di Pietro Rossi – «Mondoperaio», ottobre 1982, pp. 109-115.


Alla presentazione della propria filosofia in termini di storicismo, anzi di «storicismo assoluto», Croce è pervenuto assai tardi, nel corso degli anni ’30, un ventennio circa dopo aver delineato il sistema della «filosofia dello spirito» dapprima nell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), poi nella Logica come scienza del concetto puro (1909) e nella coeva Filosofia della pratica (1908), infine in Teoria e storia della storiografia (pubblicata in tedesco nel 1915 e quindi in italiano nel ’16, ma i cui capitoli erano già apparsi, in varia sede, nel 1912-13). Il testo fondamentale in cui si trova formulata l’equivalenza tra idealismo e storicismo è La storia come pensiero e come azione, una raccolta di saggi del 1938, nella quale Croce enuncia la celebre definizione secondo cui lo storicismo, «nell’uso scientifico della parola, è l’affermazione che la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia», con la corrispondente negazione non soltanto di una «realtà divisa in soprastoria e storia, in un mondo d’idee o di valori, e in un basso mondo che li riflette»[1], ma anche dell’esistenza di una natura distinta dalla storia (essendo la natura nient’altro che una «storia senza storia da noi scritta»)[2].
Questa definizione, in virtù della quale lo storicismo viene contrapposto sia al «razionalismo astratto» della cultura illuministica, «in quanto è più profondamente razionalista di esso»[3], sia all’«ammissione di quel che d’irrazionale è nella vita umana, nell’attenersi all’individuale… e nel proiettare questa visione dell’individuale sullo sfondo della fede religiosa o del religioso mistero»[4] che Croce ritiene centrale nel filone storicistico tedesco che da Ranke sfocia in Meinecke, viene ripresa in un saggio del ’39, Il concetto della filosofia come storicismo assoluto, poi raccolto nel volume Il carattere della filosofia moderna (pubblicato l’anno successivo). In esso Croce si propone di eliminare ogni «residuo di trascendenza e di metafisica» ancora presente nella filosofia idealistica[5], pervenendo in tal modo all’affermazione che «lo spirito non è mai in sé per sé, ma è sempre storicamente»[6]. La «filosofia dello spirito» si trasforma così, attraverso l’identificazione tra filosofia e pensiero storico, in uno storicismo che vede nella storia l’unica realtà e nella conoscenza storica l’unica forma di conoscenza fornita di valore concettuale. E questo storicismo appare, agli occhi di Croce, «il maturo prodotto della storia del pensiero nel suo svolgimento fino a noi»[7], il culmine di un secolare processo di riflessione filosofica.
Se lo storicismo è un approdo piuttosto tardivo dello sviluppo del pensiero crociano, le sue radici affondano nel periodo dell’elaborazione della «filosofia dello spirito», se non in un periodo ancora anteriore. Fin dall’ultimo decennio del secolo scorso, quando il suo interesse cominciò a spostarsi da studi estetico–letterari e storico–eruditi a un terreno più propriamente filosofico, Croce si propose di formulare una teoria della storia e, strettamente collegata con questa, una teoria della storiografia. Lo sforzo di definire lo status della ricerca storica in relazione alla scienza costituisce anzi il punto di partenza di un cammino che, attraverso la partecipazione al dibattito sul materialismo storico e il successivo rovesciamento di posizione determinato dall’incontro con Hegel (e con Gentile), metterà capo al Croce del sistema. La teoria della storiografia antecede quindi la teoria della storia; e se nell’originaria formulazione della prima si manifesta un deciso atteggiamento anti-positivistico, la seconda viene costruita in riferimento al Marx del revisionismo di fine secolo, per poi venir riportata – circa una decennio dopo – a quella matrice hegeliana da cui non si staccherà più.

Filosofia e storiografia

Nel 1893, in una «memoria» accademica su La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, Croce aveva affrontato il problema del «posto» da assegnare alla ricerca storica sulla base della tradizionale dicotomia tra scienza e arte; e in polemica con Pasquale Villari, propugnatore della scientificità della storiografia, era pervenuto a risolverla nell’arte sulla base dell’argomentazione che, mentre la scienza «cerca sempre il generale e lavora per concetti», la ricerca storica «espone ossia racconta i fatti dello svolgimento» anziché determinare leggi generali o avvalersi di queste[8]; cosicché «se la storia non è scienza, dev’essere arte»[9]. In questa maniera Croce non si limitava a respingere l’interpretazione positivistica della storiografia come scienza, ma prendeva anche le distanze dallo sforzo compiuto dalla trattatistica tedesca dell’Ottocento – per esempio dal Droysen del Grundriss der Historik (1858) o dal Bernheim del Lehrbuch der historischen Methode (1889) – di determinare le regole metodiche che devono garantire la peculiare oggettività della ricerca storica. La riduzione all’arte – seppur con la riserva che si tratta di una forma particolare di arte che si occupa «non di ciò ch’è possibile, ma di ciò ch’è realmente accaduto»[10] – poneva infatti le premesse per una dichiarazione di irrilevanza di queste regole e per la sostituzione ad esse di una metodologia filosofica: che è appunto il passo che Croce compirà nella Logica.
Ma nel 1909 il problema del «posto» della ricerca storica viene risolto in termini ben diversi: la storiografia non è più ricondotta al «concetto generale dell’arte», ma viene identificata con la filosofia. Il quadro di riferimento teorico è quello stabilito nell’Estetica: la distinzione tra attività teoretica e attività pratica e, all’interno della prima, tra conoscenza intuitiva (l’arte) e conoscenza logica, cioè mediante concetti (la filosofia). Non più la scienza, bensì la filosofia diventa il termine contrapposto all’arte: all’affermazione del carattere pratico, anzi «economico» della scienza, la quale si avvale di pseudoconcetti corrisponde l’elevazione della filosofia a conoscenza logica, e quindi a momento ulteriore rispetto alla conoscenza intuitiva.
Se nel 1893 era sembrato impossibile ricondurre la storiografia alla scienza, ora si apre la strada alla sua identificazione con la filosofia. Ma ciò vuol dire riconoscerne il carattere concettuale, il carattere di conoscenza dell’individuale sotto la forma dell’universalità. La tesi dell’identità tra giudizio definitorio e giudizio individuale – che conclude la prima della Logica – diventa la base sulla quale Croce afferma la coincidenza tra filosofia e storiografia. La filosofia è sì scienza del concetto puro, cioè analisi delle determinazioni costitutive dello spirito, delle sue forme eterne e del loro rapporto circolare; ma queste forme devono essere impiegate come categorie per qualificare i fatti nella loro individualità. Allora «filosofia e storia non sono già due forme, sibbene una forma sola, e non si condizionano a vicenda, ma addirittura s’identificano… Né la storia precede la filosofia, né la filosofia la storia: l’una e l’altra nascono a un parto. E, se alcuna precedenza o primato si vuole accordare alla filosofia, si può solamente nel senso che l’unica forma, la filosofia-storia, prende il suo carattere, e merita perciò di togliere il nome, non già dall’intuizione ma da ciò che trasfigura l’intuizione: dal pensiero e dalla filosofia»[11].
Un’analoga trasformazione subiva, nel frattempo, anche la teoria della storia che Croce aveva delineato soprattutto nei saggi raccolti in Materialismo storico ed economia marxistica (1899). In una nota del ’95 dedicata alla filosofia della storia – nella quale compare un significativo accenno all’analoga polemica condotta un decennio prima da Dilthey nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften – egli aveva decisamente affermato che la storia è opera degli uomini, che «la storia la facciamo noi stessi, tenendo conto, certo, delle condizioni obiettive nelle quali ci troviamo, ma coi nostri ideali, coi nostri sforzi, con le nostre sofferenze, senza che ci sia consentito scaricare questo fardello sulle spalle di Dio e dell’Idea»[12]. Con ciò il rifiuto delle legittimità di una filosofia della storia coinvolgeva in maniera diretta anche la concezione hegeliana.

Dal marxismo all’idealismo

La simpatia per la dottrina marxistica che il giovane Croce, richiamandosi ai quasi contemporanei scritti di Antonio Labriola, manifesta verso la metà degli anni ’90 si spiega, in primo luogo, col fatto che egli vi scorgeva non già una filosofia della storia, bensì la rivendicazione della dimensione umana del processo storico contro qualsiasi riduzione allo sviluppo di un principio come l’«idea» hegeliana. Posto di fronte all’alternativa tra Hegel e Marx, tra una filosofia che nel corso storico scorgeva il progredire incessante dello «spirito del mondo» e un metodo di spiegazione, un canone interpretativo da impiegare nello studio dei singoli avvenimenti e dei loro rapporti – com’egli considerava il materialismo storico – Croce non ha alcun dubbio: la sua scelta va in favore del secondo, non del primo. E ciò perché Hegel rappresentava allora, ai suoi occhi, la risoluzione della storia concreta in un processo logico, mentre la dottrina marxistica significava il riconoscimento che la storia è fatta dagli uomini, in condizioni reali che devono essere accertate mediante la ricerca storica. E il proposito centrale dei saggi di Materialismo storico ed economia marxistica è appunto quello di mostrare che il materialismo storico non è una filosofia della storia, ma è invece un semplice «canone» d’interpretazione, che il suo merito consiste nell’aver posto in luce l’importanza decisiva, accanto alle condizioni politiche, sociali e d’altro genere, anche delle strutture economiche. Inserendosi nel dibattito che nell’ultimo decennio del secolo si accende in tutta Europa sulla dottrina marxistica, Croce vede in essa una ricerca storico-astratta intorno al processo della società capitalistica, i cui principi possono servire come criteri direttivi per lo studio dei suoi vari aspetti e momenti e devono esser messi alla prova in sede storiografica. Anche quando egli verrà assumendo una posizione più critica nei confronti del marxismo, fino a proclamare nel saggio Marxismo ed economia (1899) l’erroneità del materialismo storico, quell’esperienza si farà sentire ancora nella stessa elaborazione della «filosofia dello spirito» attraverso il riconoscimento del mondo dell’«utile», cioè dei rapporti economici, come forma autonoma di attività spirituale.
Ma proprio questo riconoscimento segnava anche il distacco dall’impostazione di pochi anni prima. Accostandosi alla dottrina marxistica, Croce aveva posto l’accento sulla base «naturale» del processo storico e sulla funzione limitante che le condizioni oggettive esercitano sull’opera umana; nell’Estetica l’accento cade invece sull’autonomia dello spirito rispetto alla natura, in conformità al proposito di edificare un sistema filosofico che si richiama alla tradizione idealistica. E se in questo primo volume della «filosofia dello spirito» la natura permane a fianco dello spirito, come suo presupposto (e antecedente), nella Logica e nella Filosofia della pratica la prospettiva si presenta non solo mutata, ma rovesciata rispetto alle formulazioni degli anni ’90. Alla negazione della validità conoscitiva della scienza fa riscontro quella dell’esistenza della natura come altra dallo spirito: se di natura si può parlare, con questo termine s’intende ormai non già qualcosa di distinto dallo spirito, ma qualcosa di distinto nello spirito, cioè una costruzione astratta che lo spirito stesso effettua a scopi pratici. Anche i cosiddetti eventi naturali appartengono quindi alla vita dello spirito: eliminata la natura come termine medio, l’idea e lo spirito vengono a identificarsi, e lo spirito si traduce in una realtà sostanziale, nel soggetto eterno del processo storico.
Per tale via Croce approda, nella Filosofia della pratica, a riconoscere nello spirito, non più negli individui umani, il soggetto della storia, innalzando ad esso una specie di inno celebratorio. «Con questo indefesso lavoro si viene componendo la trama della Storia, alla quale tutti gl’individui collaborano, ma che non è opera, né può essere nelle intenzioni, di nessuno di essi in particolare, poiché ciascuno è intento al suo lavoro particolare e soltanto nel rem suam agere gestisce insieme gli affari del mondo… Il giudizio della Storia è il fatto stesso della sua esistenza: la razionalità sua è la sua realtà»[13]. Ne derivano due conseguenze, che Croce ribadirà fino ai suoi ultimi scritti: quello del valore strumentale (e, al limite, del carattere puramente simbolico) degli individui, e quello della presenza nel processo storico di una provvidenza immanente, «tale che si attua negli individui e opera non sopra o fuori di lei [della storia, s’intende], ma in lei»[14].

L’influenza hegeliana

Se ci si chiede donde derivi questo duplice, e correlato, mutamento di prospettive, in virtù del quale la ricerca storica è identificata con la filosofia e la storia viene concepita come opera non più dell’azione degli individui ma dello spirito, la risposta è semplice. Esso ha la sua base nel richiamo esplicito al pensiero hegeliano, a cui Croce ha dedicato il saggio Ciò che è vivo è ciò che è morto nella filosofia di Hegel, pubblicato nel 1906 (e poi ristampato, nel ’13, nel Saggio sullo Hegel). Condotto dal suo intento di elaborazione sistematica, e al tempo stesso dalla collaborazione con Gentile, a cercare un fondamento all’impresa della «filosofia dello spirito», egli lo trovava nella tradizione idealistica, e in particolare nell’opera di Hegel. Al di là del tentativo alquanto pretenzioso (perché superiore ai mezzi di cui disponeva) di discriminare in Hegel «ciò che è vivo» e «ciò che è morto», al di là della limitazione della validità della dialettica hegeliana all’interno di ogni singola forma spirituale e della sua sostituzione con il «nesso dei distinti» e con il rapporto circolare tra le varie forme, Croce traeva da Hegel il presupposto dell’identità tra finito e infinito, e di esso si avvaleva per riconoscere che «la storia è la realtà stessa dell’idea» e che «lo spirito non è nulla, fuori del suo svolgimento storico»[15].
In tal modo la logica della storia diventava una logica divina, e la storiografia – concepita non come «giustiziera» ma come «giustificatrice» del passato – assumeva inevitabilmente la funzione di una teodicea. Il volume conclusivo del sistema, cioè Teoria e storia della storiografia, offre perciò una formulazione della teoria della storia e della storiografia sulla base di un impianto hegeliano, che era del tutto estraneo al Croce degli anni ’90, e in parte anche quello dell’Estetica. Muovendo dal postulato che «lo spirito stesso è storia, e in ogni suo momento fattore di storia e risultato insieme di tutta la storia anteriore, cosicché lo spirito reca con sé tutta la sua storia, che coincide poi col sé stesso»[16], Croce perviene a concepire la storiografia come l’auto-rammemorazione che lo spirito compie del suo passato: una rammemorazione rispetto alla quale i documenti sono sì indispensabili, ma non costituiscono nulla più che un’occasione, cioè sono «atti preparatori ch’egli compie, per attuare quella vitale evocazione interiore, nel cui processo si risolvono»[17].
Da ciò la tesi della contemporaneità di ogni storia in quanto distinta dalla cronaca: tesi che significa non soltanto l’emergere della storiografia da un interesse presente, ma anche la sostanziale continuità tra l’atto rammemorativo o «evocativo» dello spirito e il suo passato, integralmente conservato nel corso dello sviluppo storico. La storiografia si presenta in tal modo come la forma esclusiva di conoscenza della realtà, e la filosofia ne diviene il momento metodologico; di modo che «non v’è né la filosofia né la storia né la filosofia della storia, ma la storia che è filosofia e la filosofia che è storia, intrinseca alla storia»[18]. Il giudizio storico è infatti sempre giudizio individuale, nel senso che esso verte su singoli avvenimenti o processi; ma questi vengono al tempo stesso qualificati attraverso il ricorso ai «concetti puri», cioè vengono qualificati come appartenenti alla forma estetica o logica o economica o etica dello spirito. E la filosofia si risolve nella determinazione della struttura dell’attività spirituale, di un’attività che si realizza sempre e soltanto storicamente.

Il soggetto della storia

In quello che è forse il capitolo centrale di Teoria e storia della storiografia, intitolato quasi ex contrario «L’umanità della storia», Croce enuncia in termini drastici quel «provvidenzialismo storicistico» – come lo ha definito Federico Chabod in un saggio ancor oggi fondamentale[19] – al quale rimarrà fedele fino alla morte, e che ispira anche gran parte della sua produzione storiografica. Non l’individuo astratto «e contrapposto, in quanto tale, non solo all’universo, ma anche agli altri uomini, parimenti resi astratti»[20], non l’«empirico e irreale individuo»[21] è il soggetto della storia, come non può esserlo d’altra parte la natura, priva di esistenza autonoma, o un dio trascendente; la storia è invece «l’opera di quell’individuo veramente reale, che è lo spirito eternamente individuantesi»[22]. Già nel saggio hegeliano del 1906 Croce aveva del resto proclamato, con un accento di piena adesione, che «in Hegel tutta la storia diventa storia sacra»[23], in quanto prodotto dello spirito che si viene realizzando attraverso la serie infinita delle sue manifestazioni finite. E pochi anni dopo, nel volume su La filosofia di Giambattista Vico (1911), aveva riaffermato – sottolineando la centralità della nozione di provvidenza, ricondotta a quella hegeliana di razionalità della storia – che «non vi è né l’individuo né l’universale come due cose distinte, ma l’unico corso storico, i cui aspetti astratti sono l’individualità priva di universalità e l’universalità priva di individualità»[24], cioè l’individuo empiricamente considerato e lo spirito scisso dal suo «svolgimento». Nel corso degli anni ’20 questa visione viene ripresa e sviluppata, e il rapporto costitutivo del processo storico diventa non più quello tra lo spirito e gli individui, bensì quello tra lo spirito e le sue opere; tant’è vero che nei Frammenti di etica (1922) l’individuo si trasforma in una «istituzione», analogo a «quelle che si dicono istituzioni sociali o storiche»[25]. All’esaltazione della provvidenza che regge il processo storico si accompagna così la dissoluzione dell’individuo, una dissoluzione che assumerà un aspetto ancor più radicale negli scritti del secondo dopoguerra.
Non mancano certamente, nella produzione filosofica crociana posteriore a Teoria e storia della storiografia, motivi differenti e irriducibili a questa visione provvidenzialistica della storia, i quali traggono origine da una diversa interpretazione della «contemporaneità» della storia. Questi motivi sono presenti soprattutto ne La storia come pensiero e come azione (1938), un’opera non a caso incentrata (com’è detto nell’Avvertenza) «sul rapporto tra storiografia e aziona pratica», e quindi sul processo in virtù del quale lo spirito, pur essendo conservazione integrale del passato, lo traduce in «ricordo» esplicito. Questo processo era rimasto in ombra nell’analisi di Teoria e storia della storiografia, con una conseguente svalutazione dei documenti e delle procedure metodologiche volte ad accertare la verità storica degli eventi del passato. Il Croce degli anni ’30 impegnato a ristabilire il nesso vichiano tra filosofia e filologia, insiste invece sulla genesi pratica della ricerca storica, sul suo costante riferimento – che manca, al contrario, nella cronaca – «al bisogno e alla situazione presente»[26]; d’altra parte egli si propone di analizzare il procedimento attraverso il quale questo bisogno si traduce in un problema che trova la sua soluzione nel giudizio storico. Ne deriva un rapporto tra situazione presente e «bisogno» pratico ad essa inerente, «domanda storiografica»[27] e conoscenza storica – un rapporto attraverso il quale la storiografia «deve superare la vita vissuta per ripresentarla in forma di conoscenza»[28], e diventare la base di una nuova azione pratica indirizzata al futuro.
Un’impostazione del genere ha ben poco in comune con l’auto-rammemorazione che lo spirito compie del proprio passato, di cui parlava Teoria e storia della storiografia; e infatti essa risulta formulata in riferimento non tanto alla continuità ininterrotta della vita dello spirito, quanto all’esigenza di uomini che, essendo «prodotto del passato»[29], devono studiarlo per poter comprendere il presente e agire in maniera razionale tenendo conto del condizionamento che esso impone. Su tale base Croce è pervenuto a concepire la storiografia come «liberazione dalla storia», una liberazione che può realizzarsi soltanto attraverso il pensiero, «che non rompe il rapporto col passato ma sovr’esso s’innalza idealmente e lo converte in conoscenza»[30].

Dal provvidenzialismo allo storicismo assoluto

Questa impostazione coesiste, ne La storia come pensiero e come azione, con la provvidenzialistica della storia, senza che Croce ne avverta le reciproca inconciliabilità. Anzi quest’opera, se da un lato offre una teoria della storiografia enunciata in termini di condizionamento dell’uomo da parte del suo passato e di sforzo di comprensione a scopo liberatorio, dall’altro contiene anche – paradossalmente – l’enunciazione ormai compiuta dello «storicismo assoluto». E non c’è dubbio che, di queste due concezioni in equilibrio precario (e in conflitto latente), sia la seconda a prevalere. Il quadro sistematico della «filosofia dello spirito», pur messo tra parentesi, non viene abbandonato e neppure posto in questione; la teoria della storia come «svolgimento» dello spirito attraverso la circolarità delle sue forme è mantenuta; la stessa rivendicazione di una filosofia come metodologia viene riportata ai termini della Logica e di Teoria e storia della storiografia. Non può quindi sorprendere che anche la definizione della storia come storia della libertà presupponga un concetto di libertà come principio che «ha per sé l’eterno» (come Croce si era espresso nella Storia d’Europa nel secolo decimonono)[31]. La teoria filosofica della libertà, che Croce elabora in questi anni, è una teoria della libertà dello spirito come soggetto della storia, in virtù della quale la concezione liberale non è soltanto una delle «fedi» in conflitto nel corso dell’Ottocento, ma «coincide con una concezione totale del mondo e della realtà»[32]. Essa diventa cioè religione della libertà, una religione che è celebrazione della presenza di Dio nel mondo, vale a dire nella successione degli avvenimenti.
E proprio gli ultimi scritti di Croce, quelli posteriori al ’45, contengono la riaffermazione più insistente della visione provvidenzialistica della storia. Anche se talvolta è dato cogliervi, di fronte a fenomeni come il fascismo e il nazismo, dinanzi al tragico spettacolo della guerra e delle sue conseguenze, l’insorgere di un dubbio sul destino futuro della civiltà, Croce rimane attaccato alla fede nella provvidenza storica, e si sforza di concepire anche decadenza e barbarie come elementi di un piano che sovrasta l’azione degli individui, e che questi devono saper riconoscere anche quando non lo comprendono. Particolarmente significativi sono, sotto questo profilo, i saggi apparsi sui «Quaderni della critica» e raccolti in Filosofia e storiografia (1949) e nelle Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952). Nel ’46, all’indomani del conflitto, Croce si era posto, con un tono di angosciato pessimismo così alieno alla sua quasi goethiana serenità, il problema della fine della civiltà, «della civiltà in universale», e se l’era prospettata come «non l’elevamento ma la rottura della tradizione, l’instaurazione della barbarie»[33]; quasi con rassegnazione aveva confessato lo «sforzo penoso» che richiede il «passare alla diversa visione della civiltà come il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire, e del pregio suo che non è nell’eternità che non possiede, ma nella forza eterna e immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e intensa»[34]
Ma si era trattato di un breve momento di sconforto, che ben presto cederà il passo alla riaffermazione che la storia è opera divina, che «l’attore, l’unico attore della storia è lo spirito del mondo, che procede per creazione di opere individue, ma non ha per suoi impiegati e cooperatori gli individui, i quali, in realtà, fanno tutt’uno con le opere individue che si vengono attuando e, tratti fuori di esse, sono ombra di uomini, vanità che sembrano persone»[35]. Mai Croce aveva espresso in termini così drastici l’insignificanza dell’azione individuale di fronte alla provvidenza storica, riducendo gli individui a meri «simboli» delle opere in cui lo spirito si realizza.

Il distacco dallo storicismo tedesco

Più volte Croce ha amato asserire – e i suoi epigoni, da Carlo Antoni in poi, hanno avallato questa auto-interpretazione – che il suo storicismo costituiva la soluzione di problemi che la cultura filosofica tedesca aveva posto, senza essere stata capace di risolverli[36]. Le cose stanno però ben altrimenti. La teoria crociana della storia e della storiografia è in realtà sostanzialmente eterogenea da quella elaborata dallo storicismo tedesco – sia da quello contemporaneo, che si sviluppa da Dilthey in poi, sia dallo stesso storicismo romantico della prima metà del secolo scorso e dall’impostazione della scuola storica.
L’intento principale dello storicismo tedesco contemporaneo è stato quello di sottoporre ad analisi critica la conoscenza storica (sia essa intesa come il complesso delle «scienze dello spirito» oppure come una forma di conoscenza orientata verso l’individuale) in quanto distinta dalle scienze naturali per il suo oggetto o per il suo procedimento o per entrambi, e di «fondarla» quindi nella sua autonomia. In ciò esso rivela la propria ispirazione kantiana e il rapporto con il movimento neocriticistico: un rapporto più stretto in autori come Windelband e Rickert, più distaccato in altri come Dilthey e Simmel che respingono il terreno trascendentale della sua analisi. Kant, non Hegel, è il termine di riferimento di questo sforzo speculativo; e anche il passaggio dalla critica della ragione storica a una critica «storica» della ragione, quale si compie nell’ultimo Dilthey, si mantiene aderente al presupposto critico secondo il quale la filosofia non coglie direttamente la realtà, ma è riflessione critica sui metodi ed eventualmente sui risultati del sapere positivo, e soltanto per il tramite di questo può penetrare la struttura del mondo storico come della natura.
La teoria crociana della storiografia ha invece, fin dall’inizio, un’impostazione «riduzionistica»: ad essa preme non già riconoscerne l’autonomia dalle altre forme di sapere, ma ricondurla alla filosofia (come nella «memoria» del ’93 all’arte), identificando i due termini. In tal modo la filosofia-storiografia diventa la forma esclusiva di conoscenza, coincidente con la forma logica dell’attività spirituale: il che è reso possibile dall’affermazione del carattere pseudo-concettuale, e quindi puramente «economico», di qualsiasi scienza. La teoria della storiografia viene riportata all’ambito della «filosofia dello spirito», e trova la sua base in una teoria della storia di derivazione hegeliana.
Allo storicismo tedesco contemporaneo è essenziale la distinzione tra due forme di conoscenza scientifica, ancorché caratterizzate da criteri diversi di scientificità: le scienze della natura e le scienze dello spirito nella versione diltheyana, il sapere nomotetico e il sapere idiografico nella versione windelbandiana, poi sviluppata da Rickert, il sapere fondato su leggi proprio della scienza naturale e le scienze storico-sociali nell’impostazione di Max Weber. Sulla base di questa distinzione esso definisce il «posto» della ricerca storica (o delle scienze storico-sociali) nell’edificio conoscitivo, rivendicando ad essa un tipo diverso, ma un egual grado di oggettività rispetto alla conoscenza della natura; e rispetto a entrambe la filosofia assolve un compito di analisi critica, senza però essere ridotta o assimilata all’una o all’altra. Invece Croce, richiamandosi agli orientamenti più radicali (e anche più marcatamente irrazionalistici) della critica della scienza di fine Ottocento, mescolando l’empiriocriticismo con l’antitesi hegeliana tra intelletti e ragione, priva la scienza – le scienze sociali al pari di quelle naturali – di ogni valore conoscitivo, per riservarlo alla storiografia; in tal modo questa, elevata a unica forma di conoscenza, non è oggetto di analisi critica da parte della filosofia, ma viene a coincidere con essa, che le fornisce le categorie con le quali deve qualificare gli avvenimenti. La conoscenza storica perde quindi quell’autonomia che lo storicismo tedesco contemporaneo intendeva garantirle; diventa il sapere filosofico per eccellenza, in grado di cogliere il processo storico sub specie aeternitatis.
Riconoscendo l’autonomia della conoscenza storica nei confronti delle scienze della natura, lo storicismo tedesco riconosceva, al tempo stesso, anche l’esistenza di un’altra sfera di realtà accanto alla storia, da conoscere con procedimenti diversi; e poco importa, in questa sede, che la definisse su base ontologica – come tendeva a fare ancora il Dilthey dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften – oppure su base gnoseologica o puramente metodologica. In ogni caso il mondo della storia non coincideva con la realtà, e la natura era ben lungi dal risolversi nel processo storico. Al contrario, essa era oggetto di spiegazione causale anziché di comprensione, era un mondo privo di rapporto con i valori, era il dominio delle leggi in antitesi a quello dell’individualità, era la realtà considerata dal punto di vista del generale; era cioè qualcosa di strutturalmente differente della storia. In Croce, invece, alla negazione del valore conoscitivo della scienza corrisponde la negazione dell’esistenza di una natura distinta dallo spirito, e quindi da indagare con metodi ad essa propri. La risoluzione della natura nel processo storico gli consente di «superare» il dualismo tra natura e spirito persistente in Hegel, correggendo così la filosofia hegeliana su un punto fondamentale.
Di conseguenza, anche la struttura della storia assume una ben diversa fisionomia. Nello storicismo tedesco contemporaneo la storicità è l’orizzonte specifico del mondo umano, e il processo storico è sempre riconducibile all’opera degli individui e ai loro rapporti. In Dilthey il mondo umano coincide con la storia; la natura non è storica né storicizzabile. E sistemi di cultura, sistemi di organizzazione sociale, epoche storiche sorgono sulla base della cooperazione reciproca che si instaura tra gli individui nel corso delle generazioni. Anche quando egli assume da Hegel la nozione di spirito oggettivo, è ben attento a precisarne il significato: esso non può venir inteso «sulla base della ragione», ma dev’essere inteso «in base alla connessione strutturale delle unità viventi, che si continua nelle comunità»[37], cioè sulla base del processo di realizzazione dell’esperienza vissuta individuale in forme oggettive. In maniera diversa Windelband e poi Rickert si propongono di assicurare la specificità del processo storico riservando ad esso – come, sul piano epistemologico, alla conoscenza storica – una relazione con i valori: se questi posseggono un’esistenza metastorica, sono però gli uomini a realizzarli storicamente, ad assumerli come norma del loro conoscere, del loro agire, del loro sentire. E anche Max Weber, che pur approda al riconoscimento del «politeismo dei valori» negando in tal modo ad essi una validità incondizionata, assume il rapporto tra valori e scelta umana come fondamento per definire il posto dell’uomo nel mondo e la sua stessa storicità. Del resto, l’impostazione della «sociologia comprendente» – qual è stata definita dapprima in un saggio del 1913, poi nel capito introduttivo di Wirtschaft und Gesellschaft – è sotto questo profilo inequivocabile: i rapporti sociali devono essere ricondotti all’agire sociale fornito di senso, cioè all’agire di individui in riferimento ad altri individui. Non esiste quindi una struttura della società, o del processo storico, che sia trascendente o immanente all’attività umana. La posizione di Croce è ancora una volta antitetica: gli individui sono in origine gli «strumenti» dello spirito, per poi diventare semplici «istituzioni» e per ridursi alla fine a «simboli» della sua opera.

L’isolamento dalla cultura europea

In realtà, quando Croce si era accostato al problema della storia e della ricerca storica, la sua elaborazione era ben inserita nello sforzo della cultura filosofica europea di determinare lo status della storiografia e d’impostare un’analisi strutturale del processo storico. Nei suoi scritti degli anni ’90 s’incontrano riferimenti espliciti non soltanto a Droysen e al Lehrbuch di Bernheim, ma anche all’Einleitung in die Geisteswisswenschften di Dilthey, a Die Probleme der Geschichtsphilosophie di Simmel, ai Grenzen der naturwissensschaftlichen Begrittsbildung di Rickert. La stessa tesi del carattere individualizzante della ricerca storica, e la conseguente distinzione di quest’ultima dalla scienza in base all’antitesi tra narrazione di eventi individuali e formulazione di concetti generali, appare in linea con l’impostazione a cui Windelband e Rickert pervenivano, nello stesso periodo, attraverso la critica alla dicotomia diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito. Anche il contributo di Croce alla discussione sul materialismo storico s’inserisce in un dibattito che non è solo italiano ma europeo; e la presentazione che egli ne dà come di un canone di interpretazione storica, capace di aprire nuove direzioni di ricerca, non è molto distante da quella che ne offrirà lo stesso Max Weber pochi anni più tardi, dal 1904 in poi. Il giovane Croce non contrappone alla dottrina marxistica un’interpretazione spiritualistica del processo storico, ed anzi critica anch’egli Stammler; al contrario, cerca di coglierne l’importanza positiva, pur prendendo le distanze da essa.
Le cose mutano nel decennio successivo. Prima la collaborazione con Gentile portatore di una tradizione idealistica alla quale Croce era rimasto fin allora estraneo se non ostile (come dimostra l’avversione per la filosofia della storia di Hegel), poi la lettura sistematica di Hegel e il tentativo di riformarne il pensiero «superando» il dualismo tra natura e spirito, infine il richiamo a una Vico interpretato su base hegeliana lo conducono all’ambizioso programma di una «filosofia dello spirito». Da allora ha inizio il lungo cammino che dall’idealismo metterà capo allo «storicismo assoluto», a uno storicismo fondato su una visione provvidenzialistica della storia.
Già in Teoria e storia della storiografia si può rilevare il crescente isolamento di Croce dal dibattito sulla teoria della storia e della storiografia che si stava svolgendo in altri paesi europei, soprattutto nella cultura filosofica tedesca. Essa non reca traccia – come non ne recheranno le opere successive – della conoscenza dei saggi diltheyani che contengono la più matura formulazione della critica della ragione storica (pubblicati tra il 1905 e il 1911), e meno che mai dei saggi metodologici di Max Weber, cioè dei testi fondamentali dello storicismo tedesco contemporaneo. Weber aveva letto e discusso il Croce della Logica; Croce si limiterà a conoscere il Weber politico, e ne farà tradurre presso Laterza Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland[38]. E quando, negli anni ’30, egli si troverà a fare i conti con Die Entstehung des Historismus di Meinecke, che pur segnava un ripiegamento «romantico» del movimento storicistico tedesco, questa estraneità si estende anche allo storicismo ottocentesco, all’opera della scuola storica tedesca e alle formulazioni teoriche che essa aveva trovato in Ranke. L’opera di Ranke apparirà infatti, al Croce de La storia come pensiero e come azione, un tipico esempio di «storiografia senza problema storico»[39]; e la regola metodica rankiana che prescriveva allo storico di «mostrare le cose come sono effettivamente accadute» sarà radicalmente fraintesa in senso positivistico, anziché essere riconosciuta come il risultato di una direzione di sviluppo della concezione romantica della storia consapevolmente alternativa alla filosofia hegeliana. Il richiamo a Hegel, che aveva impedito a Croce di mantenere aperto il dialogo con lo storicismo tedesco contemporaneo, lo portava a respingere anche lo storicismo romantico e la sua eredità. Non già che la critica di Croce a Meinecke non cogliesse talvolta nel segno; ma nell’insieme essa rivelava l’incapacità di comprendere la tradizione alla quale egli si rifaceva.
Così lo storicismo inteso come «principio logico», anzi come «la categoria stessa della logica»[40], si chiudeva in sé, rompendo i ponti con i grandi filoni dello storicismo europeo, di quello novecentesco come di quello del secolo passato. Questa chiusura era soltanto un aspetto del crescente isolamento di Croce – e, con lui, di gran parte della cultura italiana – rispetto agli orientamenti di pensiero prevalenti nella filosofia europea: dalla reinterpretazione di Hegel avviata da Dilthey nel 1905 al marxismo degli anni ’20, dalla fenomenologia all’esistenzialismo, dalla filosofia analitica al neopositivismo. Sorretto dall’illusoria certezza di trovarsi al culmine dello sviluppo del pensiero, lo storicismo «assoluto» guardava agli altri storicismi con un atteggiamento di superiorità, se non di disprezzo. Ma l’aggettivo aveva finito per vanificare il sostantivo. E oggi, a trent’anni dalla morte di Croce, si può riconoscere, al di fuori di ogni polemica, che il suo storicismo fu, in fondo, un lucus a non lucendo.


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[1] La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1938, p. 51.
[2] È il titolo di un breve saggio raccolto nella stessa opera, pp. 287-92.
[3] Op. cit., p. 53.
[4] Op. cit., p. 52.
[5] Il carattere della filosofia moderna, Bari, Laterza, 1940, p. 18.
[6] Op. cit., p. 22.
[7] Op. cit., p. 1.
[8] Primi saggi, Bari, Laterza, 1981, pp. 16-17.
[9] Op. cit., p. 24.
[10] Op. cit., p. 36.
[11] Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1909, p. 208.
[12] Primi saggi, cit., pp. 67-68.
[13] Filosofia della pratica. Economia ed etica, Bari, Laterza, 2ª ed. 1915, p. 174.
[14] Op. cit., p. 175.
[15] Saggio sullo Hegel, Bari, Laterza, 1913, p. 48.
[16] Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 1916, p. 16.
[17] Ibidem.
[18] Op. cit., p. 71.
[19] F. Chabod, Croce storico, in «Rivista storica italiana», LXIV, 1952, pp. 473-530; ma si veda anche, su una medesima linea interpretativa, il saggio di N. Abbagnano, L’ultimo Croce e il soggetto della storia, in «Rivista di filosofia», XLIV, 1953, pp. 300-13, e il nostro dal titolo Benedetto Croce e lo storicismo assoluto, Milano, Lerici, 1960, pp. 285-330. Tra la più recente letteratura concernente il pensiero crociano è da menzionare soprattutto il fondamentale libro di G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, 1975.
[20] Teoria e storia della storiografia, cit., p. 82.
[21] Op. cit., p. 87.
[22] Ibidem.
[23] Saggio sullo Hegel, cit., p. 48.
[24] La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 1911, p. 117.
[25] Etica e politica, Bari, Laterza, 1931, p. 113.
[26] La storia come pensiero e come azione cit., p. 5.
[27] Op. cit., p. 129.
[28] Op. cit., p. 7.
[29] Op. cit., p. 31.
[30] Ibidem.
[31] Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1932, p. 358.
[32] Etica e politica cit., p. 285.
[33] Filosofia e storiografia, Bari, Laterza, 1949, p. 305.
[34] Op. cit., p. 311.
[35] Op. cit., p. 144.
[36] Si veda, ad esempio, la Storia dell’età barocca in Italia, Bari, Laterza, 1929, p. X.
[37] W. Dilthey, Critica della ragione storica (a cura di P. Rossi), Torino, Einaudi, 1954, p. 240.
[38] Cfr. F. Tessitore, Su Croce e Weber, nel volume Comprensione storica e cultura, Napoli, Guida, 1979, pp. 285-95.
[39] La storia come pensiero e come azione, cit., p. 75: sotto questo titolo Croce colloca due saggi dedicati rispettivamente a Ranke e a Burckhardt.
[40] Op. cit., p. 65.