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    Predefinito Croce e il marxismo (1982)

    di Giuseppe Bedeschi – «Mondoperaio», ottobre 1982, pp. 100-108.


    È ben noto come, dal suo primo contatto con il materialismo storico, nella ricostruzione fattane da Antonio Labriola, il giovane Croce ricevesse una impressione profonda, che costituì un vero e proprio punto di svolta nella sua vita intellettuale. Egli stava allora sui ventinove anni e, secondo la sua stessa testimonianza, era passato «attraverso molteplici prove di studi in letteratura, filologia e filosofia, e, inconsapevolmente, per un intimo bisogno morale, si veniva rivolgendo all’indagine del problema della storia, insoddisfatto della mera erudizione e aneddotica»[1]. Quando Antonio Labriola, già suo professore all’Università di Roma, gli inviò il manoscritto del proprio saggio In memoria del Manifesto dei comunisti, il giovane Croce «lo lesse e lo rilesse», e «la mente gli si riempì di visioni e di concetti per lui nuovi»[2]. Per qualche mese, «infiammato dalla lettura delle pagine del Labriola, preso dal sentimento di una rivelazione che si apriva al suo spirito ansioso»[3], egli fu affascinato dalla nuova dottrina, che il suo vecchio maestro esponeva e interpretava in modo così acuto e originale, con la sua vastissima cultura storica e filosofica, e col suo stile caustico e inconfondibile. Senonché l’infatuazione, se si può chiamarla così, durò meno di un anno. Gettandosi nello studio delle opere di Marx e di Engels, nonché degli economisti classici e post-classici, il giovane Croce non tardò a convincersi che i concetti centrali del marxismo erano erronei, anche se, a suo avviso, esso aveva il merito, non piccolo, di porre, a chi si occupava di storiografia e di discipline morali, una serie di istanze e di esigenze che non potevano essere eluse, e che invece, in passato, erano state eluse.
    Il Croce espose la propria interpretazione e la propria critica del materialismo storico in una serie di saggi, che venne componendo tra il 1896 e il 1899. Diciamo interpretazione e critica, perché la critica che il Croce rivolgeva al marxismo discendeva dalla particolare interpretazione che egli ne dava: il che può apparire fin troppo ovvio, ma lo è solo fino a un certo punto, ove si ponga mente al fatto (assai insolito per quei tempi) che il filosofo napoletano si sforzava di depurare la nuova dottrina di tutti i caratteri più deteriori dello hegelismo e che, fatto ciò, egli per un verso la demoliva in quanto teoria, e per un altro verso ne faceva proprie alcune istanze e alcuni suggerimenti.

    Il marxismo come filosofia della storia

    Sin dal suo primo saggio, Sulla forma scientifica del materialismo storico (1896), il Croce prendeva posizione contro quanti vedevano nel marxismo una nuova filosofia della storia. Su questo punto anche gli studiosi più acuti mostravano una singolare oscillazione. Lo stesso Labriola aveva affermato, a breve distanza, che «la nostra dottrina non può esser volta a rappresentare tutta la storia dell’uman genere in una veduta comunque prospettica o unitaria, la quale ripeta, mutatis mutandis, la filosofia storica a disegno come da sant’Agostino a Hegel», e che però il materialismo storico era «l’ultima e definitiva filosofia della storia»[4]. Questa incertezza degli interpreti più qualificati era dovuta, secondo Croce, ad alcune formulazioni infelici dello stesso Marx, le quali però non esprimevano il senso più profondo della sua opera. Marx, infatti, come una volta ebbe a dichiarare, si era compiaciuto di «civettare» con la terminologia hegeliana, «arma pericolosa – diceva Croce – con cui sarebbe stato meglio non giocare troppo», perché finiva col dare luogo a «fraintendimenti teologici e fatalistici»[5]. In realtà, aggiungeva il filosofo napoletano, il legame tra le concezioni di Hegel e di Marx era «più che altro, meramente psicologico, perché lo hegelismo era la precoltura del giovane Marx, ed è naturale che ciascuno riattacchi i nuovi ai vecchi pensieri come svolgimento, come correzione, come antitesi»[6]. E, se si guardava con attenzione, ci si accorgeva subito che in questo caso gli elementi di correzione e di antitesi prevalevano di gran lunga sugli elementi di continuità e di svolgimento.
    Marx, infatti, aveva affermato energicamente, al pari di Hegel, l’idea della necessità storica, ma, a differenza di Hegel, ne aveva dato una raffigurazione «circostanziale ed empirica», dalla quale bisognava cancellare «ogni traccia di razionalismo e di trascendenza, per vedervi il semplice riconoscimento del piccolissimo campo che nel corso delle cose è lasciato all’arbitrio individuale»[7]. E ancora: il materialismo storico era sorto «dal bisogno di rendersi conto di una determinata configurazione sociale»[8], non già dall’esigenza di spiegare la storia universale. Perciò, come aveva giustamente affermato il Labriola, le previsioni della dottrina potevano essere solo «di indole morfologica», nel senso che, una volta analizzata la realtà sociale in tutte le sue determinazioni e particolarità, si potevano formulare alcune ipotesi di massima circa i suoi possibili svolgimenti. Parlare di ipotesi non era, naturalmente, la stessa cosa che parlare di certezze. Infatti, si chiedeva Croce, «se la storia è sempre circostanziale, perché, in questa nostra Europa occidentale, non potrebbe, per l’azione di forze ora incalcolabili, sopravvenire una nuova barbarie? Perché l’avvento del comunismo non potrebbe essere o reso superfluo o affrettato da taluna di quelle scoperte tecniche, che hanno finora prodotto, come il Marx stesso ha mostrato, i maggiori rivolgimenti storici?»[9].
    Inoltre, Marx aveva dato adito all’equivoco che la sua concezione fosse una nuova filosofia della storia anche per un altro motivo: in quanto aveva avallato la definizione «materialistica». Ora, diceva Croce, «la denominazione dovrebbe essere cangiata, perché la confusione è in essa, per così dire, intrinseca». Infatti, se si parla di filosofia materialistica della storia, viene spontaneo pensare che occorra sostituire «alla onnipresente Idea l’onnipresente Materia»: che era appunto l’equivoco nel quale erano caduti Plechanov – il quale aveva sentito il bisogno, per individuare i precedenti del materialismo storico, di risalire agli Holbach e agli Helvetius – e i molti positivisti di fresco convertiti al marxismo. Così, però, si cadeva in una sorta di hegelismo spurio, che concepiva la realtà come divenire di una indistinta e onnicomprensiva Materia (che teneva il luogo dell’Idea), col risultato di non pervenire a conoscenze di alcun genere, ma soltanto a superfluità e a tautologie, o addirittura ad arbitri e a costruzioni grossolane[10].
    Tutto ciò era profondamente estraneo al vero significato della dottrina di Marx, la quale non era né materialistica né spiritualistica né dualistica né monadistica, bensì, piuttosto, realistica: «concezione realistica della storia» era appunto la denominazione che appariva più adatta al Croce[11]. Infatti tale dottrina non si occupava degli «elementi delle cose», in modo che si potesse discutere filosoficamente se fossero riducibili l’uno all’altro e se si unificassero «in un principio ultimo»; all’opposto, essa si occupava di «oggetti particolari» – il lavoro, la prodizione industriale, la terra, ecc. – e , sulla base dell’analisi circostanziata di tali oggetti, riconsiderava la storia in concreto, investigandone il processo effettivo[12]. Essa segnava così la propria opposizione a tutte le teologie e metafisiche nel campo della storia[13].

    Un approccio storiografico originale

    Depurato il materialismo storico di tutti gli elementi estranei (o ritenuti tali), il Croce precisava però che esso non poteva essere considerato né una teoria né un metodo, nel senso rigoroso che si dà ordinariamente a queste parole. Che non fosse una nuova teoria risultava bene, del resto, dalla stessa ricostruzione che ne aveva dato il Labriola, il quale aveva ammesso «la complicatezza della storia», il successivo fissarsi e isolarsi dei prodotti di primo grado che diventano indipendenti, le ideologie che si cristallizzano in tradizioni, le ostinate sopravvivenze, l’elasticità del meccanismo psichico che rende l’individuo irriducibile al tipo della classe o dello stato sociale, l’inconsapevolezza e inintelligenza nella quale gli uomini sovente si sono trovati circa le loro proprie situazioni, l’insaputo e l’inconoscibile di credenze e superstizioni nate per istrani accidenti e ravvolgimenti». E poiché l’uomo vive non solo nella società ma anche nella natura, il Labriola aveva ammesso anche la forza della razza, del temperamento e delle suggestioni naturali. Infine, non aveva chiuso gli occhi «innanzi all’efficacia degli individui, ossia dell’opera di quelli che si chiamano grandi uomini, i quali, se non sono dominatori, sono certo collaboratori di cui la storia non potrebbe far di meno»[14]. Se tutto ciò era vero, allora era assai difficile, anzi impossibile, costruire sui concetti-chiave del materialismo storico una teoria rigorosa, perché ciò avrebbe condotto a ingabbiare la ricchezza, la varietà, e anche l’imprevedibilità della storia all’interno di schemi troppo rigidi, fondati sulle classi sociali, il modo di produzione, il rapporto struttura-sovrastruttura, ecc.
    D’altra parte, il materialismo storico, come non era una teoria rigorosa, così non era nemmeno un nuovo metodo. Quando i filosofi idealisti “deducevano” razionalmente i fatti storici, il loro sì era un nuovo metodo, per quanto discutibile o inaccettabile; ma gli storici della scuola materialistica, diceva il Croce, adoperavano gli stessi strumenti intellettuali e seguivano le stesse vie degli storici, per così dire, filologi, e solamente recavano nel loro lavoro alcuni dati nuovi, alcune nuove esperienze. In questo caso era diverso il contenuto e non già la forma metodica[15].
    Il Croce giungeva così alla conclusione che più gli stava a cuore, e che riteneva «sostanziale»: se il materialismo storico non era né una nuova teoria, né un nuovo metodo, non poteva essere altro che «una somma di nuovi dati, di nuove esperienza, che entrano nella coscienza dello storico»[16]. Detto in altre parole, rispetto alla storiografia il materialismo storico si risolveva «in un ammonimento a tener presenti le osservazioni fatte da esso come nuovo sussidio a intendere la storia»[17]. Questa conclusione non sminuiva affatto, secondo Croce, l’importanza dell’opera di Marx e il suo significato per la cultura moderna. Erano infatti «feconde scoperte, per intendere la vita e la storia, l’affermazione della dipendenza di tutte le parti della vita tra loro, e della genesi di esse dal sottosuolo economico, in modo che si può dire che di storie ce n’è una sola; il ritrovamento della forza reale dello Stato (quale esso si presenta in certi suoi aspetti empirici) col considerarlo istituto di difesa della classe dominante; la stabilita dipendenza delle ideologie dagli interessi di classe; la coincidenza dei grandi periodi storici coi grandi periodi economici; e le tante altre osservazioni, ond’è ricca la scuola del materialismo storico»[18]. Queste scoperte e indicazioni erano assai importanti per una ripresa della storiografia italiana, ormai ridotta, nel migliore dei casi, alla ricerca erudita fine a se stessa, se non addirittura alla raccolta di curiosità e alla aneddotica. «Gli aiuti per una comprensione più intima e profonda – rilevava Croce – sono venuti finora in più volte, da diverse parti; ma grande è quello che giunge ora dal campo del materialismo storico, e adeguato all’importanza del movimento del socialismo moderno»[19]. Restava naturalmente fermo il fatto che le «feconde scoperte» e le preziose indicazioni del materialismo storico, in primo luogo «la coordinazione e subordinazione dei fattori», dovevano essere verificate e dimostrate di volta in volta empiricamente, cioè lo storico doveva renderle chiare e determinate per ogni singolo caso, senza cedere alla tentazione di precostituirle e di assolutizzarle; altrimenti egli sarebbe ricaduto nell’applicazione aprioristica di una teoria, cioè, poi, di nuovo in una filosofia della storia.

    L’interpretazione del Capitale

    Tutti questi temi furono ripresi e sviluppati dal Croce nel suo saggio successivo, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (1897), con un “affondo”, però, assai più efficace ed incisivo per quanto atteneva alla struttura teorica della dottrina, i cui concetti centrali (in primo luogo la teoria del valore-lavoro) venivano demoliti nella loro pretesa di scientificità.
    Il Capitale, rilevava Croce, era stato considerato di volta in volta come un trattato di economia politica, come una filosofia della storia, come un complesso di cosiddette leggi sociologiche, come una requisitoria morale e politica, e, infine, come un pezzo di storia raccontata. In realtà, l’opus magnum di Marx non era nessuna di queste cose. Non era un trattato di economia, perché non abbracciava tutto il territorio dei fatti economici e delle epoche economiche, bensì si restringeva a una particolare formazione economica, che è quella che ha luogo in una società con proprietà privata del capitale, ovvero, come Marx la definiva, capitalistica, tralasciando tutte le altre formazioni accadute o teoricamente possibili. Per lo stesso motivo il Capitale non era una filosofia della storia, bensì, piuttosto, «una ricerca astratta», in quanto la società capitalistica che esso indagava non era la tale o talaltra società storicamente esistente, bensì «una società ideale e schematica, dedotta da alcune ipotesi», le quali rispondevano sì in buona parte alle condizioni del mondo civile moderno, ma non coincidevano interamente con la realtà economico-sociale di nessuna nazione del mondo occidentale. Inoltre, il Capitale non era nemmeno una descrizione storica, anche se esso conteneva dei capitoli descrittivi di processi ed accadimenti storici. In breve, Marx aveva costruito un modello astratto, che non coincideva (e, in quanto tale, non poteva coincidere) con una società attualmente esistente, anche se poi tale modello era stato pensato per intendere alcune caratteristiche importanti delle società moderne: in primo luogo il rapporto fra lavoratori salariati e capitale, e la condizione della classe operaia nel capitalismo[20].
    La funzione di tale modello, e, più in generale, il senso del procedimento di Marx, si chiarivano assai bene, secondo Croce, ove si passasse ad esaminare attentamente il concetto marxiano del valore-lavoro. Il quale non era certo un fatto empirico (perché, come aveva sottolineato efficacemente il Böhm-Bawerk, non c’era ponte di passaggio dal valore-lavoro al prezzo delle merci), né era solo un fatto logico (come invece aveva sostenuto il Sombart), poiché tutte le ricerche astratte sono costruite con fatti logici; bensì era «un concetto pensato e assunto come tipo». «Esso – aggiungeva Croce – non ha già l’inerzia dell’astrazione, ma la forza di qualcosa di determinato e particolare, che compie rispetto alla società capitalistica, nell’indagine del Marx, l’ufficio di termine di comparazione, di misura, di tipo»[21]. E infatti la teoria del valore-lavoro serviva a Marx per fondare il concetto di plusvalore, cioè per spiegare l’origine dello “sfruttamento” capitalistico. Senonché plusvalore in economia è parola priva di senso, come è mostrato dalla denominazione stessa, «giacché un sopravalore [o plusvalore, Mehrwert] è un extra-valore, ed esce fuori del campo della pura economia»[22]. Ma il plusvalore acquistava un senso come «concetto di differenza» o come termine di paragone.
    In breve, Marx aveva proceduto in questo modo: aveva tacitamente presupposto un tipo di società composto esclusivamente da individui che con capitale comune e con eguale lavoro producono beni che si ripartiscono in proporzioni eguali; aveva poi preso in considerazione un altro tipo di società, quella capitalistica, in cui alcuni (i capitalisti) posseggono i mezzi di produzione, e gli altri (i proletari), esclusi da quel possesso, vendono ai primi il loro lavoro, sicché, nella ripartizione dei beni, i capitalisti ricevono una parte dei prodotti del lavoro dei proletari, in ragione del capitale che ciascun capitalista ha impiegato. Ora, se si considerava il secondo tipo di società in se stesso, a prescindere da qualunque riferimento ad altri tipi di società, non aveva senso parlare di plusvalore o di lavoro non pagato, perché in tale società il lavoro è pagato per il valore effettivo che esso ha sul mercato, mentre il profitto dei capitalisti «è un effetto di reciproca convenienza, nascente dal diverso grado comparato di utilità». «Voltate e rivoltate, e in pura economia non troverete altro»[23]. E tuttavia il concetto di plusvalore aveva un senso se si paragonava il secondo tipo di società al primo, ovvero se si applicava, «quasi reagente chimico, alla seconda società la misura ch’è invece propria di un tipo di società fondata sulla umana eguaglianza»[24]. Era da questo paragone, e solo da esso, che sorgeva la natura “usurpatrice” del profitto. (Se Croce avesse potuto conoscere i Grundrisse – il primo grande abbozzo del Capitale – avrebbe visto quale importanza avevano effettivamente per Marx l’analisi delle società precapitalistiche e il confronto, più volte istituito, fra quelle società e la società borghese moderna).

    Il Machiavelli del proletariato

    La teoria marxiana del valore-lavoro, chiave di volta della critica marxiana della società capitalistica, era fondata dunque su un «paragone ellittico» fra due diversi tipi di società, ovvero fra la società capitalistica e una parte di essa (la società lavoratrice), «astratta e innalzata ad esistenza indipendente»[25]. Da un punto di vista strettamente scientifico, il procedimento di Marx era illegittimo, perché pretendeva di spiegare la società moderna con strumenti e criteri affatto estranei ad essa, inerenti a tutt’altro tipo di società, il quale veniva tacitamente presupposto allo scopo di tradurre nei suoi termini i fenomeni della società capitalistica[26]. Ma fermarsi a questa constatazione, pur sacrosanta, non avrebbe reso giustizia a Marx, il quale non si era affatto proposto di scrivere un trattato di economia pura: «a ciò ripugnava la sua personalità di uomo pratico e di rivoluzionario, impaziente delle ricerche che non avessero stretto legame con gli interessi della vita storica e attuale»[27]. Le ricerche di Marx erano piuttosto di «sociologia economica»[28]. In altri termini, egli aveva studiato il problema sociale del lavoro, e aveva mostrato, col paragone implicito da lui stabilito, il modo particolare in cui questo problema viene risolto nella società capitalistica. Qui era la giustificazione, non più formale ma reale, del suo procedimento[29]. Merito di Marx, dunque, era quello di avere richiamato energicamente l’attenzione sulla condizione operaia nella società moderna, sulla diversità di interessi fra capitalisti e proletari, sulla lotta che questi ultimi dovevano condurre per migliorare le proprie condizioni (economiche e morali), e quindi sul principio e l’origine della lotta di classe. Con l’avvertimento, però, che anche quest’ultimo principio non doveva essere assolutizzato, non doveva diventare un principio metafisico, avendo piuttosto valore circoscritto «di canone o di orientamento»: la storia infatti, diceva il Croce non senza ironia, è lotta di classi, quando vi sono le classi (ma non ne prevedevano i marxisti la scomparsa?), quando esse hanno interessi antagonistici, e, soprattutto, quando hanno coscienza di questo antagonismo (il che, come ben sapevano i marxisti, non sempre accadeva)[30].
    La conclusione di Croce era la stessa che egli aveva raggiunto nel suo primo saggio: se il materialismo storico doveva esprimere qualcosa di criticamente accettabile, esso non doveva essere inteso né come una nuova costruzione a priori di filosofia della storia (e per questo verso bisognava mondarlo di «quel ritmo naturale per negazione di negazione», che era «una scoria di vecchia metafisica»[31]), né come un nuovo metodo, bensì, semplicemente, come un canone di interpretazione storica, di uso affatto empirico: «quantunque sia, in verità, un canone di ricca suggestione». «Questo canone consiglia di rivolgere l’attenzione al cosiddetto sostrato economico delle società, per intendere meglio le loro configurazioni e vicende»[32].
    Ridotto il materialismo storico entro questi confini, esso mostrava certamente di non essere una vera e propria teoria scientifica, ma non per questo perdeva qualsiasi importanza. Marx infatti insegnava, «pur con le sue proposizioni approssimative nel contenuto e paradossali nella forma, a penetrare in ciò ch’è la società nella sua realtà effettuale». Sotto questo rispetto il Croce si meravigliava come nessuno avesse pensato di chiamarlo, a titolo di onore, «il Machiavelli del proletariato»[33]. E in polemica col Racca egli ribadiva che chi si occupava di discipline morali e storiche non poteva non fare i conti col movimento intellettuale che prendeva origine da Marx, e non riconoscere il molto che vi si apprendeva, anche se era inevitabile giungere a conclusioni parzialmente negative. «Anche il materialismo storico è, come generale tesi scientifica, erroneo. Ma io sono lieto di essere passato attraverso quella dottrina; e, se non ci fossi passato, avvertirei come un vuoto nella mia mente di uomo moderno»[34].

    Il marxismo e la società italiana

    Nel 1900, dopo aver raccolto in volume i propri saggi sul marxismo[35], il Croce riteneva sostanzialmente conclusa quell’esperienza intellettuale. Poco prima, in una lettera al Gentile, aveva scritto: «Quanto al materialismo storico, vi annunzio che non voglio più occuparmene. (…) Nell’anno prossimo penso di riunire i miei varii scritti sul marxismo, aggiungendovi un paio di articoli su punti difficili dell’economia marxistica; correggerò tutto, vi farò una prefazione; e li comporrò in un volume… come in una bara»[36]. Aggiunse che dal marxismo aveva ormai ricavato ciò che gli occorreva.
    In realtà, quella del Croce era un’affermazione troppo perentoria. Infatti, egli ritornò più volte sul problema del materialismo storico, e vi ritornò in alcuni dei suoi lavori più significativi: dal Contributo alla critica di me stesso (1915), alla Storia d’Italia (1928), alla Storia d’Europa (1932), fino, naturalmente, a quel lungo saggio-testimonianza, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1937), in cui egli rievocò le ricerche e i dibattiti svoltisi nel nostro paese fra il 1895 e il 1900 su questo tema. Senza contare varie altre note e postille apparse su «La Critica», e poi raccolte negli Elementi di politica, nella Storia come pensiero e come azione, ecc. Come mai, si potrebbe chiedere, un’attenzione e un interessamento così costanti per una dottrina con la quale, a suo dire, il Croce aveva già regolato i conti negli ultimi anni del secolo scorso, distinguendo in essa fra le istanze e gli apporti vitali da un lato, e i concetti teorici centrali, malposti od erronei, dall’altro?
    La motivazione è, a mio avviso, molto semplice e molto seria a un tempo. Per il Croce la riflessione filosofica nasceva (doveva nascere) da un’analisi dei problemi reali della società e della cultura. «In Italia – scrisse in una bella postilla del 1930 – non vive più nell’animo degli uomini intelligenti la figura del “Filosofo”, del puro, del sublime “Filosofo”, di colui che, incurioso delle cose piccole, sta intento a risolvere il gran problema, il problema dell’Essere: non vive più, perché (se bisogna dire la verità, ancorché con qualche offesa della modestia) quel “Filosofo” io l’ho fatto morire». E ribadì che l’ufficio della filosofia «non stava al disopra e distaccato dalla scienza e dalla vita, ma dentro di queste, strumento di scienza e di vita»; e ciò aveva appunto inteso dire quando aveva affermato che la filosofia doveva essere la «metodologia della storiografia», ovvero la «metodologia della conoscenza dei fatti»[37].
    Ora, il socialismo di ispirazione marxista aveva costituito tanta parte della vita sociale, politica e culturale dell’Italia liberale fino all’avvento del fascismo; e anche negli anni della dittatura fascista esso costituiva una componente fondamentale delle forze che, in patria o in esilio, si battevano contro il regime. Era inevitabile quindi che il Croce – filosofo “concreto” per eccellenza, cioè non distaccato o separato dalla realtà del suo paese, bensì scrupolosamente attento ad essa, per intenderne i problemi e le prospettive – dedicasse al socialismo marxista un’attenzione costante, fino agli ultimi anni della sua vita. Ciò, come è ben noto, non lo indusse mai a rivalutare la dottrina da un punto di vista scientifico (sotto questo profilo egli rimase sempre fedele alle conclusioni che aveva raggiunto nei saggi di Materialismo storico ed economia marxistica); ma, certo, il filosofo napoletano approfondì la propria valutazione del marxismo, in alcuni punti la modificò anche; e soprattutto, la completò con un’analisi acuta ed equilibrata del ruolo che il socialismo marxista aveva avuto nella società italiana.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Croce e il marxismo (1982)

    La matrice hegeliana del marxismo



    A ma pare che la riflessione di Croce sul marxismo successiva ai suoi celebri saggi della fine dell’800, possa essere disarticolata (e non solo per comodità di esposizione e di analisi) intorno a tre temi centrali, che sono, naturalmente, strettamente connessi tra loro: a) il rapporto marxismo-hegelismo; b) il contributo del marxismo alla cultura storica e politica; c) la funzione e il ruolo svolti dal socialismo marxista nella vita politica italiana ed europea.
    Per quanto riguarda il primo punto (il rapporto fra marxismo ed hegelismo), non c’è dubbio che il Croce modificò il proprio punto di vista. Si può dire che, per quanto egli si era sforzato, nei suoi saggi giovanili, di depurare il marxismo dai “residui” hegeliani (ritenuti più terminologici che concettuali, ed estranei al significato più profondo della dottrina), altrettanto nettamente egli affermò, negli scritti della maturità, l’origine e il carattere hegeliano della dottrina medesima. Nel 1937, per esempio, egli scrisse – ma molte altre citazioni si potrebbero addurre – che il materialismo storico gli si era dimostrato «doppiamente fallace e come materialistico e come concezione del corso storico secondo un disegno predeterminato, variante della hegeliana filosofia della storia»[38].
    Il carattere hegeliano della dottrina di Marx veniva individuato da Croce soprattutto in due punti: nel disegno storico complessivo, suddiviso in tre stadi (dal comunismo primitivo, alla società borghese lacerata dalla lotta di classe, alla società comunista, in cui tutte le contraddizioni sarebbero state risolte e superate) – che era appunto una variante della «schematica ed escatologica filosofia della storia»[39]; e nel tipo di rapporto che Marx aveva istituito fra economia da un lato e istituzioni e cultura dell’altro lato, ovvero fra struttura e sovrastruttura. L’economia concepita come struttura, rispetto alla quale tutto il resto era «mero fenomeno di superficie» o sovrastruttura, era un concetto, secondo Croce, di chiara marca hegeliana: l’economia, infatti, aveva per Marx lo stesso ruolo che l’idea aveva per Hegel[40].
    Senonché il rapporto marxismo-hegelismo non si riduceva per Croce a questi caratteri deteriori (che dovevano essere fermamente criticati e respinti). In realtà il marxismo aveva ereditato dall’hegelismo qualcosa di assai positivo e importante: il «concetto fondamentale» della «storicità dialettica» – quel concetto nel quale il filosofo napoletano vedeva l’eredità più valida e preziosa dello stesso hegelismo. Anzi, il Croce riconoscerà di aver appreso quel concetto per la prima volta proprio dal marxismo, e non da Hegel, verso il cui sistema, per parecchi anni della sua vita mentale, aveva sentito «forte riluttanza»[41], e con cui aveva fatto i conti solo più tardi, nel 1906, sforzandosi di individuare ciò che era vivo e ciò che era morto nella filosofia hegeliana. Soccorre, a questo proposito, la precisa testimonianza del Contributo alla critica di me stesso (1915): «Il lievito dello hegelismo sopraggiunse nel mio pensiero assai tardi; e la prima volta attraverso il marxismo e il materialismo storico, che, come avevano ravvicinato il mio maestro Labriola allo Hegel e alla dialettica, così mi fecero avvertire quanta concretezza storica fosse, pur in mezzo a tanti arbitri e artifizi, nella filosofia hegeliana»[42]. Un giudizio che ribadirà nel 1917, nella prefazione alla terza edizione del suo Materialismo storico, dove dirà che le cause oggettive del suo interessamento per il marxismo erano da ricercare nel fatto che egli risentiva attraverso di esso «il fascino della grande filosofia storica del periodo romantico», e che veniva come scoprendo in esso «un hegelismo assai più concreto e vivo di quello che era solito d’incontrare presso scolari ed espositori, che riducevano Hegel a una sorta di teologo e di metafisico platonizzante»[43].
    Per Croce, la grandezza di Hegel, e la sua importanza per il pensiero moderno, andavano cercate nella concezione dialettica della realtà: nella tesi, cioè, che la realtà è divenire spirituale, attraverso lotte, conflitti, opposizioni, contrasti. Il negativo era dunque la molla dello svolgimento; l’opposizione, l’anima stessa del reale. Hegel non solo non cancellava dalla storia il male, il brutto, il falso, il vano (nulla – diceva Croce – sarebbe stato più alieno dalla sua concezione drammatica, e in certo senso tragica, della realtà), bensì li collocava al centro della vita e della storia. Il bene non poteva sussistere senza il male, né il male senza il bene. Bene e male erano termini opposti e correlativi; e l’affermazione dell’uno affermava l’altro. Hegel li negava sì entrambi, ma per conservarli nella sintesi dialettica, cioè nella concretezza della vita[44].
    Questo nucleo vivo – la storia come svolgimento attraverso il conflitto, l’opposizione e la lotta – era passato, secondo Croce, dall’hegelismo al marxismo, anche se quest’ultimo l’aveva impoverito e quasi immeschinito, dandone una riduzione economicistica: la storia come attrito di soli interessi economici, come conflitto di classi economiche. «Certo – diceva il filosofo napoletano – la lotta delle classi economiche, e la classe dominante teorizzata come classe economica, non coglievano nel giusto la verità delle lotte politiche e del governo degli Stati; ma pure erano un’approssimazione a quella verità, un entrare sul terreno nel quale conveniva cercarla, lasciando la fallace via delle astratte forme […]»[45]. La storia tornava così ad essere concepita come qualcosa di mosso, di conflittuale, di dinamico: come un grande dramma, in cui si affrontavano i ceti e le classi. «Nel materialismo storico questo elemento energico investiva di nuovo la storia delle società umane, e procurava di spiegarla nel suo intrinseco e congiungerla col maggiore problema pratico e morale dell’età nuova»[46]. E se era indubbiamente un difetto il modo troppo ristretto con cui il marxismo concepiva la storia e la sua dialettica, impoverendo lo spirito umano a spirito economico o ad attività produttrice di beni materiali, sicché l’economia si atteggiava a “cosa in sé”, a noumeno, rispetto al quale tutto il resto era mero fenomeno; per un altro verso, «quella “cosa in sé” era non una cosa ma un’attività, una speciale attività dell’uomo, e l’averla posta, anche sola o tiranna delle altre, importava pur sempre che l’attività e non la passività, la finalità interna e non la causalità, lo spirito e non la natura, tornava ad essere il centro della realtà, che, per materialistica che fosse definita nelle parole, si rifaceva, in effetto, idealistica»[47].


    Un ricostituente per la cultura italiana



    Per quanto riguarda il contributo del materialismo storico alla cultura storica e politica, il Croce non aveva dubbi circa i benefici effetti da esso arrecati. Il socialismo marxistico aveva riempito il vuoto che era stato creato nel pensiero e negli ideali italiani dall’azione dissolvitrice del positivismo e del correlativo pessimismo. Esso, in campo storiografico, mercé il principio della lotta di classe, le aveva dato un filo conduttore, che produsse nuovi studi e nuove ricerche. Ne risultò «un complesso di correzioni, di restituzioni o restaurazioni, di migliori avviamenti, di maggiori approfondimenti, che ridié contenuto alla cultura italiana, la raccolse floscia e cascante e l’appoggiò a un’ossatura, la quale, quantunque provvisoria, era pur sempre un’ossatura»[48]. Inoltre, il marxismo agì immediatamente nella storiografia come canone empirico di ricerca, e richiamò l’attenzione su tutta una serie di elementi dianzi trascurati o sottovalutati. Nel campo degli studi politici, fu posta in secondo piano la considerazione delle forme giuridiche degli istituti, sostituita dalle indagini sulla produzione e distribuzione economica, sui bisogni che quelle forme esprimevano e tutelavano, e su quelli che impedivano e reprimevano. La libertà cessava così di essere vista astrattamente, e veniva valutata invece nella sua effettiva concretezza sociale, «tendendo a guardare sempre alla realtà effettuale di là dalle apparenze»[49]. Analogamente, le leggi civili e penali non furono più considerate come una sorta di diritto naturale, ma come il presidio di determinati interessi economici, storicamente condizionati e storicamente transeunti. Nel dibattito politico si cessò di parlare superficialmente di Destra e di Sinistra, di disegnare arbitrariamente raggruppamenti e divisioni parlamentari – in una parola, di discutere di politica mediante cartellini ed etichette – per guardare più in profondità, alle classi sociali tra loro concorrenti e lottanti[50].
    Ma il marxismo non richiamò l’attenzione solo sugli interessi economici e sul posto che essi avevano nel divenire storico; insegnò anche a guardare in modo diverso agli ideali. Si cessò così di parlare astrattamente di libertà, di umanità, di fratellanza, di giustizia, ecc.: «non perché non designassero tutte esse cose belle, ma perché ogni cosa è bella nel suo luogo, e quelle parole erano state spostate dal loro luogo, fino a ipostatare, mercé di esse, una sorta di areopago, collocato in un punto ideale, presieduto da un Dio o da una Dea», ai quali sarebbe bastato rivolgere istanze o appelli: quasi che le idee sussistano indipendentemente dall’attività e dalla volontà umana, e «si attuino altrimenti che con l’opera del braccio». In altre parole, le idee venivano considerate per l’influsso che riuscivano ad esplicare effettivamente sulla realtà, per la capacità che esse avevano, mobilitando gli uomini, di tradursi efficacemente nella realtà medesima. Insomma, anche qui «riprese rilievo il concetto di “forza”, cioè della effettualità degli ideali, che tutti sono tali davvero quando si traducano in forze». Forza delle idee, loro effettualità: sono termini significativi. E infatti il Croce affermava che col marxismo era ritornato in Italia quel Machiavelli, che gli Italiani avevano dimenticato sin dalla metà del XVII secolo, e che da ultimo era finito nelle mani dei professori, i quali «nell’esporne il pensiero gli infliggevano repliche moralistiche e lo avrebbero voluto saggio e moderato come loro»[51].
    Infine, in connessione con tutti questi elementi, il marxismo, secondo il Croce, aveva cambiato profondamente il metodo dell’azione politico-sociale, combattendo il mito delle insurrezioni e dei colpi di mano, «fanciulleschi l’uno e l’altro a petto del metodo filosofico e dialettico, che comandava di accompagnare col pensiero e con l’azione l’oggettivo processo storico, vivendone le consecutive fasi, e di far intervenire la violenza solo al momento buono, per cogliere il frutto giunto a maturità»[52]. Marx, insomma, aveva inteso come la cosiddetta rivoluzione, se voleva diventare cosa politica ed effettuale, dovesse «fondarsi sulla storia, armandosi di forza o potenza (mentale, culturale, etica, economica)»[53]. In accordo con ciò, Marx non aveva mai fatto proprio quel concetto astratto, «aritmetico e geometrico», di eguaglianza, che era stato propugnato dai socialisti utopisti. Al contrario, la classe operaia costituiva per lui una nuova aristocrazia – da non confondere col «proletariato cencioso», col «buon popolo», con i poveri in genere ecc. – la quale avrebbe dovuto vincere la borghesia battendola sul terreno della cultura e della civiltà tecnico-scientifica, che avrebbero permesso di trasformare consapevolmente il complesso sociale attraverso il dominio crescente sulle forze cieche della natura[54].


    La «conversione liberale» del socialismo marxista



    Circa il terzo punto – la funzione e il ruolo svolti dal socialismo marxista nella vita politica italiana ed europea – i riconoscimenti di Croce non erano di minor conto. Già nella celebre intervista del 1911, in cui aveva annunciato la “morte del socialismo”, aveva detto che non gli sembravano «piccoli effetti» l’abbandono definitivo, determinato dal marxismo, del socialismo astrattamente egalitario e ottimistico; l’aiuto che il socialismo moderno aveva dato e dava contro ogni conato di reazione; l’impedimento che aveva contribuito a porre, per parecchi decenni, alle guerre europee; la legislazione del lavoro e i conseguenti miglioramenti prodotti nelle condizioni della classe operaia; un senso più concreto, che si era diffuso dappertutto, della realtà sociale, e, nel campo dell’intelligenza, l’aver contribuito al risveglio filosofico e al superamento del positivismo, oltre all’aver intensificato gli studi e la cultura economica, e guardato in modo nuovo alcune parti della storia[55].
    Tale giudizio doveva ribadire molti anni più tardi, in modo più articolato e preciso, nella Storia d’Europa (1932). Qui, svolgendo l’idea che, se il fine del socialismo marxista era comunistico e materialistico, il suo metodo, per contrario, voleva essere storico e dialettico, e, secondo che fosse stato o no seriamente tale, si sarebbe configurato nella pratica o in una forma di attività politica concreta e graduale, e perciò sostanzialmente liberale, o in un fatalismo naturalistico, negazione della storicità e dell’attività – il Croce trovava conferma della propria valutazione negli sviluppi concreti dei movimenti socialisti occidentali. Nella stessa Germania, nonostante le visioni messianiche e apocalittiche dei Marx e dei Lasalle, il partito nato dalla fusione dei loro seguaci era divenuto sempre più riformista e parlamentare. Conseguito il suffragio universale e segreto – «necessario ai lavoratori per la loro ascensione» – la nuova realtà del partito socialdemocratico tedesco era ormai costituita dai comizi elettorali e dalle rappresentanze nei parlamenti, «con tutte le conseguenze che questo fatto portava con sé, ancorché si esplicassero lentamente e non si scorgessero da prima»[56]. Si realizzava così il risultato implicito nel metodo storicistico-dialettico del socialismo marxista: la sua «necessaria conversione liberale». Un passo rilevante in questa direzione era stato il Congresso di Erfurt del 1891, il primo tenuto dopo la cessazione delle leggi eccezionali, che elaborò un programma suddiviso in due parti: «la prima, che criticava i fondamenti della civiltà esistente e le poneva di contro come ideale la futura società comunistica ed era di carattere ornamentale; e la seconda, che si chiamò poi “programma minimo” e che conteneva una serie di riforme pratiche, conseguibili nella società presente, e che, com’è chiaro, era la sola di carattere politico e attuale, cioè che potesse presentare e difendere proprie e particolari richieste dinanzi agli altri partiti, che le avrebbero in qualche parte accettate contemperandole, in altre respinte e differite, e col tempo le avrebbero accolte più largamente e forse tutti, e così il socialismo avrebbe recato un contributo positivo all’opera comune di graduale progresso sociale»[57].
    Era inevitabile quindi che – aderendo alla realtà delle cose, per introdurvi le modificazioni possibili, e divenendo sempre più partecipi della vita dei propri paesi – i partiti socialisti diventassero in misura crescente riformisti e nazionali. Era stato il destino non solo del partito socialdemocratico tedesco, ma di altri partiti socialisti europei. Non ultimo il partito socialista italiano, o buona parte di esso, come il Croce osservava con compiacimento[58].
    In Russia, le cose erano andate in tutt’altro modo. Ma il bolscevismo era una versione asiatica del marxismo (di cui esasperava i caratteri materialistici e antiliberali), sorta in un paese arretrato, scarsamente penetrato dalla cultura e dalla civiltà occidentali. Perciò esso non aveva nulla da insegnare all’Europa più evoluta.


    Una valutazione articolata



    L’atteggiamento del Croce verso il marxismo mostra dunque una notevole coerenza, pur nel variare delle situazioni politiche e civili (Italia liberale, fascismo, post-fascismo) nelle quali si svolse l’eccezionale operosità culturale (eccezionale per intensità e lunghezza) del filosofo napoletano. Per questo rispetto il noto giudizio di Gramsci – secondo il quale Croce avrebbe assunto, a partire da un certo periodo (grosso modo, dopo la prima guerra mondiale), un atteggiamento sempre più “liquidazionista” verso Marx e la sua eredità, e ciò in contrasto coi propri saggi giovanili[59] – non sembra avere fondamento alcuno.
    In realtà, i riconoscimenti crociani verso il marxismo non vennero mai meno, così come non vennero mai meno le sue critiche. Si trattò sempre, a questo proposito, di un singolare “incastro”: perché le critiche erano tali da disintegrare completamente il marxismo in quanto “teoria” e in quanto “sistema”, liquidandone tutti i concetti centrali; e al tempo stesso questo lavoro di demolizione “liberava” una serie di elementi che si rivelavano non solo utilizzabili, ma fecondi per il progresso del pensiero. Così la teoria del valore-lavoro non aveva, per Croce, alcune dignità scientifica, e però era un «espediente logico per rischiarare alcuni aspetti della moderna costituzione economica»[60]; attraverso di essa Marx «scorse acutamente alcuni lineamenti della società moderna»[61], sicché, nel complesso, egli fu «assai più moderno del Mazzini», che da noi gli si soleva contrapporre[62].
    La pretesa di Marx di ricondurre immediatamente le filosofie all’economia e ai rapporti sociali, non aveva fondamento, poiché «il rapporto tra le condizioni di fatto e il prodotto teorico non è rapporto di causa ed effetto, e non ha nulla di deterministico e materialistico», anche se è evidente che le idee sorgono in condizioni storiche determinate, e non è possibile intendere un pensatore se non riferendolo alle condizioni spirituali del suo tempo, le quali gli hanno dato la materia dei problemi, da lui poi formulati e risolti. E tuttavia Marx, pur muovendo da una impostazione teorica erronea, fu condotto dalle esigenze del movimento proletario «a scoprire la nullità scientifica e il contenuto reale di molte formole, care al liberalismo e alla borghesia», formule che «avevano contenuto sentimentale o passionale, o intento politico». Ciò non dimostrava affatto, beninteso, la bontà dello strumento teorico di Carlo Marx (il cosiddetto rapporto struttura-sovrastruttura), perché la riduzione che egli operava di certe formule a interessi economici era «non già riduzione di concetti a interessi, ma di interessi con maschera di concetti a interessi senza maschera»[63]. Significava però che egli aveva svolto in molti casi un utile lavoro di demistificazione verso ideologie politiche o posizioni pratiche mascherate da proposizioni filosofiche.
    Marx aveva richiamato energicamente l’attenzione sull’attività economica, sulla produzione e distribuzione della ricchezza. In questo modo aveva messo in risalto una quantità di elementi, che in passato erano stati ignorati o sottovalutati dalla storiografia. Che ciò fosse di grande beneficio per le scienze morali e storiche, non c’era dubbio. Il Croce riconobbe che dai propri studi sul marxismo aveva ricavato «quasi in ogni parte definito il concetto del movimento economico, ossia della autonomia da riconoscere alla categoria dell’utile, il che gli riuscì di grande uso nella costruzione della sua “Filosofia dello spirito”»[64]. E tuttavia, anche in questo caso si trattava di una esigenza o di una istanza (il momento dell’utile), che il marxismo aveva invece assolutizzato (e dunque stravolto), fino a identificarla con tutta la realtà, precludendosi così la comprensione delle varie forme della realtà medesima, nonché dei rapporti che le univano. E ciò perché la preoccupazione principale che stava al fondo dell’opera di Marx era più di carattere politico che di carattere scientifico, sicché tutte le sue dottrine avevano un intimo carattere di affermazioni pratiche, ai fini dell’azione sociale e politica[65].


    La palingenesi e il progresso



    Il marxismo era stato uno dei mezzi più efficaci per il riavvicinamento degli intelletti moderni a Hegel e per la ripresa dei problemi della filosofia idealistica. «Meglio che nei libri sistematici e noiosi – affermò il Croce con la consueta franchezza – dei Rosenkranz, degli Erdmann, dei Michelet e dei Vera, lo spirito dello Hegel venne serbato nella commossa storiografia marxistica e nelle premesse dei manifesti e programmi del socialismo»[66]. Ma il marxismo aveva fatti propri anche i lati più erronei e caduchi della logica hegeliana, abusando della contraddizione dialettica, e applicandola anche laddove si trattava della diversità dei ruoli e delle funzioni sociali, o della distinzione delle varie forme della operosità umana. Inoltre, esso aveva mutuato da Hegel uno schema di filosofia della storia che procedeva «per epoche logicamente dedotte l’una dall’altra», anche se poi tali epoche erano distinte non secondo i gradi di svolgimento dell’idea, bensì secondo i gradi di svolgimento dell’economia[67]. Il risultato finale era però lo stesso di Hegel: la soppressione di tutte le contraddizioni, e la fine stessa della storia. Come interpretare infatti la società comunista – in cui sarebbe stato abolito lo Stato, si sarebbe estinto il diritto civile e penale, non vi sarebbero stati più contrasti di individui o di gruppi – se non come l’avvento del Paradiso sulla terra?
    A questa concezione, infantile e pericolosa a un tempo, il Croce contrapponeva il realismo (tanto ottimistico quanto pessimistico) della concezione liberale, da lui così tratteggiata in una bella pagina scritta nell’ultimo periodo della sua vita: «La concezione liberale sa che la vita è divenire e perciò perpetuo contrasto e perpetua soluzione, perpetua soluzione e perpetuo rinascente contrasto, continua tendenza all’eguaglianza e turbamento e distruzione di pace e di benessere, nell’una e nell’altra delle quali non si ripone già il fine della vita, perché il fine della vita è la vita stessa, nella sua pienezza, col sacro mistero dell’esistenza che si deve adorare, e non già dissacrare e pretendere di correggere col toccare e spezzare la molla stessa dell’azione, ossia del vivere. Ma sa anche che l’uomo può trasportare, e nel fatto trasporta, il contrasto vitale sempre più in alto; e questa è la fede che informa il suo fare, questo è ciò che si chiama il perpetuo progresso e avanzamento e arricchimento e affinamento della vita umana»[68]. Questa pagina esprime veramente il significato più alto e profondo della concezione crociana: il senso della complessità della storia, il realismo necessario nell’elaborare programmi di azione sociale e politica, il rifiuto dei miti messianici e palingenetici, nonché delle analisi semplicistiche e delle scorciatoie infantili.
    Come meravigliarsi, dunque, che l’opera di Croce sia quasi scomparsa dal nostro orizzonte culturale in tutti questi decenni?

    https://musicaestoria.wordpress.com/...marxismo-1982/



    [1] B. Croce, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, Bari 1951 (9ª ed.), p. 272.
    [2] Ivi.
    [3] Ivi, p. 274.
    [4] A. Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, a cura di V. Gerratana, Roma 1963, p. 74. E del Labriola si veda anche In memoria del Manifesto dei comunisti, dove l’A., a proposito del Capitale, afferma: «che io non mi perito di chiamare per tale rispetto una filosofia della storia» (ed. a cura di B. Widmar, Milano 1960, p. 50).
    [5] B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 8.
    [6] Ivi, p. 5.
    [7] Ivi, p. 8.
    [8] Ivi, p. 13.
    [9] Ivi, p. 9.
    [10] Ivi, p. 7.
    [11] Ivi, pp. 6 e 20.
    [12] Ivi, p. 120.
    [13] Ivi, p. 20.
    [14] Ivi, pp. 12-3.
    [15] Ivi, p. 9.
    [16] Ivi, p. 10.
    [17] Ivi, p. 15.
    [18] Ivi, pp. 13-4.
    [19] Ivi, p. 16.
    [20] Ivi, pp. 58-9.
    [21] Ivi, p. 70.
    [22] Ivi, p. 70.
    [23] Ivi, p. 136.
    [24] Ibidem.
    [25] Ivi, p. 70.
    [26] Ivi, pp. 142-43.
    [27] Ivi, p. 60.
    [28] Ivi, p. 72.
    [29] Ivi, p. 70.
    [30] Ivi, p. 87.
    [31] Ivi, p. 86.
    [32] Ivi, pp. 80-1.
    [33] Ivi, p. 112.
    [34] Ivi, p. 175.
    [35] Materialismo storico ed economia marxistica, Sandron, Palermo 1900.
    [36] B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), Milano 1981, p. 34.
    [37] B. Croce, Il «Filosofo», in «La Critica», XXVIII (1930), p. 238.
    [38] B. Croce, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 294-5.
    [39] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1956, XI ed., p. 168.
    [40] B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, in Id., Etica e politica, Bari 1956, IV ed., p. 411.
    [41] B. Croce, Saggio sullo Hegel, Bari 1948, IV ed., pp. 53-4.
    [42] B. Croce, Etica e politica, cit., p. 411.
    [43] B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. XII.
    [44] B. Croce, Saggio sullo Hegel, cit., pp. 39-41.
    [45] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1914, cit., p. 165.
    [46] Ivi, p. 168.
    [47] Ivi, p. 170.
    [48] Ivi, p. 164.
    [49] Ibid.
    [50] Ivi, p. 165.
    [51] Ivi, p. 166.
    [52] B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 1957, IX ed., p. 152.
    [53] B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. XIV.
    [54] B. Croce, Cultura e vita morale, Bari 1955, III ed., pp. 151-2.
    [55] Ivi, pp. 158-9.
    [56] B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., p. 311.
    [57] Ivi, p. 312.
    [58] Cfr. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, cit., p. 174.
    [59] Cfr. A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Torino 1949, p. 216.
    [60] B. Croce, Conversazioni critiche, serie prima, Bari 1915, p. 279.
    [61] B. Croce, Cultura e vita morale, cit., p. 155.
    [62] B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. XIV.
    [63] B. Croce, Conversazioni critiche, serie prima, cit., pp. 285-6.
    [64] B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, cit., pp. 312-3.
    [65] B. Croce, Conversazioni critiche, serie prima, cit., 29[9?].
    [66] Ivi, p. 304.
    [67] B. Croce, Come il Marx fece passare il comunismo dall’utopia alla scienza, Bari 1948, p. 27.
    [68] B. Croce, Per la storia del comunismo in quanto realtà politica, Bari 1944, pp. 8-9.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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