di Giuseppe Galasso - «Mondoperaio», agosto-settembre 1987, pp. 31-33




Cominciamo col porre una questione: che cos’è, a propriamente parlare, lo «spazio politico» di un partito? È uno spazio oggettivamente determinato, che, quindi, c’è o non c’è, oppure è il prodotto di un’azione politica soggettiva di determinate forze, uomini, gruppi etc.? È una serie definita di possibilità di intervento in una determinata situazione storica e sociale, che perciò va capita bene nei suoi elementi, affinché ci si inserisca nel fluire di quelle possibilità; oppure è il risultato di una volontà politica precisa, che costruisce da sé il suo campo e le sue possibilità di azione?
Mi pongo l’interrogativo anche perché, dopo i risultati elettorali di giugno, si è sentito dire da molte parti che essi avevano sottratto ai partiti «laici» precisamente il loro «spazio politico» e che a questi partiti non restava, perciò, altro, ormai, che trarne le conseguenze dovute. Ma so che la risposta a quell’interrogativo non può che comprendere sempre sia l’elemento soggettivo che quello oggettivo; e che parlare di preclusioni oggettive e definitive nel corso di processi storici dalle frontiere ancora tutte mobili e aperte è una forzatura concettuale ed è un errore di metodo prima ancora che un errore di fatto. E che i processi storici in corso in Italia, ai quali per i risultati elettorali di giugno ci si riferisce, siano processi ancora in pieno svolgimento e destinati ad esiti ancora tutti da definire, credo che nessuno possa o voglia seriamente porre in dubbio. Il senso di questi processi o, meglio, il loro senso tendenziale è chiaro: un definitivo ammodernamento del paese, una sua completa promozione economica e sociale nelle direzioni più avanzate, una sua grande fase di vitalità prorompente e creativa, una trasformazione dei suoi bisogni e delle sue esigenze e una loro trasposizione su piani morali e sociali più alti. Ma le vie e gli strumenti di questo che qualcuno ha addirittura definito «nuovo rinascimento» sono tutti ancora largamente in gioco: non si parte certamente da zero, ma neppure si può dire che i giochi siano tutti fatti. Anzi, il carattere appassionante e terribilmente coinvolgente della vita italiana di questo periodo agli occhi non solo degli italiani, bensì anche di tanti e tanti osservatori stranieri sta proprio largamente in ciò: nel non potersi, cioè, dire ancora quali saranno le forze della trasformazione, nel non poter ancora indovinare come andrà a finire tra i protagonisti in campo. Questione – com’è facile intendere – del massimo rilievo, perché dal tipo di forze che prevarranno e dagli equilibri che ne conseguiranno dipenderanno pure, in gran parte, la direzione, la consistenza e il significato che assumeranno poi gli esiti della trasformazione.
Da questo punto di vista attribuire un valore epocale ai risultati di giugno e dedurne che essi abbiano segnato per i «laici» l’inizio della fine, è francamente eccessivo, oltre che fuorviante, se inoltre si considerano alcune altre caratteristiche dell’universo politico italiano.
Si tratta, invero, di un universo a forte impronta pluralistica, che in questo suo pluralismo ha indubbiamente alcune evidenti ragioni di fragilità e di precarietà, ma ha anche una delle molle principali (e, per chi guardi alla tradizione storica del paese, la principale) della sua costante vitalità, della sua capacità di riprendersi e di progredire da tante, e attraverso tante, circostanze negative. Il «laicismo» è uno – e non dei meno cospicui – degli elementi che ne costituiscono la struttura pluralistica. Lo è storicamente, per la sua diretta derivazione dalla fondazione risorgimentale dello Stato nazionale e unitario in Italia. Lo è culturalmente per l’accumulazione progressiva, intorno a quel tronco storico, di nuove idee, di nuovi orientamenti economici, sociali, istituzionali, etico-politici. Lo è idealmente per le fortissime opzioni di civiltà e di valori della vita individuale e della convivenza sociale, che esso ha proposto e propone ininterrottamente fin dalle sue origini e che ha anche rivelato di saper comporre in proposta costruttiva, dopo di averle affermate in chiave negativa: basti pensare all’anticlericalismo sfociato nel pensiero più moderno sui rapporti fra Stato e Chiesa o alle petizioni antisocialiste trasformate in un disegno organico di politica sociale. Lo è, infine, socialmente e di fatto, perché ad esso sono legati tradizioni e ceti e gruppi sociali nuovi; vi sono tradizioni radicate territorialmente in più zone, urbane e rurali, del paese; vi è una capacità più volte comprovata ad essere assunto come base di identità di ceti e di gruppi in situazioni storiche assai diverse tra loro.
Ben di più. La pluralità, che è l’elemento di principio più caratterizzante e propulsivo del sistema italiano, è, d’altra parte, talmente consustanziale ad esso da riflettersi anche all’interno delle singole aree e settori, di cui il sistema si compone. Come sarebbe assai poco realistico ignorare la sussistenza, in Italia, di molti socialismi e di molte realtà cattoliche, spesso tra loro in tensione non minore di quanto lo sia il complessivo campo cattolico o socialista rispetto ad altri campi, così sarebbe poco realistico ignorare che differenziazioni e articolazioni interne molto profonde contraddistinguono egualmente il laicismo italiano, per ridotte che ne possano apparire le sue attuali dimensioni politiche e, soprattutto, elettorali. Intanto, potrà essere opportuno precisare, per quanto sia probabilmente superfluo, che da questo punto di vista politico ed elettorale i «laici» sono oggi in Italia, sostanzialmente, i liberali e i repubblicani. Per la verità, a mio avviso, vi si dovrebbero comprendere anche i radicali e i verdi, che solo una convenzione poco (sempre a mio avviso) accettabile considera dislocati nella generica e sempre meno chiara area della sinistra italiana. E a stretto rigor di termini vi si dovrebbero egualmente comprendere molte espressioni di quel mondo degli «indipendenti di sinistra», che a me appare dato puramente e semplicemente per mondo di sinistra solo perché esso stesso e gli altri non ne approfondiscono nella maniera dovuta le reali ispirazioni. Certo, d’altronde, non appare opportuno comprendere oggi fra i «laici», se si prescinde dai casi di singole persone, i socialdemocratici: non foss’altro che per essersi essi identificati con un’«alternativa di sinistra», che non si capisce in qual modo si possa distinguere dalle posizioni attuali dei socialisti italiani. È senz’altro più importante, perciò, acquisire il senso delle distinzioni che si pongono perfino tra liberali e repubblicani (e che a me piace di interpretare come distinzioni fra liberalismo e democrazia) anziché dare per scontato il luogo comune, che troppo spesso include, anche oggi, i socialdemocratici nell’area laica.

Questo discorso è troppo generale in relazione ai risultati elettorali di giugno? Può darsi. Ma è anche necessario per il significato epocale che a quei risultati, proprio in rapporto ai «laici», da alcune parti si è voluto attribuire. Ed è opportuno perciò dare anche uno sguardo alle ragioni di quei risultati.
Per quanto riguarda i repubblicani, credo che si possa anche accettare l’opinione di coloro ai quali è sembrato che i voti in meno siano venuti al PRI per il fatto che esso non è riuscito a spiegare agli elettori bene e fino in fondo il significato della «mediazione» che il PRI proponeva come sua parola d’ordine; e non mi scandalizzo affatto che siano usciti premiati dalle urne i partiti che si ponevano fra loro in posizione fortemente conflittuale, ossia DC e PSI. Quel che bisogna vedere è se i risultati delle elezioni hanno risolto il problema dell’equilibrio politico in Italia, una volta che i due contendenti possono legittimamente ritenere di aver vinto entrambi. E da questo punto di vista oso rispondere, senza alcuna incertezza, che i risultati elettorali non hanno sciolto il problema. Ma vorrei anche aggiungere che la mancata soluzione non dipende dal fatto che i contendenti siano stati premiati entrambi, perché anche se avesse vinto uno solo di essi il problema dell’equilibrio politico in Italia non sarebbe stato egualmente risolto.
Questo problema siamo, infatti, condannati – per così dire – a trattarlo ancora nei termini degli anni precedenti, fino a quando non sia maturata nel paese una reale alternativa politico-parlamentare alle maggioranze che, comunque, comprendono laici, socialisti e cattolici. È una sciocchezza affermare che le elezioni di giugno abbiano dato la possibilità di una maggioranza senza la DC. L’on. Craxi, che è uomo politico avveduto, ha giustamente detto che questo è soltanto un fatto numerico, ossia senza rilievo politico e senza possibilità di espressione parlamentare. Né c’è da credere troppo allo spauracchio di un accordo tra la DC e un PCI sempre più in difficoltà e sempre meno vitale che spiazzi i laici e i socialisti sotto la fitta coltre di un nuovo e più gravoso «compromesso storico»: questo davvero sarebbe il più bel regalo politico ed elettorale che democristiani e comunisti potrebbero fare ai laici e ai socialisti. E sarebbe anche un vero “harakiri” della DC rispetto a tutto quanto essa è stata ed è.
E allora? Allora bisognerebbe prendere atto che in Italia, se l’alternativa non può realizzarsi a guida comunista, come dimostrano ormai quarant’anni di storia; se addirittura siamo di fronte a una redistribuzione delle forze di sinistra, che vede sempre più emergere i socialisti come forza centrale e, ormai, tendenzialmente maggiore; se l’alternativa ai governi di coalizione che si sono avuti in quarant’anni prima col centrismo, poi col centro-sinistra e, infine, col pentapartito non è ancora maturata: allora bisogna concludere che le soluzioni di governo e di maggioranza realmente possibili sono meno numerose e meno peregrine di quanto si dica o si desideri. Perciò, non si può realizzarle se non mediando accortamente tra le istanze dei varii protagonisti delle maggioranze realmente possibili, e cioè in pratica tra PSI e DC; bilanciando le loro esigenze; trovando tra essi le linee migliori di convergenza.
Questo è quel che il PRI sosteneva nelle elezioni, e questo è vero anche dopo. È risultata perdente un’indicazione elettorale, ma non sono state eliminate le esigenze, i problemi concreti a cui ci si riferiva. Così, già con l’inizio della legislatura abbiamo avuto, per le presidenze delle due Camere, soluzioni di compromesso. Poiché si trattava di livelli istituzionali, è stato, anzi, necessario coinvolgere nella mediazione anche il PCI, e proprio i socialisti hanno mostrato, al riguardo, grande sensibilità. Per il governo questo non avverrà, e la bilancia, di cui parlano i repubblicani, dovrà operare per consentire l’equilibrio entro cui trovare un accordo tra DC e PSI. In caso contrario, ci sarebbe solo la prospettiva di una fine molto rapida della legislatura e di nuovi duelli elettorali tra i due partiti, fino a che uno di essi riesca piano e solo vincitore. È questo che richiede l’interesse del paese: instabilità prolungata, conflittualità di gran lunga superiore al normale, scontri politici con tutte le loro complicazioni sociali e di altro genere, e così via? Non lo credo io, e non è ragionevole che lo credano altri. E perciò, prima di ritenere che la posizione politica del PRI sia stata annientata e sepolta dalle elezioni, ci penserei due volte. Anche su Ugo La Malfa si ironizzava come «Ugo della bilancia»; ma quell’ago ha contato, come si sa, per decenni nella politica italiana ed è partendo di lì che, con Spadolini, il PRI ha potuto raggiungere le posizioni del 1983.
Un’ultima insistenza: bilancia, equilibrio, mediazione e perfino compromesso non sono e non possono essere, in questo discorso, termini con lo stesso significato che essi hanno nelle tecniche e nella scienza o nel patteggiamento mercantile. Questo – come si è detto – il PRI non è riuscito a farlo capire abbastanza in campagna elettorale, ma è essenziale. L’equilibrio può scaturire soltanto, come Ugo La Malfa insegnò sempre, da una proposta, da un’iniziativa, da una proiezione attiva e dinamica e non da una statica remissione al gioco delle parti politiche e sociali. In altri termini, non si media fra idea altrui, pensando il pro e il contro di questi o di quelli. Si media se si riesce a formulare idee, proposte proprie in grado di vincere il confronto con le antitesi bloccanti delle idee che si scontrano. In questo senso, come sempre, la mediazione non è il ruolo dei deboli, bensì – a dispetto delle dimensioni e proporzioni sulla cui base si opera – il ruolo dei forti.

La questione più importante non è, tuttavia, questa, bensì quella dalla quale abbiamo preso le mosse, e cioè se le elezioni del 1987 abbiano chiuso per i partiti laici una prospettiva storica e abbiano aperto anche per essi, come sembra per il PCI, la via di un fatale declino. Ci si consenta di insistere sul fatto che qui la questione è storica e culturale e non può che riferirsi al senso generale dello sviluppo della società, al quale si assiste. Ebbene, questo sviluppo sembra andare – come si è detto – sempre più verso forme di società progressivamente più articolate, più differenziate, più ricche di energie morali e materiali, con ceti e classi che chiedono rappresentanze nuove. Esso sta smentendo totalmente la catastrofica previsione marxistica di un mondo bipolare: pochi ricchi di qua, un’enorme massa di poveri e di disperati di là. Ma sta anche rivelando la progressiva inadeguatezza ad esso delle culture del solidarismo, dell’assistenza, del popolarismo, della fraternità interclassista e così via.
Queste cose sono state abbastanza bene e tempestivamente capite in molta parte del mondo politico italiano. Questo mi pare essere, ad esempio, il senso dello sforzo di De Mita nella DC; questo è senz’altro il senso dell’azione di Craxi per il PSI. Ma questo anche costituisce da ben più lungo tempo il senso della presenza e del pensiero repubblicani nell’Italia moderna; e non è un caso che il PRI stia emergendo alla lunga come una forza sempre più significativa dei suoi limiti elettorali nella geografia politica e morale della nuova Italia.
La distinzione che, a questo riguardo, facciamo tra «laici» e «socialisti» non è una distinzione gratuita; è una distinzione seria e oggettiva: ci sono cose che possono dire a fare gli uni e non gli altri, e viceversa. Sulle questioni del «movimentismo», ad esempio, o su certi aspetti di riforma istituzionale o di politica economica e sociale molto spigliata o su certi aspetti della gestione del potere, i socialisti possono essere molto dinamici. Sul senso dello Stato, sulla questione morale (benché qualcuno la consideri ormai una questione «noiosa»), sul rigore anche finanziario dell’amministrazione pubblica e della politica economica e sociale, su alcuni aspetti dei problemi di struttura istituzionale i repubblicani non possono essere che rigidi.
Si tratta, in effetti, di culture e di sensibilità diverse, che il progresso stesso della società acuisce e specifica ulteriormente nel quadro di una struttura sempre più pluralistica. Più l’Italia si fa moderna e progredisce, più le forze connesse a queste culture e sensibilità acquistano senso e spazio. E non valgono i compromessi di potere da imporre con la forza, né le minacce e i ricatti di riforma elettorali strangolati a togliere ad esse il loro senso e il loro spazio. Né può toglierli qualche risultato elettorale meno favorevole.
Che poi, all’interno del movimento complessivo della società italiana, possano determinarsi scenari in cui il raccordo laico con altre forze (in pratica, con quelle socialiste) diventi un’opportunità, e perfino una necessità, nessuno potrà negare. Ma si tenga presente che, anche in tal caso, la collaborazione (o quel che sia) tra «laici» e socialisti potrà essere molto importante e felice solo se non si tradurrà in uno schieramento rigido e compatto, in una specie di superpartito, in cui, per giunta, rapporti di forza come quelli attuali ridurrebbero i «laici» a un ruolo di satelliti dei socialisti analogo a quello, al quale, negli anni ’50, i socialisti, per quanto riguardava il loro partito rispetto al PCI, sacrosantamente si negarono e si ribellarono. La collaborazione (o quel che sia) potrà essere importante e felice solo se essa si porrà come una convergenza di idee e di iniziative in cui la specificità di ciascuno sia garantita e se ne possa trarre il massimo di vantaggio per il bene comune del paese.
Certo, a mio avviso, il raccordo laico tra quelle forze più congeniali alle quali ho accennato come sostanzialmente laiche (fino ai radicali, ai verdi e a varii esponenti della sinistra indipendente, per non entrare nei confini di altri partiti ben più strutturati) è una prospettiva non meno rilevante e interessante di quella del più generale fronte o cartello laico-socialista, del quale soltanto si fa un così gran parlare. E credo pure che nessun discorso serio di «laici» o di socialisti possa in Italia fare a meno di porsi la «questione cattolica» in termini almeno altrettanto cogenti e approfonditi di quelli in cui ci si pone solitamente, nella sinistra (un “topos” – sia detto per inciso – anch’esso da verificare), la «questione comunista». I risultati di riflessioni serie su tali problemi potrebbero anche portare, oltretutto, a ipotesi diverse da quelle del cartello laico-socialista: almeno in determinate congiunture e per determinati problemi.
Ma proprio la varietà delle possibili prospettive tattiche e strategiche (come suol dirsi) in materia di futuro politico e civile del paese non può che confermare – almeno nell’ottica repubblicana che qui si è cercato di illustrare – la necessità di non credere che l’essere discesi dal 5,2 al 3,8% in una tornata elettorale chiuda i discorsi di un partito e lo esima dalla responsabilità di essere se stesso. Oltretutto, quel 3,8% costituisce i repubblicani in posizione di rilievo sempre superiore a quella degli anni ’70 e li convalida come espressione più valida e più vitale del settore «laico» anche per il prossimo futuro.


Giuseppe Galasso