di Giuseppe Bedeschi – «Mondoperaio», ottobre 1982, pp. 100-108.
È ben noto come, dal suo primo contatto con il materialismo storico, nella ricostruzione fattane da Antonio Labriola, il giovane Croce ricevesse una impressione profonda, che costituì un vero e proprio punto di svolta nella sua vita intellettuale. Egli stava allora sui ventinove anni e, secondo la sua stessa testimonianza, era passato «attraverso molteplici prove di studi in letteratura, filologia e filosofia, e, inconsapevolmente, per un intimo bisogno morale, si veniva rivolgendo all’indagine del problema della storia, insoddisfatto della mera erudizione e aneddotica»[1]. Quando Antonio Labriola, già suo professore all’Università di Roma, gli inviò il manoscritto del proprio saggio In memoria del Manifesto dei comunisti, il giovane Croce «lo lesse e lo rilesse», e «la mente gli si riempì di visioni e di concetti per lui nuovi»[2]. Per qualche mese, «infiammato dalla lettura delle pagine del Labriola, preso dal sentimento di una rivelazione che si apriva al suo spirito ansioso»[3], egli fu affascinato dalla nuova dottrina, che il suo vecchio maestro esponeva e interpretava in modo così acuto e originale, con la sua vastissima cultura storica e filosofica, e col suo stile caustico e inconfondibile. Senonché l’infatuazione, se si può chiamarla così, durò meno di un anno. Gettandosi nello studio delle opere di Marx e di Engels, nonché degli economisti classici e post-classici, il giovane Croce non tardò a convincersi che i concetti centrali del marxismo erano erronei, anche se, a suo avviso, esso aveva il merito, non piccolo, di porre, a chi si occupava di storiografia e di discipline morali, una serie di istanze e di esigenze che non potevano essere eluse, e che invece, in passato, erano state eluse.
Il Croce espose la propria interpretazione e la propria critica del materialismo storico in una serie di saggi, che venne componendo tra il 1896 e il 1899. Diciamo interpretazione e critica, perché la critica che il Croce rivolgeva al marxismo discendeva dalla particolare interpretazione che egli ne dava: il che può apparire fin troppo ovvio, ma lo è solo fino a un certo punto, ove si ponga mente al fatto (assai insolito per quei tempi) che il filosofo napoletano si sforzava di depurare la nuova dottrina di tutti i caratteri più deteriori dello hegelismo e che, fatto ciò, egli per un verso la demoliva in quanto teoria, e per un altro verso ne faceva proprie alcune istanze e alcuni suggerimenti.
Il marxismo come filosofia della storia
Sin dal suo primo saggio, Sulla forma scientifica del materialismo storico (1896), il Croce prendeva posizione contro quanti vedevano nel marxismo una nuova filosofia della storia. Su questo punto anche gli studiosi più acuti mostravano una singolare oscillazione. Lo stesso Labriola aveva affermato, a breve distanza, che «la nostra dottrina non può esser volta a rappresentare tutta la storia dell’uman genere in una veduta comunque prospettica o unitaria, la quale ripeta, mutatis mutandis, la filosofia storica a disegno come da sant’Agostino a Hegel», e che però il materialismo storico era «l’ultima e definitiva filosofia della storia»[4]. Questa incertezza degli interpreti più qualificati era dovuta, secondo Croce, ad alcune formulazioni infelici dello stesso Marx, le quali però non esprimevano il senso più profondo della sua opera. Marx, infatti, come una volta ebbe a dichiarare, si era compiaciuto di «civettare» con la terminologia hegeliana, «arma pericolosa – diceva Croce – con cui sarebbe stato meglio non giocare troppo», perché finiva col dare luogo a «fraintendimenti teologici e fatalistici»[5]. In realtà, aggiungeva il filosofo napoletano, il legame tra le concezioni di Hegel e di Marx era «più che altro, meramente psicologico, perché lo hegelismo era la precoltura del giovane Marx, ed è naturale che ciascuno riattacchi i nuovi ai vecchi pensieri come svolgimento, come correzione, come antitesi»[6]. E, se si guardava con attenzione, ci si accorgeva subito che in questo caso gli elementi di correzione e di antitesi prevalevano di gran lunga sugli elementi di continuità e di svolgimento.
Marx, infatti, aveva affermato energicamente, al pari di Hegel, l’idea della necessità storica, ma, a differenza di Hegel, ne aveva dato una raffigurazione «circostanziale ed empirica», dalla quale bisognava cancellare «ogni traccia di razionalismo e di trascendenza, per vedervi il semplice riconoscimento del piccolissimo campo che nel corso delle cose è lasciato all’arbitrio individuale»[7]. E ancora: il materialismo storico era sorto «dal bisogno di rendersi conto di una determinata configurazione sociale»[8], non già dall’esigenza di spiegare la storia universale. Perciò, come aveva giustamente affermato il Labriola, le previsioni della dottrina potevano essere solo «di indole morfologica», nel senso che, una volta analizzata la realtà sociale in tutte le sue determinazioni e particolarità, si potevano formulare alcune ipotesi di massima circa i suoi possibili svolgimenti. Parlare di ipotesi non era, naturalmente, la stessa cosa che parlare di certezze. Infatti, si chiedeva Croce, «se la storia è sempre circostanziale, perché, in questa nostra Europa occidentale, non potrebbe, per l’azione di forze ora incalcolabili, sopravvenire una nuova barbarie? Perché l’avvento del comunismo non potrebbe essere o reso superfluo o affrettato da taluna di quelle scoperte tecniche, che hanno finora prodotto, come il Marx stesso ha mostrato, i maggiori rivolgimenti storici?»[9].
Inoltre, Marx aveva dato adito all’equivoco che la sua concezione fosse una nuova filosofia della storia anche per un altro motivo: in quanto aveva avallato la definizione «materialistica». Ora, diceva Croce, «la denominazione dovrebbe essere cangiata, perché la confusione è in essa, per così dire, intrinseca». Infatti, se si parla di filosofia materialistica della storia, viene spontaneo pensare che occorra sostituire «alla onnipresente Idea l’onnipresente Materia»: che era appunto l’equivoco nel quale erano caduti Plechanov – il quale aveva sentito il bisogno, per individuare i precedenti del materialismo storico, di risalire agli Holbach e agli Helvetius – e i molti positivisti di fresco convertiti al marxismo. Così, però, si cadeva in una sorta di hegelismo spurio, che concepiva la realtà come divenire di una indistinta e onnicomprensiva Materia (che teneva il luogo dell’Idea), col risultato di non pervenire a conoscenze di alcun genere, ma soltanto a superfluità e a tautologie, o addirittura ad arbitri e a costruzioni grossolane[10].
Tutto ciò era profondamente estraneo al vero significato della dottrina di Marx, la quale non era né materialistica né spiritualistica né dualistica né monadistica, bensì, piuttosto, realistica: «concezione realistica della storia» era appunto la denominazione che appariva più adatta al Croce[11]. Infatti tale dottrina non si occupava degli «elementi delle cose», in modo che si potesse discutere filosoficamente se fossero riducibili l’uno all’altro e se si unificassero «in un principio ultimo»; all’opposto, essa si occupava di «oggetti particolari» – il lavoro, la prodizione industriale, la terra, ecc. – e , sulla base dell’analisi circostanziata di tali oggetti, riconsiderava la storia in concreto, investigandone il processo effettivo[12]. Essa segnava così la propria opposizione a tutte le teologie e metafisiche nel campo della storia[13].
Un approccio storiografico originale
Depurato il materialismo storico di tutti gli elementi estranei (o ritenuti tali), il Croce precisava però che esso non poteva essere considerato né una teoria né un metodo, nel senso rigoroso che si dà ordinariamente a queste parole. Che non fosse una nuova teoria risultava bene, del resto, dalla stessa ricostruzione che ne aveva dato il Labriola, il quale aveva ammesso «la complicatezza della storia», il successivo fissarsi e isolarsi dei prodotti di primo grado che diventano indipendenti, le ideologie che si cristallizzano in tradizioni, le ostinate sopravvivenze, l’elasticità del meccanismo psichico che rende l’individuo irriducibile al tipo della classe o dello stato sociale, l’inconsapevolezza e inintelligenza nella quale gli uomini sovente si sono trovati circa le loro proprie situazioni, l’insaputo e l’inconoscibile di credenze e superstizioni nate per istrani accidenti e ravvolgimenti». E poiché l’uomo vive non solo nella società ma anche nella natura, il Labriola aveva ammesso anche la forza della razza, del temperamento e delle suggestioni naturali. Infine, non aveva chiuso gli occhi «innanzi all’efficacia degli individui, ossia dell’opera di quelli che si chiamano grandi uomini, i quali, se non sono dominatori, sono certo collaboratori di cui la storia non potrebbe far di meno»[14]. Se tutto ciò era vero, allora era assai difficile, anzi impossibile, costruire sui concetti-chiave del materialismo storico una teoria rigorosa, perché ciò avrebbe condotto a ingabbiare la ricchezza, la varietà, e anche l’imprevedibilità della storia all’interno di schemi troppo rigidi, fondati sulle classi sociali, il modo di produzione, il rapporto struttura-sovrastruttura, ecc.
D’altra parte, il materialismo storico, come non era una teoria rigorosa, così non era nemmeno un nuovo metodo. Quando i filosofi idealisti “deducevano” razionalmente i fatti storici, il loro sì era un nuovo metodo, per quanto discutibile o inaccettabile; ma gli storici della scuola materialistica, diceva il Croce, adoperavano gli stessi strumenti intellettuali e seguivano le stesse vie degli storici, per così dire, filologi, e solamente recavano nel loro lavoro alcuni dati nuovi, alcune nuove esperienze. In questo caso era diverso il contenuto e non già la forma metodica[15].
Il Croce giungeva così alla conclusione che più gli stava a cuore, e che riteneva «sostanziale»: se il materialismo storico non era né una nuova teoria, né un nuovo metodo, non poteva essere altro che «una somma di nuovi dati, di nuove esperienza, che entrano nella coscienza dello storico»[16]. Detto in altre parole, rispetto alla storiografia il materialismo storico si risolveva «in un ammonimento a tener presenti le osservazioni fatte da esso come nuovo sussidio a intendere la storia»[17]. Questa conclusione non sminuiva affatto, secondo Croce, l’importanza dell’opera di Marx e il suo significato per la cultura moderna. Erano infatti «feconde scoperte, per intendere la vita e la storia, l’affermazione della dipendenza di tutte le parti della vita tra loro, e della genesi di esse dal sottosuolo economico, in modo che si può dire che di storie ce n’è una sola; il ritrovamento della forza reale dello Stato (quale esso si presenta in certi suoi aspetti empirici) col considerarlo istituto di difesa della classe dominante; la stabilita dipendenza delle ideologie dagli interessi di classe; la coincidenza dei grandi periodi storici coi grandi periodi economici; e le tante altre osservazioni, ond’è ricca la scuola del materialismo storico»[18]. Queste scoperte e indicazioni erano assai importanti per una ripresa della storiografia italiana, ormai ridotta, nel migliore dei casi, alla ricerca erudita fine a se stessa, se non addirittura alla raccolta di curiosità e alla aneddotica. «Gli aiuti per una comprensione più intima e profonda – rilevava Croce – sono venuti finora in più volte, da diverse parti; ma grande è quello che giunge ora dal campo del materialismo storico, e adeguato all’importanza del movimento del socialismo moderno»[19]. Restava naturalmente fermo il fatto che le «feconde scoperte» e le preziose indicazioni del materialismo storico, in primo luogo «la coordinazione e subordinazione dei fattori», dovevano essere verificate e dimostrate di volta in volta empiricamente, cioè lo storico doveva renderle chiare e determinate per ogni singolo caso, senza cedere alla tentazione di precostituirle e di assolutizzarle; altrimenti egli sarebbe ricaduto nell’applicazione aprioristica di una teoria, cioè, poi, di nuovo in una filosofia della storia.
L’interpretazione del Capitale
Tutti questi temi furono ripresi e sviluppati dal Croce nel suo saggio successivo, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (1897), con un “affondo”, però, assai più efficace ed incisivo per quanto atteneva alla struttura teorica della dottrina, i cui concetti centrali (in primo luogo la teoria del valore-lavoro) venivano demoliti nella loro pretesa di scientificità.
Il Capitale, rilevava Croce, era stato considerato di volta in volta come un trattato di economia politica, come una filosofia della storia, come un complesso di cosiddette leggi sociologiche, come una requisitoria morale e politica, e, infine, come un pezzo di storia raccontata. In realtà, l’opus magnum di Marx non era nessuna di queste cose. Non era un trattato di economia, perché non abbracciava tutto il territorio dei fatti economici e delle epoche economiche, bensì si restringeva a una particolare formazione economica, che è quella che ha luogo in una società con proprietà privata del capitale, ovvero, come Marx la definiva, capitalistica, tralasciando tutte le altre formazioni accadute o teoricamente possibili. Per lo stesso motivo il Capitale non era una filosofia della storia, bensì, piuttosto, «una ricerca astratta», in quanto la società capitalistica che esso indagava non era la tale o talaltra società storicamente esistente, bensì «una società ideale e schematica, dedotta da alcune ipotesi», le quali rispondevano sì in buona parte alle condizioni del mondo civile moderno, ma non coincidevano interamente con la realtà economico-sociale di nessuna nazione del mondo occidentale. Inoltre, il Capitale non era nemmeno una descrizione storica, anche se esso conteneva dei capitoli descrittivi di processi ed accadimenti storici. In breve, Marx aveva costruito un modello astratto, che non coincideva (e, in quanto tale, non poteva coincidere) con una società attualmente esistente, anche se poi tale modello era stato pensato per intendere alcune caratteristiche importanti delle società moderne: in primo luogo il rapporto fra lavoratori salariati e capitale, e la condizione della classe operaia nel capitalismo[20].
La funzione di tale modello, e, più in generale, il senso del procedimento di Marx, si chiarivano assai bene, secondo Croce, ove si passasse ad esaminare attentamente il concetto marxiano del valore-lavoro. Il quale non era certo un fatto empirico (perché, come aveva sottolineato efficacemente il Böhm-Bawerk, non c’era ponte di passaggio dal valore-lavoro al prezzo delle merci), né era solo un fatto logico (come invece aveva sostenuto il Sombart), poiché tutte le ricerche astratte sono costruite con fatti logici; bensì era «un concetto pensato e assunto come tipo». «Esso – aggiungeva Croce – non ha già l’inerzia dell’astrazione, ma la forza di qualcosa di determinato e particolare, che compie rispetto alla società capitalistica, nell’indagine del Marx, l’ufficio di termine di comparazione, di misura, di tipo»[21]. E infatti la teoria del valore-lavoro serviva a Marx per fondare il concetto di plusvalore, cioè per spiegare l’origine dello “sfruttamento” capitalistico. Senonché plusvalore in economia è parola priva di senso, come è mostrato dalla denominazione stessa, «giacché un sopravalore [o plusvalore, Mehrwert] è un extra-valore, ed esce fuori del campo della pura economia»[22]. Ma il plusvalore acquistava un senso come «concetto di differenza» o come termine di paragone.
In breve, Marx aveva proceduto in questo modo: aveva tacitamente presupposto un tipo di società composto esclusivamente da individui che con capitale comune e con eguale lavoro producono beni che si ripartiscono in proporzioni eguali; aveva poi preso in considerazione un altro tipo di società, quella capitalistica, in cui alcuni (i capitalisti) posseggono i mezzi di produzione, e gli altri (i proletari), esclusi da quel possesso, vendono ai primi il loro lavoro, sicché, nella ripartizione dei beni, i capitalisti ricevono una parte dei prodotti del lavoro dei proletari, in ragione del capitale che ciascun capitalista ha impiegato. Ora, se si considerava il secondo tipo di società in se stesso, a prescindere da qualunque riferimento ad altri tipi di società, non aveva senso parlare di plusvalore o di lavoro non pagato, perché in tale società il lavoro è pagato per il valore effettivo che esso ha sul mercato, mentre il profitto dei capitalisti «è un effetto di reciproca convenienza, nascente dal diverso grado comparato di utilità». «Voltate e rivoltate, e in pura economia non troverete altro»[23]. E tuttavia il concetto di plusvalore aveva un senso se si paragonava il secondo tipo di società al primo, ovvero se si applicava, «quasi reagente chimico, alla seconda società la misura ch’è invece propria di un tipo di società fondata sulla umana eguaglianza»[24]. Era da questo paragone, e solo da esso, che sorgeva la natura “usurpatrice” del profitto. (Se Croce avesse potuto conoscere i Grundrisse – il primo grande abbozzo del Capitale – avrebbe visto quale importanza avevano effettivamente per Marx l’analisi delle società precapitalistiche e il confronto, più volte istituito, fra quelle società e la società borghese moderna).
Il Machiavelli del proletariato
La teoria marxiana del valore-lavoro, chiave di volta della critica marxiana della società capitalistica, era fondata dunque su un «paragone ellittico» fra due diversi tipi di società, ovvero fra la società capitalistica e una parte di essa (la società lavoratrice), «astratta e innalzata ad esistenza indipendente»[25]. Da un punto di vista strettamente scientifico, il procedimento di Marx era illegittimo, perché pretendeva di spiegare la società moderna con strumenti e criteri affatto estranei ad essa, inerenti a tutt’altro tipo di società, il quale veniva tacitamente presupposto allo scopo di tradurre nei suoi termini i fenomeni della società capitalistica[26]. Ma fermarsi a questa constatazione, pur sacrosanta, non avrebbe reso giustizia a Marx, il quale non si era affatto proposto di scrivere un trattato di economia pura: «a ciò ripugnava la sua personalità di uomo pratico e di rivoluzionario, impaziente delle ricerche che non avessero stretto legame con gli interessi della vita storica e attuale»[27]. Le ricerche di Marx erano piuttosto di «sociologia economica»[28]. In altri termini, egli aveva studiato il problema sociale del lavoro, e aveva mostrato, col paragone implicito da lui stabilito, il modo particolare in cui questo problema viene risolto nella società capitalistica. Qui era la giustificazione, non più formale ma reale, del suo procedimento[29]. Merito di Marx, dunque, era quello di avere richiamato energicamente l’attenzione sulla condizione operaia nella società moderna, sulla diversità di interessi fra capitalisti e proletari, sulla lotta che questi ultimi dovevano condurre per migliorare le proprie condizioni (economiche e morali), e quindi sul principio e l’origine della lotta di classe. Con l’avvertimento, però, che anche quest’ultimo principio non doveva essere assolutizzato, non doveva diventare un principio metafisico, avendo piuttosto valore circoscritto «di canone o di orientamento»: la storia infatti, diceva il Croce non senza ironia, è lotta di classi, quando vi sono le classi (ma non ne prevedevano i marxisti la scomparsa?), quando esse hanno interessi antagonistici, e, soprattutto, quando hanno coscienza di questo antagonismo (il che, come ben sapevano i marxisti, non sempre accadeva)[30].
La conclusione di Croce era la stessa che egli aveva raggiunto nel suo primo saggio: se il materialismo storico doveva esprimere qualcosa di criticamente accettabile, esso non doveva essere inteso né come una nuova costruzione a priori di filosofia della storia (e per questo verso bisognava mondarlo di «quel ritmo naturale per negazione di negazione», che era «una scoria di vecchia metafisica»[31]), né come un nuovo metodo, bensì, semplicemente, come un canone di interpretazione storica, di uso affatto empirico: «quantunque sia, in verità, un canone di ricca suggestione». «Questo canone consiglia di rivolgere l’attenzione al cosiddetto sostrato economico delle società, per intendere meglio le loro configurazioni e vicende»[32].
Ridotto il materialismo storico entro questi confini, esso mostrava certamente di non essere una vera e propria teoria scientifica, ma non per questo perdeva qualsiasi importanza. Marx infatti insegnava, «pur con le sue proposizioni approssimative nel contenuto e paradossali nella forma, a penetrare in ciò ch’è la società nella sua realtà effettuale». Sotto questo rispetto il Croce si meravigliava come nessuno avesse pensato di chiamarlo, a titolo di onore, «il Machiavelli del proletariato»[33]. E in polemica col Racca egli ribadiva che chi si occupava di discipline morali e storiche non poteva non fare i conti col movimento intellettuale che prendeva origine da Marx, e non riconoscere il molto che vi si apprendeva, anche se era inevitabile giungere a conclusioni parzialmente negative. «Anche il materialismo storico è, come generale tesi scientifica, erroneo. Ma io sono lieto di essere passato attraverso quella dottrina; e, se non ci fossi passato, avvertirei come un vuoto nella mia mente di uomo moderno»[34].
Il marxismo e la società italiana
Nel 1900, dopo aver raccolto in volume i propri saggi sul marxismo[35], il Croce riteneva sostanzialmente conclusa quell’esperienza intellettuale. Poco prima, in una lettera al Gentile, aveva scritto: «Quanto al materialismo storico, vi annunzio che non voglio più occuparmene. (…) Nell’anno prossimo penso di riunire i miei varii scritti sul marxismo, aggiungendovi un paio di articoli su punti difficili dell’economia marxistica; correggerò tutto, vi farò una prefazione; e li comporrò in un volume… come in una bara»[36]. Aggiunse che dal marxismo aveva ormai ricavato ciò che gli occorreva.
In realtà, quella del Croce era un’affermazione troppo perentoria. Infatti, egli ritornò più volte sul problema del materialismo storico, e vi ritornò in alcuni dei suoi lavori più significativi: dal Contributo alla critica di me stesso (1915), alla Storia d’Italia (1928), alla Storia d’Europa (1932), fino, naturalmente, a quel lungo saggio-testimonianza, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1937), in cui egli rievocò le ricerche e i dibattiti svoltisi nel nostro paese fra il 1895 e il 1900 su questo tema. Senza contare varie altre note e postille apparse su «La Critica», e poi raccolte negli Elementi di politica, nella Storia come pensiero e come azione, ecc. Come mai, si potrebbe chiedere, un’attenzione e un interessamento così costanti per una dottrina con la quale, a suo dire, il Croce aveva già regolato i conti negli ultimi anni del secolo scorso, distinguendo in essa fra le istanze e gli apporti vitali da un lato, e i concetti teorici centrali, malposti od erronei, dall’altro?
La motivazione è, a mio avviso, molto semplice e molto seria a un tempo. Per il Croce la riflessione filosofica nasceva (doveva nascere) da un’analisi dei problemi reali della società e della cultura. «In Italia – scrisse in una bella postilla del 1930 – non vive più nell’animo degli uomini intelligenti la figura del “Filosofo”, del puro, del sublime “Filosofo”, di colui che, incurioso delle cose piccole, sta intento a risolvere il gran problema, il problema dell’Essere: non vive più, perché (se bisogna dire la verità, ancorché con qualche offesa della modestia) quel “Filosofo” io l’ho fatto morire». E ribadì che l’ufficio della filosofia «non stava al disopra e distaccato dalla scienza e dalla vita, ma dentro di queste, strumento di scienza e di vita»; e ciò aveva appunto inteso dire quando aveva affermato che la filosofia doveva essere la «metodologia della storiografia», ovvero la «metodologia della conoscenza dei fatti»[37].
Ora, il socialismo di ispirazione marxista aveva costituito tanta parte della vita sociale, politica e culturale dell’Italia liberale fino all’avvento del fascismo; e anche negli anni della dittatura fascista esso costituiva una componente fondamentale delle forze che, in patria o in esilio, si battevano contro il regime. Era inevitabile quindi che il Croce – filosofo “concreto” per eccellenza, cioè non distaccato o separato dalla realtà del suo paese, bensì scrupolosamente attento ad essa, per intenderne i problemi e le prospettive – dedicasse al socialismo marxista un’attenzione costante, fino agli ultimi anni della sua vita. Ciò, come è ben noto, non lo indusse mai a rivalutare la dottrina da un punto di vista scientifico (sotto questo profilo egli rimase sempre fedele alle conclusioni che aveva raggiunto nei saggi di Materialismo storico ed economia marxistica); ma, certo, il filosofo napoletano approfondì la propria valutazione del marxismo, in alcuni punti la modificò anche; e soprattutto, la completò con un’analisi acuta ed equilibrata del ruolo che il socialismo marxista aveva avuto nella società italiana.
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