Le proteste delle donne afghane nelle città, però, non sono state accompagnate da reazioni simili nelle campagne, dove vive più del
70 per cento della popolazione afghana. L’Afghanistan rurale è infatti molto diverso da quello urbano, e ha vissuto molto diversamente anche gli ultimi vent’anni di occupazione americana.
Lo ha raccontato in un
lungo articolo pubblicato sul
New Yorker il giornalista ed esperto di Medio Oriente Anand Gopal, che ha trascorso mesi nella provincia di Helmand, nel sud-ovest dell’Afghanistan, dove la presenza dei talebani era molto forte anche prima dell’offensiva militare di quest’estate, intervistando decine di donne afghane. Non è stato semplice: nelle campagne le donne afghane vivono soprattutto dentro casa, e non parlano volentieri con gli estranei. La divisione tra il pubblico e il privato è molto netta, e Gopal è riuscito a parlare con loro soprattutto grazie alle donne più anziane, che lo hanno accompagnato e presentato alle altre donne. Ne ha intervistate molte, spesso senza vederle in faccia.
Il suo racconto è molto utile per cercare di capire cosa sta succedendo e come viene vissuto il nuovo regime anche in zone meno raccontate dai giornali o sui social network, e per evitare di ricondurre l’Afghanistan di questi giorni a una sola immagine.
Nelle campagne, l’instaurazione del nuovo regime dei talebani non ha destato l’indignazione e il malcontento che ha caratterizzato le città, né le donne intervistate da Gopal hanno intenzione di lasciare il paese. Per capire come questo sia possibile, è importante sapere che l’Afghanistan rurale ha vissuto l’occupazione sovietica e quella americana, così come il passato regime talebano, in modo molto diverso dalle città.
Gopal parla di un Afghanistan «sostanzialmente diviso in due»: se nelle città l’occupazione sovietica e quella americana hanno spesso portato – sebbene con problemi e molte inadeguatezze – diritti e prosperità, nelle campagne hanno portato più che altro violenza, spesso contro i civili. Nelle città, il regime talebano è stato vissuto come un inferno; nelle campagne, come un momento di pace.
Le donne intervistate da Gopal, per esempio, raccontano di come, durante l’occupazione sovietica, i tentativi di mandare le ragazze a scuola furono improvvisi, inaspettati, e percepiti come qualcosa di imposto dall’esterno e completamente diverso rispetto a quanto era sempre stato fatto, anche dalle stesse donne. Quei tentativi, racconta una di loro, provocarono solo violenza tra chi voleva liberare le donne e chi si opponeva a quella liberazione.
All’occupazione sovietica seguì una sanguinosa guerra civile tra i
mujaheddin islamisti e il governo afghano, raccontata dalle donne con immagini di cadaveri trasportati nelle campagne, stupri e uccisioni, suoni di spari e urla che arrivavano inaspettati durante le normali occupazioni quotidiane.
In un contesto come questo, quando nel 1996 i talebani (gruppo fondato nel 1994 dal mullah Omar, che aveva combattuto tra i
mujaheddin) presero il potere e instaurarono il loro regime, nelle parole delle donne afghane ascoltate da Gopal arrivò più che altro la pace: il regime talebano veniva da loro giudicato alla luce di quanto era accaduto prima più che sulla base di qualche principio universale di giustizia e rispetto dei diritti umani. Soprattutto, la loro vita non cambiò granché, se non nella misura in cui smisero di sentire spari e di subire incursioni notturne in casa da parte di stranieri che cercavano il nemico. Tornarono le mattine in cui si poteva fare colazione senza aver paura, dicono alcune di loro, e le sere d’estate in cui si poteva stare sul tetto di casa senza rischiare la vita.
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Nelle campagne, le donne afghane hanno vissuto quindi molto male anche l’occupazione americana, che per loro ha significato più che altro una nuova ripresa delle violenze e della guerra civile. Per molte di loro, l’immagine del male non corrispondeva tanto ai talebani quanto ai comandanti dell’esercito afghano e ai soldati americani che perlustravano le campagne, casa per casa, cercando i talebani, e a volte uccidendo civili sospettati di esserlo, o portandoli in prigione.
Le donne raccontano anche che erano i talebani, spesso, ad avvisare la popolazione locale degli attacchi e dei conflitti imminenti, consigliando di chiudersi in casa, di non transitare per le strade, o chiudendo il traffico ai civili quando dovevano attaccare un veicolo militare americano. Gli americani, invece, non lo facevano, e ogni volta che moriva un civile l’indignazione verso di loro cresceva, anche nelle donne, che raccontano le morti improvvise di bambini che giocavano o dormivano, di mariti o parenti uccisi da un drone mentre partecipavano a un funerale.
Non stupisce, quindi, che i rapporti del governo americano parlassero di una percezione «sfavorevole» delle forze di coalizione da parte della popolazione locale. Per alcune donne che vivevano nelle campagne, gli stessi programmi di istruzione
venivano percepiti come un’imposizione di valori occidentali.
La punta del fucile di un soldato americano che perlustra una campagna afghana da un elicottero, nel 2009 (Chris Hondros/Getty Images)
Quando pensiamo a come le donne afghane che vivono nelle campagne stiano vivendo l’instaurazione del nuovo regime talebano, è importante avere in mente tutto questo. Per molte di loro – che in questi vent’anni non sono andate all’università, non hanno viaggiato, non sono diventate giornaliste, politiche o diplomatiche, non hanno vissuto in città che crescevano e si trasformavano – la fine dell’occupazione americana e il ritorno dei talebani significa semplicemente la conclusione della guerra.
Una casa afghana distrutta da un attacco aereo nella provincia di Helmand (AP Photo/Abdul Khaliq)
Durante il suo viaggio, Anand Gopal ha visitato diversi villaggi e paesi della provincia di Helmand. Le donne con cui ha parlato subiscono le stesse prevaricazioni di prima – una di loro, per esempio, è stata picchiata perché è andata al mercato da sola, a comprare dei biscotti – ma senza carri armati, attacchi aerei e altre violenze nei dintorni. «Se ci ubbidisci, non ti uccideremo» è il semplice accordo con cui i talebani gestiscono ora molti di quei luoghi.
Gopal, comunque, ha chiesto alle donne che ha incontrato che cosa pensassero della disparità con cui sono trattate rispetto agli uomini. La loro risposta, diversamente da quanto sarebbe accaduto in città, non è stata compatta.
Alcune di loro hanno risposto polemizzando sul fatto che mentre alle donne di Kabul venivano dati dei diritti, le donne in campagna venivano uccise. Altre hanno difeso le regole esistenti, dicendo che le donne e gli uomini non sono uguali, che hanno ruoli diversi, e che questi ruoli vanno rispettati, e preservati. Una di loro ha detto che ha pensato tante volte di lasciare suo marito, ma che per lei sarebbe stata una rovina economica e sociale: «Troppa libertà è pericolosa», ha detto.
Altre, infine, hanno detto che vorrebbero che le regole cambiassero, che fosse permesso loro di andare liberamente al mercato, o a fare un picnic. Tutte, però, concordano sul fatto che il cambiamento non può essere imposto. Alcune di loro pensano che lo strumento per acquisire diritti risieda proprio nella religione islamica: «I talebani dicono che le donne non possono uscire, ma non esiste nessuna regola del genere nella religione islamica», dice una di loro. «Col capo coperto, dovremmo poter andare dove vogliamo».