di Francesco De Martino – «Mondoperaio», novembre 1975, pp. 26-32

Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato da Francesco De Martino in occasione della celebrazione delle Quattro giornate di Napoli e della memoria di Adolfo Omodeo, tenutasi all’Università di Napoli il 25 settembre scorso.


Vorrei prendere lo spunto dalla ricostruzione della lapide al marinaio ignoto fucilato dai nazisti il 12 settembre 1943, per tracciare il quadro delle vicende storiche nelle quali si pone l’opera di quel grande uomo di cultura e, ad un tempo grande politico, che fu Adolfo Omodeo.
Il 12 settembre fu per Napoli una giornata di terrore: dopo l’armistizio, le truppe tedesche, che avevano iniziato a ripiegare, in seguito agli ordini ricevuti strinsero Napoli in una morsa, la occuparono militarmente ed eseguirono gli ordini che venivano con grande crudeltà dettati dal Führer. Questi ordini contemplavano l’applicazione delle misure più severe per salvaguardare, come si disse in quel proclama, gli interessi tedeschi. Un messaggio al comandante del Neapelgruppe (le forze militari di Napoli), colonnello Scholl, ordinò di non abbandonare la città, prima di averla ridotta cenere e fango.
In quei giorni vi furono nelle forze militari italiane resistenza isolate, di reparti, mentre i comandanti responsabili rifiutavano di combattere e anche di consegnare le armi al popolo. Ma non tutti: alcuni si immolarono eroicamente, come il generale Gonzaga, il quale, in prossimità di Salerno, tentò la resistenza contro i tedeschi e fu ucciso come tanti altri. Mi sia consentito di ricordare un amico fraterno, col quale avevamo diviso le speranze della libertà e anche della scienza: Edoardo Carrelli, giovane romanista napoletano, allievo di Arangio Ruiz, il quale a Nola, il 9 settembre, fu fucilato dai tedeschi. Ma anche altrove vi furono scontri, fra reparti isolati italiani, i quali agivano ormai spontaneamente, nella mancanza di ordini e di comandanti: a Castellammare, dove quattro ufficiali furono fucilati, a Napoli, dove vi furono scontri il 9 e il 12, in particolare a Castel dell’Ovo, con l’uccisione di vari militari. Poi ebbero luogo le odiose rappresaglie tedesche, in particolare queste che si consumarono contro i marinai, i quali appartenevano a una delle forze armate, che aveva dimostrato di non avere mai dato una effettiva adesione al fascismo. Infatti, dopo l’8 settembre, la flotta italiana navigò verso i porti tenuti dagli alleati.

L’incendio dell’Università

A Napoli in quel giorno, secondo un piano indubbiamente preordinato, come i fatti dimostrano, furono uccisi alcuni marinai in prossimità dell’Università, e i loro corpi abbandonati sulla strada. Nel pomeriggio, reparti tedeschi, con carri armati e autoblinde, occuparono le strade vicino all’Università, spararono all’impazzata contro le case, rastrellarono la popolazione e la costrinsero a recarsi nel corso Umberto, davanti alle scale dell’Università. Vi era anche una persona restata ignota, purtroppo un italiano, un servo dei nazisti, il quale arringava la folla e sosteneva la causa dei tedeschi. Nell’Università non vi era alcuno, e fu un pretesto quello che venne addotto, che erano stati sparati dei colpi dalle case circostanti o dai locali dell’Università. Come è documentato nell’opuscolo che fu pubblicato durante il rettorato di Omodeo, nel 1944, L’Università italiana incendiata dai tedeschi, si trattava di un piano preordinato. Nell’Università, dalla porta di via Mezzocannone, vi era soltanto il custode Allocca ed una avventizia di segreteria, Anna Cavaliere, ai quali venne chiesto di aprire il portone principale. L’ordine non venne eseguito e i tedeschi sfondarono con un colpo di cannone il cancello, entrarono, sparsero materiale incendiario e diedero fuoco all’Università, dopo aver infranto le lapidi che erano state apposte dopo la prima guerra mondiale e ricordavano i soldati italiani caduti per l’ultima guerra di indipendenza del paese.
L’Università venne bruciata e, mentre l’incendio divampava, sulle scale, dove ora abbiamo visto la lapide, venne trascinato un marinaio innocente, un marinaio del quale si ignora ancora il nome – dall’accento pareva un veneto, dicono i testimoni oculari – il quale implorava la madre; fu portato sulle scale dell’Università, posto con le spalle alle fiamme che già avevano invaso i locali e fucilato, mentre la folla atterrita era costretta ad assistere a questo spettacolo.
Che l’incendio fosse preordinato, che si trattasse di un piano messo in essere dal comando tedesco per terrorizzare la popolazione, non vi è il minimo dubbio; lo dimostra l’entità dei reparti che furono impegnati in questa opera, lo dimostra il fatto che, essendo stati avvertiti i pompieri dalle poche persone appunto che io ho ricordato, perché intervenissero a spegnere l’incendio, essi dichiararono di non poterlo fare perché i tedeschi avevano preventivamente ordinato di non muoversi.

L’antifascismo a Napoli

Non va dimenticato che l’Università di Napoli non si era mai piegata al fascismo, nonostante le apparenze, e che l’opposizione della cultura a Napoli era stata più forte e più viva che altrove. Il centro principale di questa opposizione, era costituita dal circolo, per verità ristretto – col progresso del regime fascista le visite di erano diradate – raccolto intorno a Benedetto Croce e alla sua Critica la quale per molti di noi, anche se non di formazione idealista e crociana, rappresentò in quel periodo l’unica voce di libertà che potesse ancora esistere in Italia. Nella stessa Università, non operava solo l’influenza crociana: devo ricordare altri uomini, che sono stati nostri maestri, i quali avevano mantenuto intatta la fede nella libertà e ce la trasmisero. Ricordo come studente, e poi come giovane studioso, di avere conosciuto uomini i quali avevano legato l’attività della scienza anche alla milizia politica: uomini che si chiamavano ad esempio Enrico Presutti, il quale aveva partecipato attivamente alla lotta politica in quel tempo; uomini che si ricongiungevano alla scuola economico-giuridica che in Napoli aveva avuto in Giuseppe Salvioli, uno dei suoi più eminenti rappresentanti; uomini che in vari campi della scienza avevano resistito al fascismo e continuarono a resistere, per tutto il ventennio, e furono di esempio alla gioventù; uomini che si chiamavano, nel campo del diritto penale, Giovanni Lombardi, esponente delle correnti socialiste di pensiero, Arangio Ruiz, liberale progressista, Siro Solazzi, che era venuto a Napoli, dopo che si erano iniziate le persecuzioni contro di lui nel Nord, pensando di trovare a Napoli un ambiente in cui le persecuzioni sarebbero state addolcite dalle tradizioni liberali e più umane della nostra terra. Uomini che ci furono di grande conforto in quel tempo, perché avevano una fede incrollabile nella libertà. Dall’Università di Napoli vennero giovani come Giorgio Amendola, Manlio Rossi Doria, Emilio Sereni, che si erano dati agli studi sull’economia, e ancora Eugenio Reale.
Ricordo i contributi di tanti altri giovani, i quali venivano dalle professioni, mentre non va sottovalutata l’importanza che ebbe nella resistenza al fascismo il fatto che l’avvocatura napoletana e i suoi maestri più grandi, Enrico De Nicola e Giovanni Porzio, pur non assumendo una posizione di lotta attiva contro il fascismo, però non avevano aderito al fascismo. Nell’ambiente forense si svilupparono correnti di pensiero dalle quali dovevano veri fuori giovani che avrebbero poi costituito movimenti cospirativi: quelli che si ricongiungevano alla vecchia tradizione della lotta amendoliana o di Giustizia e Libertà, come Pasquale Schiano, Andrea Reale, Claudio Ferri, Emilio Scaglione e tanti altri; e poi Mario Palermo, Vincenzo La Rocca, Vincenzo Ingangi, tra i comunisti; Lelio Porzio e Luigi Renato Sansone tra i socialisti e così via. L’elenco sarebbe troppo lungo.
Questo voleva dire che non solo esistevano movimenti organizzati di cospirazione antifascista, ma esistevano anche altre forme di resistenza, magari di resistenza passiva, il rifiuto dell’accettazione del fascismo, il che aveva creato il terreno fertile per la nascita della libertà.
È in questo ambiente, nel quale da un lato vi è Napoli devastata dai tedeschi e poi Napoli delle Quattro giornate, e dall’altro ha inizio la ripresa attiva della lotta democratica, che si pone la grande figura di uomo di cultura, di storico e politico ad un tempo, di Adolfo Omodeo, il quale ha dominato le vicende politiche di quel tempo con una passione ideale e una fermezza morale che è raro ritrovare nella politica e nell’azione di ogni giorno.
È probabile anzi che uno dei motivi che spinsero il comando tedesco a disporre l’incendio dell’Università di Napoli sia stato anche il fatto che alla testa di questa Università (era stato nominato il 1° settembre), fosse proprio Adolfo Omodeo, il quale aveva rivolto un proclama agli studenti e in questo proclama, senza eufemismi, aveva condannato la responsabilità dei «capi fallaci», esattamente dicendo nel passo più significativo: «A voi che, lusingati nei sentimenti generosi della grandezza, nelle ambizioni eroiche, nei sogni di gloria, siete stati illusi e traditi da capi fallaci, che vi hanno sviato dalle tradizioni grandi del Risorgimento…». È possibile che nell’Università i tedeschi vedessero un centro di cultura libero, con un Rettore, il quale cominciava a parlare la voce della libertà, e volessero appunto dare una lezione all’intelligenza napoletana, la quale, assieme all’intelligenza più avanzata del paese, veniva fatta responsabile da loro della resa, come si diceva.

La formazione culturale di Omodeo

In questa tragedia di Napoli, distrutta da tutte le parti, nell’eroismo delle Quattro giornate, ma soprattutto nella fatica immane della ricostruzione, ecco dunque che si leva la grande figura di Adolfo Omodeo, il quale ad un tempo è un grande uomo di cultura, ma anche un grande uomo politico.
Egli era nato a Palermo il 18 agosto del 1889; al liceo seguì le lezioni del professore Eugenio Donadoni, all’Università ebbe come maestro uno storico dell’antichità, G. M. Columba e Giovanni Gentile nella filosofia, e proprio alla scuola di Gentile si legò, fu gentiliano, accettò l’attualismo gentiliano. Nel 1922 vinse la cattedra di Storia antica a Palermo, fu nominato a Catania nel 1923 e poi, nello stesso anno, venne a Napoli a insegnare Storia della Chiesa.
La sua prima opera: «Gesù e la storia del Cristianesimo», poi riedita nel 1926 con il titolo «Le origini Cristiane», già rivelava la grandezza di uno storico che riusciva a dare una interpretazione originale delle origini cristiane e della religiosità di Gesù, respingendo altre tesi che, in un campo così straordinariamente suggestivo, erano state formulate nella dottrina, in parte seguendo l’influenza del Loisy, ma senza accettarne la posizione.
Il suo interesse come storico non era limitato però ad un campo solo – questo è un aspetto dei più straordinari della cultura di Adolfo Omodeo – perché già da allora egli immaginava un piano di studi e di ricerche, le quali lo avrebbero portato dal Cristianesimo, dalla Storia antica al Risorgimento. E poi, negli ultimi tempi, stava pensando di tornare ancora alla storia antica, con una ricerca su Atene del quinto secolo, l’Atene di Pericle. Egli non era uno storico dalle vedute unilaterali e dagli interessi circoscritti, ma uno storico il quale riusciva a padroneggiare interamente la Storia antica, la Storia delle religioni, come la Storia dell’età moderna, ed è appunto nella Storia dell’età moderna che si manifestava in lui la forte coerenza dello storico, dell’uomo di cultura, con l’uomo d’azione, con il politico. Questo è il dato che a me pare il più importante della figura di Adolfo Omodeo, questa compenetrazione fra cultura e politica, la quale compenetrazione doveva portarlo poi ad atti che furono importanti, decisivi nella sua vita, anche se compiuti non senza un profondo travaglio intimo, un dramma di coscienza.
Come ho detto, egli aveva seguito la scuola gentiliana, che si differenziava dall’idealismo crociano, e anzi con esso era in polemica. Ma quando il Gentile passò al fascismo e quando Omodeo si rese conto della impossibilità di frenare il suo antico maestro su questa strada, allora la sua rottura fu decisa e non fu solo una rottura sul terreno politico, ma anche sul terreno filosofico e della dottrina. Ecco un esempio importante, caratteristico di una grande coerenza che lega cultura e politica e ne fa tutt’uno. Infatti, egli aveva compreso dall’esperienza politica di quei tempi che l’attualismo gentiliano, lo storicismo formalistico e soggettivistico, come allora si diceva, valeva a giustificare i fatti compiuti e quindi anche il fascismo, in nome del principio, «quello che è deve essere»; siccome il fascismo era, quindi doveva essere, era giusto, quindi bisognava sostenere il fascismo. Omodeo comprese dalla milizia politica l’intimo errore della dottrina gentiliana e, lo ripeto, non senza un dramma intimo, perché a trattare del suo maestro col quale era stato legato per vari anni, decise la rottura, che affermò pubblicamente in una lettera che egli richiese che si pubblicasse sulla rivista «Leonardo»; e ciò, simbolicamente, dopo il 3 gennaio 1926, che rappresentò la trasformazione del fascismo in regime e dopo che il Gentile aveva dato l’avallo della sua autorità a questa trasformazione.
Fu da allora che Adolfo Omodeo si avvicinò a Benedetto Croce e ne divenne il più intimo collaboratore. Come il Croce, in parole rimaste commoventi e memorabili scrisse nel fascicolo dell’Acropoli, la rivista di Omodeo in cui si commemorò la sua grande figura, e se la Critica uscì in quegli anni, si dovette non soltanto all’opera sua, ma all’opera infaticabile di Omodeo il quale, sedendo allo stesso tavolo, assieme al Croce, teneva in vita questa voce di libertà, nella quale, al rigore dell’indagine scientifica e filosofica, si univa la forte coerenza morale.

La milizia nel Partito d’azione

Fu in virtù di questa coerenza morale che Adolfo Omodeo, diede la sua adesione al Partito d’azione, quando questo sorse, vedendo in esso l’erede delle tradizioni risorgimentali alle quali Omodeo aveva cercato di ricollegarsi. La sua posizione è singolare nel Partito d’azione, direi quasi una posizione isolata, perché egli rappresentava il pensiero liberale progressista, ispirato dalla tradizione mazziniana del Risorgimento, e giustamente il Galante Garrone – un giovane con il quale Adolfo Omodeo aveva avuto scambi epistolari durante il ventennio rincuorandolo alla resistenza antifascista – nello scritto commemorativo che ho ricordato, definisce Omodeo l’ultimo grande erede di Mazzini. Il suo pensiero politico emerge con coerenza dall’opera storica, le idee liberali risorgimentali erano rese più vive nell’attualità, e in questo si scontrava con altre correnti di pensiero, e naturalmente con quelle marxiste. Il giudizio di Gramsci è forse un giudizio eccessivo, ingiusto, allorché considera il gruppo Omodeo-Croce come un gruppo retrivo e conservatore. Un tale giudizio, naturalmente, dal punto di vista di un socialista, di un comunista, poteva anche avere una giustificazione politica, ma Gramsci non si rendeva conto di che cosa rappresentasse nella politica italiana e nella resistenza al fascismo, la presenza di una corrente liberale, coerente, progressista, di liberali veri che non si erano piegati in nessun modo, né avevano favorito l’avvento del fascismo.
Questa posizione, che era molto rigorosa nella coerenza del pensiero, guidava Omodeo anche nella milizia del Partito d’Azione, a cui egli cercava di infondere l’ispirazione mazziniana, risorgimentale, combattendo altre posizioni che erano molto presenti, e direi maggioritarie, in quel tempo nel Partito. Omodeo era un uomo duro, combattivo, un uomo di lotta, non temeva di essere nella minoranza del partito, né accettava compromessi o transazioni, allorché erano in gioco idee fondamentali come queste, e quindi si batteva. Anche noi ci battevamo, sebbene giovani; certo con minore autorità di lui e certo rispettosi della sua grande autorità morale e di studioso, però anche noi avevamo le nostre idee e anche noi accanitamente in quei giorni difficili, in quegli anni in cui si trattava di ricostruire tutto dal nulla, ci battevamo per le nostre idee. Erano dibattiti elevati, che stavano al di là delle persone, le quali erano in giuoco soltanto perché espressioni di idee, perché espressioni di correnti di pensiero, non mosse da altri interessi, o anche da ambizioni più o meno legittime della politica.
D’altra parte, la sua avversione alle correnti socialiste era più teorica che pratica: egli riconosceva che le condizioni dell’Italia, in particolare dell’Italia meridionale, altro che socialismo avrebbero richiesto! Emilio Lussu, nel suo libro «Il Partito d’Azione e gli altri», ricordando un colloquio con Omodeo, durante il congresso di Cosenza, sul quale mi fermerò in seguito un momento, racconta di una gita fatta a San Giovanni in Fiore, dove comparivano i ben noti spettacoli di miseria che si vedevano ovunque nel Mezzogiorno in quel tempo, e purtroppo in varie località si vedono ancora oggi. Lussu domandò a Omodeo che cosa pensava, di fronte a questo, del socialismo, e Omodeo rispose: «Ma qui, altro che socialismo ci vorrebbe!».
Ciò vuol dire che la sua idea liberale è una idea progressista, non insensibile ai problemi della società. Ma c’è un’altra testimonianza importante che si ricava da uno scritto di Salvatore Romano, apparso in un opuscolo dell’Università di Trieste, commemorativo di Omodeo, in cui vengono anche rese pubbliche alcune lettere scritte a Collotti. In questo scritto il Romano ricorda che intorno al 1935 un gruppo di giovani comunisti siciliani, tra i quali anche Napoleone Colajanni, scrissero una lettera a Omodeo perché attenuasse il rigore della polemica che la Critica conduceva contro le correnti marxiste, spiegandogli la loro posizione, e Omodeo, quando ricevette questa lettera disse a Croce: «Se i comunisti dicono queste cose, se sono così, allora evidentemente sono diversi da quello che noi abbiamo pensato».

Per l’indipendenza e la ricostruzione del paese

Ma l’opera più importante di Omodeo è nella pratica di tutti i giorni, nella sua milizia, che testimonia sempre di una ferma coerenza del pensiero con l’azione, una coerenza con l’idea della libertà per tutti e quindi anche di giustizia. Ciò lo conduce a polemizzare contro le correnti conservatrici di allora, in primo luogo contro quelle monarchiche badogliane e a prendere posizione nei confronti degli alleati. È un’altra pagina, io credo, che dovrebbe essere molto a fondo ricostruita per descrivere le vicende di allora e l’azione degli alleati. Queste vicende si conoscono nelle grandi linee, ma bisognerebbe approfondirle nei dettagli di ogni giorno.
Gli alleati avevano una politica differenziata: la politica di Churchill era una politica di sostegno alla monarchia e anche a Vittorio Emanuele, la politica americana era diversa, più comprensiva per le istanze repubblicane. Ma gli inglesi e gli americani, nonostante vi fossero state le Quattro giornate, continuavano a considerare sostanzialmente Napoli una zona di occupazione. Le autorità badogliane, anche per la loro mancanza di una base democratica, non erano in grado di far nulla. Le rappresentanze politiche si dovettero impegnare perciò in un’opera quotidiana di rivendicazione dell’indipendenza del paese.
È molto sintomatico quello che ha lasciato scritto Omodeo su vari particolari, su varie vicende. Ma il giudizio più significativo si può trarre da un discorso che egli pronunciò al Circolo «Pensiero e azione», un circolo di intellettuali che egli aveva creato come organismo autonomo nei confronti del partito, sulla politica estera di Churchill, discorso ini cui attaccò vigorosamente la posizione inglese e dimostrò le ragioni per le quali l’Italia condannava la monarchia dei Savoia allo stesso modo in cui aveva condannato il fascismo. Egli sostenne con grande forza una polemica, che era la polemica nostra di tutti i giorni e delle correnti repubblicane più intransigenti, le quali erano persuase che se non si eliminava al più presto la monarchia dall’Italia, e tutto quello che la monarchia aveva significato, sarebbe stata impossibile una ricostruzione democratica.
Anche come rettore la sua opera fu di grandissima importanza. Occorreva riscostruire l’Università dopo la liberazione, farla funzionare; egli cominciò rapidamente con la restaurazione delle cliniche per porle in grado di operare; poi si preoccupò di fare tutto quello che era necessario per l’Università nel suo insieme, fronteggiando grandi difficoltà ed anche l’incomprensione degli stessi studenti, avvelenati dalla propaganda monarco-fascista e badogliana, la quale dirigeva tutti i suoi attacchi contro le forze democratiche, mirando esclusivamente a salvare la monarchia, senza rendersi conto, che non solo storicamente la monarchia era stata condannata per avere aperto le vie al fascismo, ma lo era stata una seconda volta, allorché aveva concluso l’armistizio nei termini in cui venne concluso, lasciando il paese e le forze armate abbandonati a loro stessi e alla mercé dell’invasore tedesco.
Omodeo, nella sua qualità di rettore, di uomo di cultura, di uomo politico, si batteva soprattutto per la ricostruzione perché era convinto che bisognasse operare ogni giorno, e non solo bandire delle teorie. Non nascondeva anzi il suo fastidio – e a distanza di tanto tempo almeno una parte di ragione deve essergli riconosciuta – per le mille discussioni, che egli giudicava abbastanza sterili, che avevano luogo nei partiti, mentre avvertiva la necessità assoluta, urgente di procedere all’azione, perché bisognava ricostruire il paese, moralmente e politicamente, nella sua economia e nelle sue istituzioni.

L’esperienza dell’Acropoli

Vi sono vari scritti molto significativi, magari contenuti in piccole note della rivista che egli fondò allorché, non sul piano teorico, ma sul piano politico, cominciò ad entrare in qualche contrasto e diversità di giudizi con il Croce, il quale capeggiava il movimento liberale. In quel tempo, un movimento liberale andava assumendo sempre di più le caratteristiche di un partito conservatore, che mirava a garantire la continuità dello Stato e il passaggio al nuovo regime in forme tali da mantenere le cose sostanzialmente inalterate, Omodeo comprese che questa sarebbe stata una strada suicida per la democrazia italiana. Fondò l’Acropoli come rivista di cultura, ma soprattutto come una rivista di polemica politica. Una rivista che purtroppo ebbe vita breve, perché la sorte non gli lasciò lungo tempo per continuare la sua opera. Nella primavera, nell’aprile del 1946, una malattia crudele che non si poteva combattere allora, doveva condurlo alla morte.
Nell’Acropoli vi sono scritti molto significativi, contro la continuità dello Stato, ad esempio, che era un tema di grande attualità in quei tempi, per uno Stato profondamente rinnovato, da cui fossero eliminati coloro che avevano avuto responsabilità gravi, nel fascismo e nelle vicende del tempo. È molto importante anche una circolare che egli inviò al personale come rettore, in cui espose le sue opinioni sul tema spinoso e delicato dell’epurazione, lamentando di ricevere denunce e delazioni, molte volte non motivate e precisando i criteri ai quali ci si sarebbe attenuti nel giudizio sui vari casi. Dovevano essere colpiti coloro che avevano compiuto opera di asservimento dell’Università al fascismo, coloro che avevano compiuto delazioni, coloro che si erano resi colpevoli di atti gravi nei confronti dei colleghi, ma non altri i quali, anche se si erano illusi o erano stati deboli, non avevano assunto uguali responsabilità. Più tardi, allorché entrò, come dirò fra breve, nel governo di Salerno, e gli venne offerta la Commissione per l’epurazione, sollecitò misure urgenti e rapide, non le lunghe procedure che poi furono introdotte, che appesantirono enormemente la situazione e impedirono che si compisse l’unica epurazione possibile e giusta, quella che riguardava i grandi responsabili. Egli sosteneva che occorreva colpire rapidamente questi ultimi, eliminarli e chiudere così questo capitolo che invece rimase aperto lungamente, sicché molte volte i maggiori responsabili non furono colpiti, mentre furono colpiti altri che avevano responsabilità minori o trascurabili.
Ma anche su altri temi, l’Acropoli è estremamente interessante per comprendere il pensiero politico di Adolfo Omodeo, il suo giudizio sui partiti, in cui si avverte il prevalere dell’idea della libertà e anche della libertà individuale, la critica ai partiti concepiti come chiese, una critica che poi abbiamo sentito ripetere nel corso degli anni, che si ripete anche oggi, molte volte esagerandola, ma che ha un fondo di vero, nel senso che rivendica il contributo della libera individualità alla vita politica dei partiti.
Stranamente, Omodeo si dichiarava contro la legge proporzionale, alla quale faceva risalire, come del resto molti hanno fatto, alcuni dei mali che colpirono la democrazia. Sul tema delle forze armate, tema estremamente delicato, si intrattenne più volte in quanto, nominato consultore, fece parte della Commissione per la difesa e quindi si occupò direttamente, specificamente di questo argomento lamentando i vizi presenti nelle forze armate. Potremmo dire che essi sono gli stessi di oggi, perché purtroppo il nostro paese in questo campo ha fatto poca strada. Era l’intuizione di chi vedeva la necessità non solo di quella che oggi si chiama, con un termine comune, la democratizzazione delle forze armate, ma di ricondurre, dopo il periodo del fascismo, le forze armate alla tradizione risorgimentale, alle idee risorgimentali e quindi alle idee di libertà che il Risorgimento aveva espresso.
Lungimirante e precorritrice di idee, che dovevano affermarsi più tardi, fu la sua concezione dell’Europa, nella cui unità in forme federative egli vedeva fin da quel tempo il superamento degli egoismi nazionali.
In questioni decisive, la sua posizione fu sempre chiara e netta. Ho già accennato alle polemiche che egli ebbe con il movimento liberale, ciò che gli costava non poca fatica, perché il maggiore degli esponenti del Partito liberale ricostruito era Benedetto Croce, con il quale aveva una intima dimestichezza di lavoro e il comune merito di avere mantenuta viva una voce di libertà in Italia. Ma quando egli vide che il Partito liberale si avviava a difendere interessi che egli riteneva nocivi per la democrazia, non esitò a condurre contro di esso una polemica aspra.

Dalla svolta di Salerno alla crisi del Partito d’azione

Altre polemiche ebbero luogo all’interno del Partito d’Azione, e io debbo ricordarle per evitare che le nostre rievocazioni siano semplicemente apologetiche e prescindano dalla realtà viva come essa è stata. La partecipazione di questo uomo eminente veniva talvolta in contrasto con la nostra più modesta ma certo grande passione. Ci eravamo buttati in quel tempo, nel 1943, nella lotta politica, con la passione dei giovani che avevano atteso per lungo tempo il momento della libertà e ora vedevano che il tempo era venuto e bisognava impegnarsi a fondo. La prima grande questione che emerse nel Partito d’Azione, fu quella della partecipazione al governo di Salerno, al governo Badoglio. Si pensi ai tempi di allora, in cui era in corso una polemica forte, appassionata contro la monarchia, responsabile del fascismo e del tradimento del paese con la fuga, la fuga a Brindisi, e si comprenderà come non si concepisse da parte delle forze antifasciste democratiche, progressiste, la possibilità di una qualunque legittimazione di questo stato di cose, del Re e del governo Badoglio. Su questi temi si sviluppò una grande discussione nel Partito d’Azione, e Omodeo si schierò per la partecipazione. Scriverà poi che egli aveva un disgusto quasi fisico per essa, però riteneva che star fuori dal governo in quella occasione, significava ritardare il momento in cui i partiti democratici avrebbero preso su di loro la responsabilità del potere, voleva dire limitare l’azione che era indispensabile condurre nei confronti dell’egemonia degli alleati, voleva dire una nuova forma di aventinismo; e Omodeo aveva il terrore dell’aventinismo, del ritirarsi dall’azione in attesa che le cose maturassero da sole.
Fu un momento drammatico, lo ricordo ancora, anche se gli anni sono passati, ma un momento in cui non vi fu mai una rottura personale, e questo era anche un segno importante del tempo in cui si riusciva a mantenere il dibattito sul terreno delle idee e dello scontro politico, non sul terreno delle persone. Tanto è vero che chi modestamente vi parla, che si era schierato come molti altri per la tesi intransigente e contraria alla collaborazione, fu chiamato proprio da Omodeo a collaborare a incarichi esecutivi, dopo che egli assunse il Ministero dell’istruzione.
La seconda difficile prova interna, fu quella del Congresso di Cosenza, che venne pochi mesi dopo. Si scontrarono allora le due tesi che dovevano alla fine portare alla dissoluzione del Partito d’Azione e alla fusione della maggioranza col partito socialista, mentre un’altra parte creò il movimento che allora si chiamò di democrazia repubblicana e poi in grande misura passò con il Partito repubblicano.
Il congresso di Cosenza fu un dibattito appassionato e vivo tra chi, come Omodeo, voleva un partito liberale e progressista, non di massa, un partito di élites intellettuali, e pensava che questo fosse possibile e necessario per l’Italia, e chi invece pensava che bisognasse affermare una tendenza socialista. La critica di Omodeo è molto forte, pesante, anzi vi è un giudizio in uno scritto apparso postumo nel suo libro «Libertà e Storia» un giudizio molto duro sulla posizione che io rappresentai nella relazione al Congresso. Omodeo non ammetteva una qualunque possibile confusione tra le sue idee liberali e progressiste e quelle socialiste, non la concepiva, pensava che era un grande errore teorico e politico e pensava anche che il Partito d’Azione non avrebbe potuto essere un partito di massa.
Io debbo dire, a distanza di tanti anni, che egli non aveva ragione quando negava la utilità di una tendenza socialista nel Partito d’Azione, ma aveva ragione quando diceva che quel partito non poteva diventare un partito di massa, per il semplice fatto che i partiti di massa già esistevano e non se ne sarebbe potuto creare un altro. Vi era una singolare convergenza con il giudizio che diede sul Partito d’azione Togliatti, il quale anche pensava alla utilità di questo partito come partito di élite intellettuale di borghesia progressista, non come partito del proletariato, come partito marxista. Comunque il torto tanto di Omodeo quanto di Togliatti, stava nel fatto cioè che noi ci sentivamo socialisti, e volevamo che il partito che avevamo scelto, ritenendolo un partito più combattivo si dichiarasse socialista.
Ad ogni modo, questo fu poi il senso delle ulteriori vicende: Cosenza fu il primo passo, il secondo fu il Congresso di Roma. E con molta logica e coerenza Omodeo non accettò le decisioni della maggioranza del partito, restò con la minoranza e poi uscì pochi mesi prima che la morte prematura lo strappasse alla democrazia italiana alla quale un uomo come lui sarebbe stato di immensa utilità.

La questione istituzionale

Un altro punto ancora vorrei sottolineare perché serve a qualche precisazione di carattere storico, cioè il modo come la questione istituzionale venne affrontata in quel tempo.
Una parte dei partiti del Comitato di liberazione nazionale sosteneva che non vi era nessuna possibilità di collaborazione con la monarchia e chiedevano la proclamazione immediata della repubblica. Un’altra parte invece si opponeva a questa tesi, probabilmente irrealizzabile in quel momento senza il consenso degli alleati. In questo contrasto era nata e si era fatta strada l’idea sostenuta da Croce e da Sforza, di ricercare una soluzione del problema istituzionale con l’abdicazione del Re, la rinuncia di Umberto e la successione del nipotino. Questa tesi, però si urtava anzitutto con il fatto che la monarchia non accettava questa soluzione, poi si urtava con il fatto che gran parte dei partiti politici di allora vedevano in questa proposta un grande pericolo di rafforzamento della monarchia, anziché di soluzione del problema istituzionale. Fu a quel punto che un uomo col quale molti di noi hanno avuto legami profondi, Enrico De Nicola, immaginò una soluzione, che poi fu attuata e che permise alla giovane democrazia italiana, di sciogliere il problema senza molti contrasti: la soluzione cioè, della luogotenenza, che Enrico De Nicola fece accettare da Vittorio Emanuele, il quale pose come condizione soltanto che essa si sarebbe dovuta realizzare al momento della liberazione di Roma.
Vi è una pagina di Omodeo in cui viene sottovalutata la funzione assolta da Enrico De Nicola, e accentuato il merito degli alleati, i quali avrebbero praticamente imposto al Re di sottoscrivere la nomina del luogotenente appena liberata Roma. Ma probabilmente Omodeo non era informato delle vicende come allora si erano svolte e forse aveva una certa naturale diffidenza come studioso, come storico, verso espedienti che potevano avere per lui il sapore delle scappatoie giuridico-formali, mentre erano sì espedienti giuridici, ma rispecchiavano anche una realtà politica molto importante; essendo il paese ancora diviso, era impossibile dare una soluzione definitiva al problema istituzionale.

Un messaggio di libertà

Questa fu in breve l’opera di Omodeo, che io ho cercato di ricordare in sintesi, anche se probabilmente non sono riuscito a dar conto di tutti i molteplici contributi che egli ha dato alla lotta della ricostruzione democratica, in tempi che ormai sono lontani nel ricordo, che la gioventù di oggi non ha conosciuto, ma che furono tempi drammatici, tempi tragici in cui non esisteva più nulla e bisognava creare dal nulla la vita civile. E in questa creazione dal niente Omodeo fu in prima linea, pagando di persona ogni giorno. Forse quest’uomo si era logorato nel lungo periodo di attesa. Quelli che l’hanno conosciuto lo ricordano come un uomo duro nella forma e quasi scontroso, con una malinconia nel volto, che però nascondeva una forte passione morale e civile. Forse si era consumato nella lunga attesa, perché molte volte gli pareva, come egli ha lasciato scritto, che non vi fosse più speranza e sentiva una specie di isolamento. Ma non era un isolamento reale, perché né lui né Croce forse si sono mai resi conto dell’enorme importanza che ha avuto, per migliaia e migliaia di giovani intellettuali, la possibilità di leggere la Critica.
Forse l’uomo si era logorato nella lunga attesa della libertà e più ancora, poi, in quei mesi di attiva partecipazione alla ricostruzione. Forse lo avevano colpito profondamente i dolori familiari, la lunga prigionia del figlio e tante altre cose che possono minare la vita di un uomo. Ma egli sentiva il dovere di dare tutto se stesso, senza risparmio, e lo fece, e dette quanto di meglio la sua natura era in grado di dare al nostro paese. Perciò la sua fine, come molti hanno scritto, dal Croce al Calamandrei a Concetto Marchesi, a Galante Garrone, a Gabriele Pepe e agli studiosi che si sono occupati particolarmente della sua opera, come Aldo Garosci, Romano ed altri fu tra le perdite più gravi per la cultura e la democrazia.
Egli dette, con grande coerenza, tutto quello che poteva e il valore della sua opera rimane, un’opera – come ho detto – in cui pensiero ed azione si fondono in un tutto unico, con una coerenza assoluta. Nella lotta contro gli intellettuali conformisti ci ha lasciato un grande messaggio ideale, che cioè, più di ogni altro, un uomo di cultura ha il dovere di battersi per le idee in cui crede, rifiutando i compromessi e l’opportunismo che sono la fine della libertà: un messaggio di libertà e di forza morale, un messaggio di cui sentiamo ancora oggi la validità, il senso storico, un messaggio che aiuta a dire, guardando le cose di allora e le difficoltà dei nostri tempi che sono grandi, ma guardando anche il cammino che è stato fatto, che se noi oggi non ci sentiamo battuti è anche per il suo insegnamento.

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