostante tutto, non vedo l’ombra di Weimar.


Ma ci sono eventuali sconfitte economiche che possono piegare una nazione non meno di quanto la Germania sia stata piagata dal trattato di Versailles.



Solo l’inflazione, l’ho detto più volte, può far crollare le libertà politiche in Occidente. La minaccia esiste e la lotta contro l’inflazione è stata l’obiettivo supremo del mio governo, anche se è quello cui hanno corrisposto minori risultati rispetto ai successi ottenuti nella lotta contro il terrorismo e contro la corruzione, e per il prestigio internazionale del paese.
C’è però una variante rispetto agli anni Trenta. La grande interdipendenza delle economie industriali, e il fatto che l’inflazione difficilmente oggi può scoppiare in un paese con il furore che ebbe a Weimar, senza investire tutto l’asse dei paesi industrializzati. Per me, come presidente del Consiglio di un anno e mezzo di vita italiana, l’esperienza più importante rimane quella dei due vertici dei paesi industrializzati, a Ottawa e a Versailles. In quelle due occasioni ho compreso una cosa che non dimenticherò mai: le sorti della libertà e quelle della sicurezza economica e sociale sono indivisibili.


Senatore Spadolini, da presidente del Consiglio lei ha seguito con grande simpatia e affetto, l’estate scorsa, le sorti della squadra italiana campione del mondo di football. Sono in molti a pensare che nell’autunno c’è stato un Paolo Rossi democristiano che ha fatto un gol all’area laico-socialista, togliendole la presidenza del Consiglio.



Se quel gol c’è stato, il valore dell’alternanza rimane comunque intatto, quali che siano gli accidenti della cronaca.


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