Johann Chapoutot, docente di storia contemporanea all’Università della Sorbonne Nouvelle – Paris III, studioso di storia tedesca della prima metà del Novecento, specialista della Germania di Weimar e del nazismo in particolare, è noto in Italia soprattutto per lavori quali Controllare e distruggere. Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa (1918-1945), del 2013 e La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, del 2015, entrambi tradotti in italiano e pubblicati, rispettivamente nel 2015 e nel 2016, da Einaudi, così come il suo ultimo libro, Nazismo e management. Liberi di obbedire, uscito per Gallimard nel 2020.

In questo interessante volume, Chapoutot va alla ricerca delle eredità e delle persistenze del nazionalsocialismo che, in maniera più o meno sotterranea, hanno impresso un segno distintivo chiaro e riconoscibile sulla Germania postbellica e trova un caso di specie nella Akademie für Führungskräfte di Bad Harzburg, una scuola di management, fondata e diretta nel 1956 dal giurista Reinhard Höhn, che dopo una brillante carriera all’interno del regime – prima colonnello, nel 1939 e poi generale, nel 1944, delle SS – e superato un periodo di difficoltà immediatamente successivo alla fine del conflitto, beneficiò, come altri circa 800.000 suoi “ex camerati”, della grande amnistia del 1949 e si ritrovò nella condizioni di poter continuare il proprio lavoro di intellettuale e di esperto di diritto pubblico.
La scuola ebbe così tanto successo da riuscire a mettere a punto un vero e proprio modello di gestione della forza lavoro e di organizzazione aziendale, che va sotto il nome di metodo di Bad Harzburg e nel quale, per lo storico francese, è facile rinvenire una forte matrice nazista.

Nei dodici anni del Terzo Reich, il nazionalsocialismo sviluppò una cospicua riflessione su nuove forme di Menschenführung (termine tedesco corrispondente all’inglese management), che poi mise in pratica dietro la spinta delle esigenze e delle urgenze create dalla guerra e che, lasciate in eredità alla Repubblica federale e all’Occidente in generale, contribuirono all’elaborazione di modelli di management che si sono rivelati vincenti nella gestione aziendale della seconda metà del secolo scorso. La ricerca di Chapoutot, pertanto, segue l’indirizzo aperto da lavori quali quelli di Bauman, che rifletteva sulle relazioni tra la modernità e la Shoah, cogliendo nelle procedure e nelle logiche del funzionamento burocratico dello Stato moderno il motore dello sterminio; di Agamben, che pensa il lager come luogo paradigmatico del controllo sociale e della reificazione che contrassegnano la modernità; o più recentemente di Götz Aly, che legge l’Azione T4 come traduzione pratica di progetti manageriali di criminale gestione biopolitica della società.

Il riarmo a tappe forzate voluto da Hitler dopo la conquista del potere del 1933, la guerra e le conquiste a est impongono al regime un lavoro di riorganizzazione dell’esercito, dell’amministrazione pubblica, dello Stato nel suo insieme che dovrà sforzarsi di “fare di più” con “minori” risorse, dal momento che molti sono gli uomini chiamati a combattere e che i territori del Grossraum imperiale da amministrare sono enormi; pertanto si dovrà cercare di “fare meglio”, di aumentare efficienza e produttività, efficacia e reddittività. Alcuni intellettuali, docenti universitari di diritto pubblico, alti funzionari e tecnocrati – spiega Chapoutot – si mettono al lavoro e si fanno notare «per un lavoro teorico ambizioso, che trova espressione soprattutto sulle pagine della rivista “Reich, Volksordnung, Lebensraum” (“Impero, ordine razziale, spazio vitale”) da essi stessi pubblicata dal 1941 al 1943 per conto dell’Istituto di ricerche sullo Stato (Institut für Staatsforschung), un ente annesso all’Università di Berlino, manovrato dalle SS e diretto dal professor Reinhard Höhn, ufficiale superiore del selezionatissimo SD (Sicherheitsdienst, il “servizio di sicurezza” delle SS)» (p. 4).

Tra le firme della rivista e i dirigenti dell’Istituto troviamo anche Wilhelm Stuckart, giurista del regime ed estensore, tra le altre, delle leggi di Norimberga, un «nazista e antisemita modello, […] annessionista convinto, esempio paradigmatico dell’alto funzionario e dell’intellettuale d’azione nazista» (p. 6). Stuckart, Höhn e tanti altri sono ossessionati dalla necessità di reperire Menschenmaterial, cioè risorse umane e dall’urgenza di impiegarle e di gestirle secondo modalità nuove, propriamente naziste e tali da consentire di abbandonare modelli gestionali ed amministrativi ritenuti obsoleti, perché macchinosi, farraginosi, lenti ed improduttivi. Servono flessibilità, iniziativa creativa, devozione ed abnegazione del funzionario che persegue l’obiettivo a lui assegnato, escogitando le procedure e i mezzi migliori allo scopo; occorre insomma – secondo il linguaggio intriso di darwinismo sociale del nazismo – aderire alla vita, dare libero sfogo alla vitalità, liberandosi di schemi astratti, per competere e vincere in quella lotta per l’affermazione del più forte che è la vita stessa.

Queste zelanti menti pensanti del nazionalsocialismo giungono quindi alla conclusione – spiega l’autore – che l’amministrazione dello Stato debba essere il più possibile decentrata, affinché possa aderire alle esigenze dei casi particolari, veloce ed efficace. Per giustificare questa apparentemente incongrua interpretazione dell’amministrazione pubblica di uno stato totalitario, di un Führerstaat – che si è portati a pensare come monoliticamente accentrato per la sua stessa natura – si fa ricorso ad un tema che in Germania ha una lunga storia alle spalle, almeno dai tempi delle guerre napoleoniche e dei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte, il tema della “libertà tedesca” e della struttura decentrata del Sacro romano impero germanico, da porsi in alternativa al modello del centralismo e dello statalismo assolutistico francese, che con i propri apparati cavillosi mortificherebbe l’iniziativa spontanea e creatrice propria di un lavoro condotto con gioia e con efficacia.
Si rende di conseguenza necessaria una “semplificazione normativa”, che rimuova ogni intralcio all’azione, ogni impedimento burocratico alla possibilità del singolo funzionario di scegliere e applicare i mezzi ritenuti più consoni al conseguimento dell’obiettivo assegnato. Perché questo deve diventare il principio dogmatico a fondamento della nuova amministrazione della Germania e del suo grande impero: ad ogni livello della piramide gerarchica che scende dal vertice assoluto del Führer, il sottoposto deve portare a termine la propria missione, eseguire il compito assegnato, fare la volontà del superiore in grado ed in ultima istanza realizzare la volontà del Führer stesso; la scelta degli strumenti spetta a lui, che è così “libero di obbedire” agli ordini ricevuti, ossia è “costretto ad eseguire liberamente ordini tassativi” per perseguire lo scopo finale.
Si tratta – spiega Chapoutot – di un nuovo modello amministrativo che ricalca le linee della cosiddetta Auftragstaktik, ovvero la militare “tattica di missione”, basata sul principio che chi comanda fissa un obiettivo da assegnare al subordinato, il quale ha il compito di conseguirlo, decidendo i mezzi per farlo, soprattutto ricorrendo a “elasticità”, “flessibilità”, “spirito di iniziativa”, alta “capacità performativa”. Se la vita è lotta per l’affermazione del più adatto, allora questo agone può essere vinto solo dimostrando una particolare propensione ad agire in modo rapido, flessibile, al di là di schemi rigidi e con la massima efficienza. Si tratta di parole, osserva Chapoutot fin dalle prime pagine del suo lavoro, che possiamo ritrovare in qualsiasi manuale di management di oggi e di concetti su cui si incardina il nostro sistema economico e sociale.
Dalla riflessione dei giuristi e degli esperti di amministrazione nazisti, emerge pertanto come imprescindibile il ridimensionamento dello Stato e la sua sostituzione con una pletora di istituzioni, organismi, agenzie di diretta o indiretta emanazione del partito. Nell’ideologia e nella pratica del nazionalsocialismo lo Stato è inteso come qualcosa di astratto e sterile, quasi antivitale, come qualcosa di non propriamente germanico. Lo “Stato” risponde e corrisponde alle “leggi”, astratte e morte parole vergate sulla carta ed è «una creazione del tardo diritto romano, risalente cioè all’epoca della degenerazione razziale dell’antica Roma e della redazione dei primi codici di legge (il Codice giustinianeo) […], a differenza del diritto originario, che era puro istinto e pulsione vitale. Il diritto germanico delle origini ha ceduto il passo alla legge giudaica (non sono forse gli ebrei il popolo della Legge per eccellenza?), che ha trovato i suoi garanti in uno Stato statico e nelle sue istituzioni. Parallelamente la Chiesa, un altro Stato, si è eretta a custode di un dogma letale per la razza germanica (uguaglianza degli uomini e universalità della legge)» (p. 12).
Insomma, lo Stato è un prodotto storico romano, giudaico-cristiano che si è poi realizzato in forma perfetta nella monarchia assoluta francese. Non vi è quindi nulla di “germanico” nello Stato come si è storicamente sviluppato e il nazismo si presenta come un’ideologia convintamente antistatalista. Lo Stato è solo un mezzo, uno strumento, non può assurgere al ruolo di fine, che consiste invece nella compiuta realizzazione e nella affermazione della Volksgemeinschaft razziale, la “comunità di popolo”, da intendersi come una comunità biologica, di sangue, che cancella i conflitti interni e le venefiche contrapposizioni sociali a vantaggio della comune battaglia per la vittoria della razza germanica e per la conquista del suo spazio vitale.
Per uomini come Reinhard Höhn, dietro allo Stato si cela il dispotismo del principe italiano del Rinascimento e del monarca assoluto francese, i quali, per celare la sua natura di strumento di dominio al servizio di un individuo, lo hanno ipostatizzato, trasformandolo in un’istanza astratta di sovranità superiore a tutto. Uno Stato siffatto non è più adatto alla nuova era che in Germania è iniziata con la rivoluzione nazionalsocialista; soprattutto lo Stato va ora inteso come un mero strumento che svolge compiti assegnati dal Führer in vista della realizzazione della comunità popolare. Osserva Chapoutot: «Da istanza suprema, da organo della sovranità, lo Stato diventa il mezzo in vista di un fine, e di un fine biologico per l’esattezza: è subordinato alla razza, di cui non è altro che il servitore e lo strumento» (p.18). Se allo “Stato” si sostituisce la “Volksgemeinschaft”, alla “legge astratta” il “concreto diritto naturale”, allora al “governo” si sostituisce la “Führung” e alla “amministrazione” burocratica dello stato tradizionale la “Menschenführung”, la “guida degli uomini”, un management germanico, nazista, funzionale alla realizzazione del Reich millenario e alla conquista del “grande spazio vitale”.
Chapoutot spiega come nell’elaborazione di questa teoria della inutilità e negatività dello Stato i teorici e i pensatori nazionalsocialisti attingano ad un bagaglio ideologico ben preciso fatto di darwinismo sociale, eugenetica e razzismo, che interagendo tra loro vanno a configurare la Weltanschauung nazionalsocialista, di cui lo Stato non costituisce più una parte essenziale. Sulla base del darwinismo sociale i nazisti pensano che lo Stato sia un nefasto ostacolo al pieno dispiegamento di quella lotta per l’affermazione che è l’unica vera legge del diritto naturale che regola i rapporti tra popoli e razze: esso infatti interviene per prolungare innaturalmente la sopravvivenza degli inadatti; attraverso pratiche di ridistribuzione della ricchezza o di previdenza sociale è d’intralcio alla “selezione sociale”, trasposizione in ambito umano della selezione naturale. A tal proposito Chapoutot fa riferimento al precoce sistema previdenziale introdotto nel II Reich tedesco da Bismarck a partire dagli anni Ottanta dell’800, quando, seppur in un quadro di paternalismo sociale, principalmente finalizzato al coinvolgimento delle masse lavoratrici all’interno del sistema politico bismarckiano e all’indebolimento della SPD, il cancelliere tedesco introdusse una serie di garanzie sociali per malati, invalidi o disoccupati. Letta in ottica nazionalsocialista si trattava di «una legislazione di Stato antinaturale in quanto controselettiva» (p. 24).
Anche nei confronti della razza lo Stato esercita la sua connaturata tendenza ad ostacolare le forze vitali e a frustrare la spontaneità dell’iniziativa a favore di una sterile regolamentazione cavillosa delle dinamiche sociali, tipica della burocrazia amministrativa, perché esso «è quell’istituzione artificiale che fa trionfare l’inchiostro della legge sul sangue della razza, l’artificio sulla natura: imponendo la sopravvivenza e la proliferazione dei deboli, degli inutili, dei falliti, incoraggia una cancrena che alla fine si rivelerà fatale per il corpo del popolo» (p. 24). Pertanto allo Stato, a questa sorta di fossile della storia, deve sostituirsi la comunità del popolo, della razza, in cui ogni individuo è tale in quanto è parte di un tutto, come le singole membra lo sono dell’intero organismo da cui dipendono e senza il quale non sussistono. Un’idea comunitaria che vuole superare l’astratto individualismo liberale borghese ed eliminare la nefasta idea della lotta di classe: «l’unità innata e spontanea del popolo tedesco non può essere né negata né distrutta da quei predicatori di menzogne e divisioni che sono i sindacalisti e gli ideologi di sinistra» (p. 32).
Alla comunità giuridicamente fondata, ma astratta, dello Stato si contrappone la Volksgemeinschaft, la comunità del popolo fondata sul sangue e resa forte da una selezione eugenetica che dovrà essere tanto profilattica e preventiva (si pensi alla sterilizzazione forzata dei malati affetti da tare ereditarie, degli “asociali” ecc.) quanto reattiva, attraverso lo sterminio di massa dei cosiddetti inadatti alla vita o indegni di vivere (ancora una volta il pensiero corre all’Azione T4). Sono questi i presupposti teorici che stanno a fondamento anche della medicina nazista, per la quale il medico non deve curare il corpo del singolo individuo, ma il corpo della razza, del popolo e come per guarire un uomo occorre talvolta amputare un arto o asportare un organo, così dal corpo della razza devono essere asportate le membra inutili o dannose.
La comunità razziale – in cui non convivono più astratti individui, ma Volksgenossen (compagni di popolo, di razza) – darwinianamente concepita ed eugeneticamente selezionata, si deve porre al seguito di un Führer, che, cogliendone i bisogni profondi ed interpretandone lo spirito, la guiderà alla piena e naturale affermazione, stabilendo un rapporto col popolo che non sarà più quello che ai tempi dello stato assoluto intercorreva tra principe e suddito, ma una relazione nuova – di certo non paritaria, ma pensata come compartecipativa – quella tra Führer e Genosse, tra “guida” e “compagno”, in cui il Genosse, affidandosi alla visione del Führer, si sforza di agire al fine di realizzarne la volontà, perseguendo con tutti i mezzi possibili ogni obiettivo che gli venga assegnato.
Il Volksgenosse è chiamato ad essere efficiente e produttivo e solo in questi termini sarà realmente libero, contribuendo cioè al vantaggio della “comunità produttiva”, non più minacciata dal perseguimento di interessi meramente individualistici o da conflitti di classe. Una visione dell’uomo – osserva Chapoutot – utilitaristica e reificante, che riduce il soggetto a cosa, a strumento la cui funzione è quella di risultare utile per il bene della comunità: l’uomo diventa “risorsa”, “fattore di produzione” e di crescita.
Per questo il «Leviatano statale, questo mammut impacciato, può e deve essere sostituito da agenzie che si svilupperanno anch’esse, come gli individui, in un’armonia prestabilita dalla natura, dalla quale attingeranno la rapidità di decisione e la flessibilità di esecuzione» (pp. 25-26). In questo modo «il Terzo Reich rinunciava progressivamente all’”amministrazione” (Verwaltung), troppo romana, troppo francese, per entrare risolutamente in un’età manageriale, quella della Menschenführung fluida e proattiva» (33).
Può sembrare paradossale che il regime più totalitario e più criminale che la storia abbia conosciuto svaluti così esplicitamente l’importanza e le funzioni dello Stato, ma – ricorda l’autore – già a partire dagli anni Quaranta, il fondamentale lavoro di Franz Leopold Neumann (Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo) aveva messo in luce il carattere policratico del regime hitleriano, che si reggeva su una complessa e confusa rete di centri di potere, consistenti in apparati e ramificazioni del partito, istituzioni e organi dello Stato, enti ed agenzie di incerta natura statuale/partitica in perenne, e crescente negli anni, competizione tra di loro, con l’effetto che i processi decisionali e i procedimenti amministrativi risultavano spesso confusi ed indecifrabili. Dietro l’esattezza geometrica delle marce e delle parate militari – osserva Chapoutot – e dietro l’algido rigore di una estetica neoclassica stereotipata funzionali a trasmettere l’idea di un ordine perfetto ed inattaccabile che aveva eliminato il caos di Weimar, delle crisi economiche e l’anarchia della lotta di classe dei “rossi”, si celava un groviglio di processi decisionali, gestionali e di comando tutt’altro che lineari e razionali. A sovraintendere a tutto era il Führer, o meglio la sua volontà, la sua visione del mondo, che ogni tedesco, che ogni nazista doveva sforzarsi di seguire e di realizzare.
Come è noto le pionieristiche idee di Neumann, nel corso dei decenni successivi alla pubblicazione di Behemoth, hanno influenzato buona parte della storiografia del nazismo, contribuendo alla costruzione di modelli interpretativi come quello funzionalista, alla lettura della Shoah – è il caso di Raul Hilberg – come esito finale di un processo di “radicalizzazione cumulativa” portato avanti da parti ed apparati distinti dello stato nazista, alle analisi di Ian Kershaw sulle modalità di governo e sulla gestione della catena di comando da parte di Hitler. Il concetto di “regime policratico” è stato fatto proprio ed utilizzato anche da una parte della storiografia italiana del fascismo: è il caso di Nicola Tranfaglia «che spiega il carattere “incompiuto” del totalitarismo di Mussolini con la sua necessità di fare i conti con la monarchia sabauda e con la Chiesa, oltre che con una classe dirigente e una macchina burocratica certo fascistizzate ma in fondo ostili a una radicalizzazione totalitaria del regime». (Enzo Traverso, Contemporanea, Vol. 3, No. 3, luglio 2000, p. 526.)
Ma nell’ideologia del fascismo italiano rimase sempre centrale il ruolo di quello Stato che Mussolini e Gentile nel 1932, sull’Enciclopedia italiana, insieme definivano come «un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo». Almeno sul piano della riflessione teorica, il nazismo invece volle edificare il proprio totalitarismo ponendo come pietra angolare la comunità biologica della razza, anteponendola allo Stato.
*ASeminario per dirigenti, tenuto da Reinhard Höhn il 16 gennaio 1965 all’Hotel Jagdhof di Bad Harzburg, sede dell’Accademia per dirigenti d’azienda

Nella seconda parte del suo lavoro, Chapoutot spiega come molte delle riflessioni che giuristi, tecnocrati ed intellettuali del Terzo Reich produssero sulle nuove forme di organizzazione ed ottimizzazione del lavoro e sulla ristrutturazione dell’amministrazione pubblica non siano scomparse con il 1945, ma abbiano continuato a circolare e si siano affermate nel nuovo contesto della Repubblica federale tedesca e della guerra fredda. A guidare quest’opera di trasfusione di idee e principi nazisti nel corpo della nuova Germania occidentale fu, più di altri, proprio Reinhard Höhn, attraverso la sua “Accademia per dirigenti di azienda” nella Bassa Sassonia. Nella cornice di una Germania federale saldamente ancorata al mondo occidentale e alla Nato e che, usufruendo del piano Marshall, conosceva una grande ripresa economico-industriale; in un paese che nuovamente si percepiva come bastione ed avamposto dell’Occidente di fronte, come pochi anni prima, al grande nemico sovietico e alla sua propaggine tedesca (la DDR), Höhn nascose alcune sue convinzioni del dodicennio nazista, come il razzismo eugenetico, l’antisemitismo e l’ossessione per la conquista del grande spazio vitale ad est, ma conservò le proprie idee antistataliste e “comunitarie”, che mise a frutto nell’elaborazione di una teoria del management che avrebbe avuto grande fortuna.

«Fino alla morte del suo fondatore, avvenuta nel 2000, la scuola ospita circa 600.000 dirigenti provenienti dalle principali società tedesche, senza contare i 100.000 iscritti in formazione a distanza» (p. 55).
L’ex generale delle SS, nella Repubblica federale tedesca della rinascita economica postbellica propose un modello di management che – opportunamente epurato dei tratti più palesemente nazisti – riuscì ad adattarsi perfettamente al nuovo contesto democratico: si tratta del management per “delega di responsabilità”, noto appunto come metodo di Bad Harzburg, che «unanimemente accettato in Germania e nel mondo germanofono […] permette di delineare un’intera “storia postbellica del lavoro tedesco”, in cui le continuità con il periodo nazista risultano chiaramente» (p. 73). Permane l’impostazione antistatalista di Höhn, solo che ora alla Volksgemeinschaft composta da Genossen di razza si sostituisce quella “comunità produttiva e prestazionale” che è l’azienda. Al suo interno, in continuità con i principi della flessibilità decisionale e dell’agilità operativa che garantiscono efficienza – precedentemente teorizzati come trasposizione in ambito civile della militare Auftragstaktik e ora riproposti in una veste coerente con lo spirito democratico dei nuovi tempi – il lavoratore deve sentirsi valorizzato come un “collaboratore” a cui si delega una responsabilità e non come un subordinato, come qualche decennio prima lo stesso Höhn sosteneva dovesse accadere in quella comunità, che allora era di razza e ora è lavorativa e aziendale.
Questo nuovo modello di rapporto di lavoro – così come ai tempi del Terzo Reich la relazione Führer-Genosse – deve scongiurare ogni forma di dialettica conflittuale interna all’azienda e, nell’ambito più ampio della società, la lotta di classe, conseguendo al tempo stesso l’efficienza produttiva e proponendo un modello economico e sociale da contrapporre a quello socialista della vicina DDR e del blocco sovietico: collaborazione tra classi sociali ed armonia all’interno di un sistema che garantisca la libertà formale e persegua la crescita economica e l’efficienza produttiva. «Ciò che la Betriebsgemeinschaft – comunità degli operai e dei capi aziendali – era stata nel Terzo Reich, l’azienda di Höhn – la comunità dei manager e dei loro liberi collaboratori – continua a esserlo nell’universo democratico della Germania ovest e della sua “economia sociale di mercato”, ordoliberale e partecipativa» (p. 73). Vi è pertanto – osserva Chapoutot – una strabiliante continuità di pensiero tra ciò che Höhn teorizzava tra il 1933 e il 1945 e ciò che continuò ad insegnare nella sua Accademia dal 1956 in poi.

In realtà, la “libertà” del lavoratore-collaboratore concepita da Höhn è solo una chimera, perché essa si concretizza nella “libertà di obbedire”, di liberamente scegliere i mezzi più consoni per realizzare gli obiettivi stabiliti da altri, da chi comanda. Una metodologia – osserva Chapoutot – apparentemente non autoritaria, ma comunque sempre gerarchica, che riduce la libertà del lavoratore alla esclusiva ricerca della efficacia e il suo pensare e il suo agire alla mera funzionalità strumentale e al successo prestazionale. Per lo storico francese, il metodo di Bad Harzburg si regge su una menzogna di fondo, che «svia il dipendente, o il subordinato, conducendolo da una libertà promessa a un’alienazione garantita, a tutto vantaggio della Führung, di questa “direzione” che non porta più solo sulle proprie spalle la responsabilità del fallimento potenziale o effettivo» (p. 77). Ad essere realmente delegata, condivisa non è di certo la libertà, ma la responsabilità del fallimento, dell’inefficace perseguimento dell’obiettivo, che produce effetti di mortificazione ed alienazione profonde nel lavoratore: «non pensare mai agli obiettivi, essere relegato unicamente a calcolare i mezzi è l’elemento costitutivo di un’alienazione lavorativa di cui sono noti i sintomi psicosociali: ansia, esaurimento, burnout» (p. 77)
Il metodo messo a punto da Höhn, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, ebbe un successo tale da coinvolgere anche l’amministrazione pubblica e da contribuire in modo decisivo all’inversione dei rapporti tra management aziendale privato e organizzazione amministrativa statale: non è più il primo a prendere come modello la seconda, ma al contrario l’amministrazione pubblica che imita, riproduce criteri e procedure dell’economia privata, conducendo alla sudditanza del settore pubblico che si piega agli interessi privati. «In anticipo di qualche anno sulle pratiche britanniche, statunitensi e scandinave, Höhn, che già negli anni Trenta rifletteva sulla decadenza dello Stato e sullo sviluppo delle agenzie, si fa il precursore, se non il profeta, della Nuova gestione pubblica (New Public Management), che nei paesi occidentali, a partire dalla Germania del cancelliere Kohl, diventò fin dai primi anni Ottanta quasi una religione di Stato». (p.79)

Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, in seguito al diffondersi sia di informazioni sul passato nazista dell’ex ufficiale delle SS Reinhard Höhn, in una Germania che cercava di fare i conti con la propria storia più seriamente di quanto fatto in precedenza, sia di nuovi indirizzi e scuole di management, il metodo di Bad Harzburg fu fatto oggetto di critiche e fu progressivamente soppiantato da nuovi modelli di gestione ed organizzazione del lavoro e delle risorse umane che esigevano ancora più flessibilità, sburocratizzazione e deregolamentazione, in linea con l’evoluzione in tale direzione dell’economia di mercato. Ciò non toglie però che la scuola di Bad Harzburg abbia rappresentato un passaggio cruciale del percorso di sviluppo del management che giunge fino ai nostri giorni e alla nostra società, che pertanto trova i presupposti del proprio modo di concepire l’organizzazione del lavoro, i rapporti lavorativi, l’amministrazione privata e pubblica in una idea di Menschenführung, di management, concepita negli anni Trenta da un convinto nazista modello e generale delle SS. Il tutto a dimostrare come tra nazismo e capitalismo vi fossero una compatibilità e una complementarietà tali da rendere possibile un processo osmotico come quello praticato dalla Accademia per dirigenti d’azienda di Bad Harzburg, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
https://www.carmillaonline.com/2021/...e-capitalismo/