di Agostino Marianetti – «Mondoperaio», aprile 1989, pp. 4-6.



Il progetto «reddito di cittadinanza», che il dipartimento politiche sociali del PSI ha elaborato avvalendosi del contributo di numerosi esperti e operatori, sviluppa l’ipotesi della graduale costruzione di un sistema di protezione sociale atto a garantire un livello minimo di reddito a tutti i cittadini. È un progetto che si colloca nella direzione dell’estensione e ridefinizione delle prestazioni sociali dello Stato, ma anche in quella della razionalizzazione tesa a ridurre duplicazioni e sovrapposizioni che nella crescita disordinata di questi anni si sono determinate.
Un partito come il PSI, che si propone come leader dello schieramento progressista del paese, non può rinunciare all’impegno per obiettivi di grande interesse e coinvolgimento sociale diretti a rendere più equa la distribuzione del reddito, e soprattutto non può rinunciare a fornire un reddito minimo vitale a chi per cause insuperabili ne è privo, tendendo conto che esistono aree di cittadinanza che hanno usufruito assai poco della consistente crescita del reddito nazionale verificatasi negli ultimi anni.
C’è una premessa da fare, anche in relazione alle osservazioni che il progetto ha già suscitato. Se noi fossimo in presenza di una società in grado di garantire il lavoro a tutti, o se pensassimo che esistono modi attraverso i quali nel breve periodo si possono assicurare a tutti, purché lo vogliano, le opportunità di lavoro, allora dovremmo discutere degli strumenti mediante i quali attivare tali opportunità. Il problema della garanzia del reddito, quindi, non si porrebbe se non per l’area limitata di coloro che sono fisicamente impossibilitati a svolgere un’attività lavorativa. Il nostro ragionamento, invece, si riferisce a una situazione nella quale le opportunità di lavoro per tutti non ci sono, né è prevedibile che siano attivabili entro un periodo breve.
Posto che la figura del disoccupato involontario non è destinata a sparire nel breve periodo, e sapendo però che essere disoccupati non significa necessariamente essere nullatenenti, noi abbiamo concentrato l’attenzione verso coloro che, a causa di impedimenti fisici o economici nella ricerca di un’occupazione, si trovino a esser privi di reddito.
La domanda che ci siamo quindi posta non è quella, pur legittima, dell’accettabilità dal punto di vista dell’etica sociale della disoccupazione involontaria; ci siamo chiesti, invece, se è giusto che in una società avanzata e «opulenta» vi siano cittadini assolutamente privi di reddito. Quarant’anni fa questo interrogativo sarebbe apparso del tutto irrealistico: l’Italia era una società povera, dove il reddito era modesto per chi lavorava ed era impossibile pensare di poterlo garantire comunque a tutti. Oggi l’Italia è una società che si può definire «ricca», in crescita dal punto di vista del reddito disponibile e delle risorse che è in grado di produrre. In questa situazione l’obiettivo di evitare che qualcuno sia assolutamente privo di reddito ci sembra proponibile storicamente, eticamente e politicamente. Una volta accolta questa considerazione, resta il problema degli strumenti mediante i quali raggiungere l’obiettivo. Questo potrebbe essere risolto con estrema semplicità stabilendo che ogni cittadino, che non ha reddito proprio o titolo giuridico per partecipare di un reddito altrui, ha diritto a una certa cifra corrispondente al minimo vitale. Si tratterebbe quindi solamente d’istituire una nuova forma di trasferimento da attribuire a tutti i cittadini che risultano al di sotto di tale livello di reddito.
Abbiamo cercato di andare oltre perché ci è sembrato che in questo modo si riproponesse uno schema che vede lo Stato nel ruolo di erogatore di denaro a fini assistenziali, e il cittadino in quello di percettore passivo. Abbiamo pensato che invece fosse opportuno cercar di realizzare la garanzia del reddito minimo attraverso un’«attivazione biunivoca», che veda protagonisti, da una parte, la società e, dall’altra, i cittadini privi di reddito coinvolti in quello che potremmo definire uno «scambio di solidarietà».
Nello stesso tempo abbiamo cercato di assumere un’ottica realistica e pragmatica: se il problema è quello di arrivare a una garanzia, per tutti i cittadini, di un reddito minimo, ci è parso opportuno innanzitutto considerare gli strumenti che già esistono. Rispetto ad essi l’intervento da compiere è essenzialmente quantitativo; si tratta di far sì che i trasferimenti assicurati da questi strumenti vengano progressivamente portati alla soglia del «minimo vitale» opportunamente definito in base ai diversi parametri. Ciò vale, per esempio, per le pensioni sociali e per l’indennità di disoccupazione.
Dove questi strumenti non esistono, si tratta di costruirli, e in quella sede può manifestarsi compiutamente l’idea della solidarietà biunivoca, dello «scambio di solidarietà». Gli strumenti e gl’istituti rivolti al fine di garantire il «reddito minimo di cittadinanza» non devono lasciare inalterata la situazione d’inerzia e passività su cui intervengono, ma piuttosto dar luogo all’attivazione dei destinatari. Tale attivazione, che non può avere la forma del rapporto di lavoro, può trovare quella dello «scambio di solidarietà» nella forma di una prestazione, di un servizio, che la collettività può richiedere al destinatario del trasferimento. Abbiamo cioè pensato a un assegno da elargire in presenza della prestazione di un’attività di servizio civile.

Naturalmente anche questo tipo di soluzione pone moltissimi problemi. In primo luogo bisogna individuare l’insieme delle attività possibili che a nostro avviso dovrebbe collocarsi nell’ambito del cosiddetto terzo settore, della produzione di «beni di cittadinanza», non in grado di svilupparsi in base a pure logiche di mercato (assistenza ad anziani e portatori di handicap, ma anche riordino delle biblioteche, tutela del patrimonio ambientale e artistico e così via).
Su questo terreno le istituzioni hanno finora confidato eccessivamente sulle nobili intenzioni del volontariato, mentre, secondo noi, esse devono proporsi di suscitare tra i cittadini disponibili un’attitudine ad attivarsi in tal senso integrando con nuove forze ed energie quelle dell’associazionismo e del volontariato organizzati.
Ovviamente il tipo di servizi e prestazioni che può essere richiesto dev’essere intelligentemente variato in rapporto ai segmenti di popolazione cui ci si rivolge: a un giovane disoccupato possono esser richiesti servizi diversi da quelli che si possono richiedere a un operaio specializzato o a un anziano.
In secondo luogo si pone il problema di chi deve organizzare e promuovere tali attività. Noi pensiamo sia opportuno abilitare una moltitudine di soggetti: tutti quelli che fanno capo al servizio di protezione civile, le grandi e piccole realtà del volontariato, le comunità terapeutiche e di recupero, gli enti locali o nazionali, le associazioni e così via. Si tratta di fare in modo che tutto avvenga nelle forme più semplici, riducendo al minimo i problemi di gestione, di controllo formale, di organizzazione burocratica. L’erogazione dell’assegno potrebbe aver luogo semplicemente in rapporto al fatto che un avente diritto si ponga in contatto con un ente abilitato a promuovere i servizi di solidarietà e svolga nel suo ambito la sua attività. È necessario, naturalmente, definire l’opportuna normativa sulle modalità di svolgimento della prestazione, sui meccanismi di controllo sostanziale e così via.
Ciò che va salvaguardato è la caratteristica innovativa della proposta di connettere direttamente domande e offerte (o meglio attese e necessità) presenti separatamente nella società. La domanda di collaborazione proveniente dagli enti impegnati nel terzo settore incontrerebbe l’offerta di chi, in cambio di un reddito minimo, è disposto a fornire qualche ora del suo tempo. L’offerta di servizi così prodotti incontrerebbe la domanda di «beni di cittadinanza» che una società solidale dovrebbe comunque soddisfare. Questo sarebbe verosimilmente un contributo a prevenire lentezze, omissioni o parzialità clientelari da parte dell’amministrazione, disfunzioni, queste, che una logica puramente erogativa e tradizionalmente carente quanto ad accertamento del diritto difficilmente potrebbe evitare.
Tutti questi problemi ci sono sembrati complessi ma non insolubili. Il risultato che è possibile ottenere, d’altra parte, è tale da rendere accettabile la sfida: si tratta di fornire reddito a chi ne è privo e nel contempo mettere in moto un grande meccanismo di solidarietà collettiva capace di rispondere, almeno parzialmente, a quella crescente domanda di «beni di cittadinanza» che si manifesta nelle società avanzate.
L’obbligatorietà della prestazione di un servizio civile in cambio dell’assegno può produrre una certa selezione tra coloro che ne avrebbero potenzialmente diritto. Si può supporre, infatti, che vi siano individui giuridicamente privi di reddito ma non disponibili al servizio civile perché inseriti in nuclei familiari in grado di garantirlo; oppure vi possono essere persone impegnate nel lavoro sommerso e non istituzionalizzato cui non hanno interesse a rinunciare. Si realizzerebbe così l’effetto ulteriore di far emergere una serie di situazioni che si nascondono dietro l’apparente assenza di reddito.

Individuati i segmenti di popolazione potenzialmente interessati, istituito il meccanismo di scambio, e scontato l’effetto selettivo che questo può avere, resta ovviamente da affrontare il problema dei costi di tale operazione.
Dai primi approssimativi calcoli che abbiamo fatto, abbiamo ricavato la convinzione che, se assumiamo l’ipotesi di una implementazione progressiva, di una gradualità nell’introduzione della garanzia del reddito di cittadinanza, ciò che appare nell’immediato angoscioso può risultare maggiormente fattibile. Nulla impedisce, infatti, di cominciare a sperimentare istituendo l’assegno di servizio civile solo per alcune fasce di popolazione (per esempio per i giovani, tra i quali il problema dell’assenza di un reddito proprio è più sentito) e/o limitandone l’importo. D’altra parte, quando fu istituita la pensione sociale, questa ammontava a una cifra irrisoria. Decidere di assegnare allora la «scandalosa» cifra di 12 mila lire a chi, non avendo titoli per la pensione previdenziale, non aveva nulla, si è dimostrata una buona cosa: con il tempo le pensioni sociali sono gradualmente salite fino ad avvicinarsi alla già citata soglia del minimo vitale. Nello stesso tempo dobbiamo chiederci se è opportuno che le forze riformatrici debbano ragionare, formulare proposte, indicare prospettive solo ed esclusivamente nell’ambito delle angustie del deficit del bilancio. È certamente obbligatorio aver sempre presente la grande questione della riduzione del disavanzo, ma ciò non può impedire di riflettere sulle prospettive, di ricercare le strade per costruire il futuro.
In questo momento, sia in Italia che all’estero, ci sono molti che ragionano in termini simili ai nostri; che cercano di non esaurire una funzione, un impegno politico e civile dentro le regole dominanti, dentro i vincoli che ci siamo procurati o che ci sono stati attribuiti. Sono in molti – siamo in molti – a riflettere sul divenire dello Stato sociale, sui principî e sulle politiche della solidarietà. Riflessioni simili alle nostre sono state recentemente sviluppate in un confronto promosso dall’IRES-CGIL; alcuni punti di contatto possono essere ritrovati con il dibattito seguito alla pubblicazione delle conclusioni della commissione Gorrieri sulla povertà; di recente un gruppo di intellettuali, studiosi e operatori sociali ha sollecitato le forze politiche a un impegno su questi temi. La nostra proposta, pur inserendosi in questo filone, aggiunge un nuovo elemento al dibattito, pensando d’avvalersi di una forma di «scambio di solidarietà».
Questo modello ci sembra concettualmente più completo rispetto a quelli che, tradizionalmente, si basano sul principio del reddito dovuto al cittadino in quanto tale.
Il concetto di «scambio di solidarietà» implica che la solidarietà stessa assurga a principio centrale, a cui i cittadini attingono o contribuiscono secondo le loro peculiarità. Se, cioè, una fruizione solo passiva è concessa a quei cittadini (handicappati, anziani, infermi) che sono impossibilitati ad agire altrimenti, è diversa la posizione di quei disoccupati o inoccupati in età lavorativa che, in cambio dell’attenzione che la società doverosamente rivolge loro, sono in grado di fornirle una contropartita di grande utilità pratica e morale.
Il fine è quello di avvicinarsi progressivamente a una concezione di società che abbia sempre più cura di sé, e che a tale scopo utilizzi tutte le ricchezze, materiali, finanziarie e umane, di cui dispone.


Agostino Marianetti