di Norberto Bobbio – In «Rivista di filosofia», a. XLIV, n. 3, luglio 1953, pp. 247-65; poi in N. Bobbio, “Politica e cultura”, Einaudi, Torino 1955, pp. 100-120; ora in N. Bobbio, “Etica e politica. Scritti di impegno civile”, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2009, pp. 191-213.
1. Il pensiero politico di Croce si muove tra due poli: l’affermazione, da un lato, dell’attività politica come attività economica o forza vitale, e in quanto tale autonoma rispetto alla morale, avente le proprie ragioni e le proprie leggi; l’identificazione, dall’altro, della libertà con la forza morale, che dirige in ultima istanza la politica e con la quale ogni buona politica deve fare i conti. Egli accentuò, a seconda dei tempi, or l’una or l’altra posizione, tanto da essere, con scandalo dei moralisti, fautore dello Stato-potenza durante la Prima guerra mondiale, e, al contrario, esaltatore, a dispetto dei tiranni, tirannelli e loro servitori dell’epoca del fascismo, dell’ideale della libertà. Se vi sia stata coerenza in questa bipolarità, e di qual natura sia stata, è problema su cui varrebbe la pena di soffermarsi; e mi propongo io stesso di ritornarvi in altra occasione.
Mi preme ora di mettere in rilievo che pur nel mutare degli atteggiamenti, vi fu nel pensiero e nelle preoccupazioni di Croce un’idea costante: gli uomini di cultura (nella specie i filosofi) hanno una responsabilità e una funzione politica, in quanto uomini di cultura (o in quanto filosofi). Oggi si parla insistentemente di una «politica della cultura»: con quest’espressione si intende appunto la politica degli uomini di cultura in quanto tali, si vuole dire, cioè, che gli uomini di cultura – quale che sia la politica che essi accettano o promuovono come appartenenti a questo o quel partito – non possono sottrarsi a responsabilità politiche specifiche che derivano proprio dalla loro qualità di uomini di cultura, e dalla consapevolezza che alla cultura spetta pure una funzione di critica, di controllo, di vivificazione e creazione di valori, che è, a breve o lunga scadenza, funzione politica, ed è doverosa ed efficace soprattutto in tempi di crisi e di rinnovamento. Tra tutti i problemi attinenti alla politica che si affacciarono alla mente del Croce nella sua lunga vita, che passò attraverso tempi tranquilli e convulsi, di decadenza e di grandezza, di pace sociale e di guerra civile, il problema della politica della cultura fu quello che egli sentì più profondamente, con tutta la sua coscienza di dotto che è dotto prima di essere uomo pratico o politico, ma che insieme ha un altissimo senso della responsabilità civile del dotto, quando non sia arido erudito, della funzione rischiaratrice della filosofia, quando non sia accademismo o verbalismo o virtuosismo delle idee astratte. E tanto profondamente sentì questo problema che non solo vi si soffermò per teorizzarlo, ma i vari atteggiamenti politici ch’egli assunse furono costantemente accompagnati o sorretti da una considerazione generale della funzione politica degli intellettuali e sono riconducibili e furono da lui stesso consciamente ricondotti ad atteggiamenti di politica della cultura più che di politica militante.
Il Croce si travagliò a lungo, ripetutamente, sul problema dei rapporti tra filosofia e politica. A giudicar dall’insistenza con cui è ritornato sul tema e da certi passi, anzi dal tono generale della sua prima opera autobiografica (Contributo alla critica di me stesso), che egli scrisse in momenti di grave turbamento politico (aprile 1915) quando l’Italia stava per rompere la neutralità, per «abbozzare» la storia della sua vocazione o missione, e cercò di spiegare in qual senso la sua opera, che non era di politico ma di filosofo, aveva pure avuto la sua funzione civile, il travaglio dovette essere profondo, e fu determinato dal contrasto tra la sua inclinazione che lo conduceva ad appartarsi negli studi e il senso del dovere del filosofo di non chiudersi nella torre d’avorio, tra l’egoismo dello studioso soddisfatto del suo isolamento e il dovere del cittadino. Questo contrasto interiore lo indusse a un continuo ripensamento intorno alle conseguenze politiche di una determinata posizione filosofica, e gli fece trovare, di volta in volta, nelle diverse vicende del Paese la «tranquilla coscienza» che il filosofo ha il suo posto di responsabilità nella vita civile. Fu appunto nel chiarimento dei termini e nella elaborazione dei presupposti di questa «tranquilla coscienza», che il Croce venne elaborando, sviluppando e arricchendo la sua teoria della politica della cultura.
Si possono distinguere, io credo, nel suo pensiero tre fasi, diverse ma integrantisi successivamente l’una all’altra, nell’elaborazione di questa teoria, che corrispondono, grosso modo, a tre periodi, il primo comprendente gli anni dagli studi sul marxismo fino alla guerra mondiale, il secondo gli anni della guerra mondiale e l’immediato dopoguerra, il terzo gli anni del fascismo.
2. Il primo modo di intendere i rapporti tra attività filosofica e attività politica fu quello che potremmo dire, con parola dal Croce stesso più volte usata, della specialità o della specificazione.[1] La filosofia appartiene alla sfera teoretica; la politica (intendiamo l’attività del politico, e non, beninteso, la teoria della politica) appartiene alla sfera della pratica. L’una e l’altra sono due forme distinte dell’attività spirituale. Così forte fu nel Croce il senso della «distinzione» delle forme spirituali, che la ritrovò nell’individuo singolo (e in se stesso) come apprezzamento della specificità delle vocazioni. E andò ripetendo, ogni qual volta gli si propose il problema dei doveri del filosofo nella vita civile, che chi aveva vocazione di filosofo, o più semplicemente di uomo di studio badasse a continuare a svolgere, e a svolgere bene, il suo compito di filosofo e di uomo di studio, e che non gli era mai accaduto di avere incontrato nella storia e nella vita un buon filosofo che fosse insieme un buon politico, e viceversa; che se per avventura fosse accaduto di vedere il filosofo darsi alla vita politica e aver successo, c’era da sospettare che fosse stato un mediocre filosofo che avesse finalmente trovato la sua vera vocazione nella direzione della cosa pubblica. Egli stesso cercò di essere fedele a questa «separazione» dei compiti; e non gli costò fatica perché nei non molti incarichi pubblici che egli ebbe pur non avendoli sollecitati, e pure svolse con animo scrupoloso, si trovò a disagio e appena poté sciogliersi dall’impegno tornò sempre con rinnovato ardore e piacere ai prediletti studi.[2]
Cresciuto in ambiente familiare, com’egli stesso racconta nel Contributo, in cui mancava «qualsiasi risonanza di vita pubblica e politica»,[3] con un padre che andava predicando «che i galantuomini debbono badare alla propria famiglia e alle proprie faccende, tenendosi lungi dagli imbrogli della politica»,[4] ebbe il primo fervore politico quando, nel 1895 (aveva ormai quasi trent’anni), si dedicò, tramite il Labriola, allo studio delle opere di Marx. «Ma quell’appassionamento politico e quella fede» egli racconta «non durarono»: […] scemato l’appassionamento, perché natura tamen usque recurrit, e la mia vera natura era quella dell’uomo di studio e di pensiero.»[5] Senonché, ritornò uomo di studio e di pensiero, si potrebbe aggiungere, non solo, come egli dichiara, avendo bruciato l’astratto moralismo con cui si era posto, negli anni precedenti, innanzi alle questioni politiche, ma con la convinzione che l’uomo di studio e di pensiero, restando tale e non facendosi per forza politico, può e deve svolgere un compito utile alla società, che è quello di confutare gli errori, in cui cadono i politici perché soverchiati dall’intento pratico che li muove, e di sgombrare il cammino all’avanzata della verità, di cui gli stessi politici, presto o tardi, potranno giovarsi. Gli si fece chiara in mente l’idea, che lo accompagnò poi per tutta la vita, della distinzione tra il filosofo e il politico, ma insieme della politica che fa il filosofo a modo suo e nel suo campo. Quando il Labriola rimproverava il giovane Croce, da lui avviato agli studi marxistici ma riluttante ad accettare le idee socialiste sul terreno pratico-politico, di essere un letterato indifferente alle lotta della vita, Croce ribatteva che era naturale che un uomo, preso da «una passione taciturna e tenace per la ricerca scientifica», non potesse sentire il socialismo «al modo stesso in cui lo sentiva un uomo di predominante passione e disposizione politica», e conchiudeva appunto richiamandosi alla teoria della «separazione»:
Al Labriola la teoria marxistica del sopravalore e il materialismo storico importavano soprattutto ai fini pratici del socialismo; a me importavano soprattutto al fine di quel che se ne potesse o no trarre per concepire in modo più vivo e pieno la filosofia e intendere meglio la storia.[6]
E se il Labriola si era illuso di trovare nel giovane amico un collega nella difesa del marxismo, egli non si era fatta nessuna illusione in proposito perché «quella che egli [Labriola] chiamava pigrizia di letterato, era in realtà travaglio di pensatore, a suo modo politico nella cerchia sua propria».[7]
Era chiaro ormai che in conseguenza del nuovo interessamento per i problemi politici, di fronte alla consapevolezza, ch’egli non poteva più respingere, dei nessi tra attività del filosofo e politica, e dei doveri che incombevano al filosofo nella vita civile, anche se questi doveri non erano per ciò stesso identici a quelli dell’uomo politico, era chiaro che, pur tenendo distinta l’attività teoretica da quella pratica, si dovesse preoccupare di mostrare, prima di tutto a se stesso e alla sua inquieta coscienza di cittadino, che l’attività filosofica, alla quale era chiamato dalla natura e che non aveva nessuna voglia di sacrificare, neppure in piccola parte, alla operosità dell’uomo pubblico, era, nella cerchia sua propria, politica.
3. Che cosa volesse significare il Croce con questa espressione, bisogna ora cercare d’intendere. È da escludere che egli intendesse che la filosofia deve dettare regole di condotta al politico, o che da una determinata concezione filosofica si potesse ricavare un’ideologia politica, buona a costituire il contenuto di un programma di governo. Su questo punto aveva idee ben nette, quasi ostinate e pugnaci. Non cessò infatti mai dal polemizzare contro la confusione di teoria e pratica, che discende da questo modo meccanico d’intendere i rapporti tra filosofia e politica, e quando parlò sprezzantemente di «cretinismo filosofico» proprio a questo «miscuglio di filosofia e politica» si volle riferire, dandone un esempio caratteristico nella sostituzione dell’astratta proposizione filosofica alla concreta affermazione di fatto e alla determinazione pratica e morale, che nel caso è richiesta, come accade ad esempio a coloro che, partendo dalla proposizione filosofica che le cose umane sono governate dalla forza e che ogni forza è forza spirituale, sentenziano che ogni forza, anche quella del bastone o del pugnale, è forza spirituale.[8]
Attribuendosi la qualità di pensatore politico nella cerchia sua propria, Croce aveva in mente altro. Da un lato, partendo dal concetto della specialità delle funzioni, che era l’opposto del dilettantismo, pensava che la vita civile di una nazione non avesse che da trarre vantaggio dall’avanzamento della cultura, dal chiarimento dei concetti teorici e storici che viene dai buoni specialisti nel campo degli studi. Questo modo ancor generico e a dire il vero poco impegnativo, adatto a tempi di pace, di intendere la funzione civile della filosofia (e in genere degli studi), trovò la più adeguata attuazione nel periodo aureo della «Critica», nel decennio dalla sua fondazione allo scoppio della guerra. Ed il Croce stesso mostrò chiaramente di voler proprio in tal senso interpretare questo periodo della «maturità» raggiunta, scrivendo con un certo compiacimento in un passo, assai significativo, del Contributo:
Ma, nel lavorare alla «Critica», mi si formò la tranquilla coscienza di ritrovarmi al mio posto, di dare il meglio di me, e di compiere opera politica, di politica in senso lato: opera di studioso e di cittadino insieme, così da non arrossire del tutto, come più volte m’era accaduto in passato, innanzi a uomini politici e cittadini socialmente operosi.[9]
Passo significativo, perché ci mostra il Croce men sicuro di sé di quel che la netta teoria del distacco fra la teoria e la politica già ai tempi dell’amicizia col Labriola e degli studi marxistici lasciasse intravvedere, e che in conseguenza di questo senso d’inferiorità, di questo «arrossire», va in cerca di una giustificazione pratica del suo operare.
D’altro canto, parlando di «opera politica», se pure «in senso lato», Croce intendeva, fors’anche, qualcosa di più preciso: intendeva dire che una funzione civile del filosofo era implicita non soltanto nell’opera dello studioso che fa bene l’opera sua, ma proprio nel modo stesso in cui egli aveva ormai considerato e attuato l’opera del filosofo, in quella filosofia che si identifica con la storiografia, di cui proprio al termine di quel primo decennio aveva tracciato il disegno; che, insomma, «opera politica», sì, fosse da attribuire al filosofo, purché fosse quel particolare filosofo che è insieme storico, e trae alimento per il suo filosofare, non diversamente dallo storico, dalla passione civile, onde tutta l’opera sua, lungi dal poter essere scambiata col teorizzare a freddo dei filosofi metafisici o accademici, è sempre formata della materia incandescente dei problemi che di volta in volta la storia pone agli uomini da risolvere, e s’intende agli uomini che hanno intelletto per comprendere e passione per impegnarsi. Il passo più interessante in questo senso, mi par quello finale di una noterella del 1925, nella quale (la polemica con gli intellettuali asserviti al fascismo è ormai avviata), dopo aver reso omaggio alla tesi della specializzazione che è «la sola e soda universalità possibile», e aver commentato che «non si può coltivare gli studi, filosofia, critica, storia, senza possedere, insieme, vivo il senso della politica e ardente l’affetto per la società e per la patria, e fare, dunque, in quel modo specializzato, anche della politica»,[10] spiega – e qui l’esemplificazione non solo chiarisce ma dà un senso pregnante e nuovo al suo pensiero – che la Storia del Regno di Napoli, «la quale pur non sarebbe mai nata senza la sua passione politica e del passato e del presente», è opera propriamente politica, e non già, si badi, nel senso generico che è una buona opera storica e come tale è un servizio reso alla patria, da non mettere al di sotto di quel che compie il politico coi suoi atti pratici, ma nel senso assai più preciso che «quel mio libro va penetrando nelle menti e negli animi, e lo vedo di continuo richiamato, da fascisti e non fascisti, nei problemi che concernono la vita italiana e le condizioni dell’Italia meridionale». E conclude trionfante: «Ed ecco… la mia migliore e più continua opera politica».[11]
Additando nella Storia del Regno di Napoli la propria migliore opera politica, il Croce aveva le sue buone ragioni. Proprio alla fine del libro, come ognuno ricorda (e hanno ricordato e ricordano soprattutto i suoi avversari in storiografia, in particolare i materialisti storici), egli scriveva un cosiffatto elogio degli uomini di dottrina e di pensiero, «i quali compierono quanto di bene si fece in questo Paese, all’anima di questo Paese, quanto gli conferì decoro e nobiltà, quanto gli preparò e gli schiuse un migliore avvenire, e l’unì all’Italia»,[12] da arrivare a dire che la tradizione che mette capo a questi uomini era la sola di cui potesse trar vanto l’Italia meridionale. Non c’era dunque opera che meglio di questa storia potesse mettere a posto la sua coscienza, dal momento che proprio la ricerca di storico gli aveva rivelato che la grande storia la fanno, al di sopra della politica contingente, gli uomini di cultura. E con la sua opera di pensiero egli si riallacciava a quella tradizione, parlava da pari a pari con quei grandi, contribuiva, come loro, al decoro della patria.
Lasciamo da parte il giudizio che si può dare di tale tesi storiografica in sede metodologica. Sta di fatto che, formulandola, il Croce mostrava ormai ben chiaro il concetto dell’importanza della funzione storica degli intellettuali in quanto tali (e non in quanto si facciano, con loro maggiore o minor vantaggio personale, politici), tanto da considerarla addirittura preminente rispetto a quella degli uomini operosi, davanti ai quali gli era toccato, in altri tempi, di arrossire. Era, se si vuole, una rivincita dell’uomo di cultura su gli uomini della politica o della «politicaccia quotidiana», che lasciava trasparire l’inveterato e non superato fastidio per la politica senza aggettivi. Ma era, comunque la si voglia giudicare, l’espressione che si era andata in lui rafforzando della fiducia in una funzione politica della cultura, che gli permetterà di parlare più tardi di una «condizionalità della filosofia per la politica», intendendo con questa espressione l’operare della filosofia nella politica, anche se quest’opera avvenga di solito inconsapevolmente.[13]
4. Questa rivelata e accentuata importanza della funzione storica degli uomini di cultura non poteva restar senza conseguenze rispetto alla questione della responsabilità che gli stessi hanno nella società. La funzione degli uomini di cultura, come si andrà sempre meglio precisando nella mente del Croce sino a diventar succo del suo pensiero nell’ultimo periodo, era di porsi come coscienza morale dell’umanità nel suo sviluppo. Ciò implicava che agli uomini di cultura, soprattutto, spettava di salvaguardare e promuovere i valori che sono appunto «valori di cultura» distinti dai «valori empirici»; e questa difesa e promovimento erano da attuare tanto avverso i teorici astratti, o adoratori della giustizia assoluta che scambiano i valori empirici coi valori assoluti (e si fanno ingiusti), quanto contro i materialisti, o adoratori della forza senza giustizia, che empiricizzano i valori assoluti, e non vedono nulla al di là della patria o del partito nella loro immediatezza e brutalità.[14] Si tenga presente questo chiarimento, che è del 1912, e qualche passo che in questo saggio si legge, come il seguente:
Quanto si ammira chi sacrifica la sua prosperità materiale e la sua vita alla patria o al proprio partito, altrettanto suscita riprovazione e nausea chi all’una o all’altro prenda a sacrificare la verità o la moralità: cose che non gli appartengono, leggi non scritte degli dèi, le quali nessuna legge umana può violare.[15]
E si vedrà che già son poste le basi per quella polemica contro il «tradimento dei chierici», che infiammerà le pagine scritte durante la guerra e costituisce la seconda e più matura fase della consapevolezza che egli acquista della funzione politica della cultura.
La polemica è troppo nota perché vi si debba insistere. Ma sarà bene, alcuni di questi accenti, ricordarli anche oggi che non hanno perduto di attualità, anzi in tempi di guerra ideologica, come i nostri, l’uomo di cultura corre il pericolo di cadere nella tentazione di servire prima il partito o la parte che la verità almeno sette volte al giorno. Già subito in occasione dell’entrata dell’Italia in guerra, Croce scriveva poche ma severe pagine sul dovere degli studiosi, nelle quali, fra l’altro, era detto:
Ma, sopra il dovere stesso verso la patria, c’è il dovere verso la Verità, il quale comprende in sé e giustifica l’altro; e storcere la verità, e improvvisare dottrine […] non sono servigi resi alla patria, ma disdoro recato alla patria, che deve poter contare sulla serietà dei suoi scienziati come sul pudore delle sue donne.[16]
Due anni dopo, cercando di giustificare rispetto ai critici malevoli il suo atteggiamento, spiegava che all’abitudine invalsa di «sofisticare la scienza stessa sotto pretesto di rendere servigio alla causa della patria», egli aveva contrapposto l’aurea massima «che tutto sia doveroso dare per la patria, salvo la moralità e la verità, che non sono cose che appartengono agli individui e di cui perciò questi possano a loro grado disporre».[17] E infine, alcuni anni dopo, ricordando quel periodo, riesprimeva la propria protesta in questi termini:
Nell’ultima guerra si è visto, come in una vasta esperienza, con quanta cedevolezza un gran numero di studiosi di tutte le nazioni si siano dati a sostenere cose di cui essi non potevano ignorare la falsità, a foggiare teorie che conoscevano artificiose e sofistiche, a disdire vergognosamente quanto avevano per lunghi anni affermato e dimostrato; e s’immaginavano così di adempiere il loro dovere di buoni patrioti, quasi che la patria possa mai giovarsi del disonore di cui si coprono i suoi figli, della corruttela che introducono nelle loro anime.[18]
Di fronte a tale atteggiamento era facile muovere il rimprovero che l’intellettuale è anch’egli cittadino, e con la sua pretesa di imparzialità o peggio di neutralità, finisce di muoversi a vuoto e nel vuoto e di rimanere inerte e sterile contemplatore degli eventi con la sua dottrina fatta di superbia, di rancore e di morta saggezza. Ma Croce badava a rispondere anche a questa obiezione, distinguendo il proprio atteggiamento da quello di Romain Rolland, banditore della formula «al di sopra della mischia», come più tardi lo distinguerà da quello del Benda, denunciatore del «tradimento dei chierici». Rispetto al Rolland, all’«ottimo» Rolland, egli chiariva che non aveva affatto inteso porsi al di sopra della mischia nella sfera politica, dove valgono passioni ed affetti, e dove l’uomo politico deve prendere decisioni che sono sempre impegnative, bensì nel campo teoretico e scientifico, «perché l’arte e la scienza, a quanto finora ci si era detto, sono appunto le due forme con le quali lo spirito umano esce di continuo e si mette in perpetuo di sopra alla mêlée o tumulto della pratica».[19] Ciò voleva dire che la serietà teoretica non escludeva l’impegno politico. Rispetto poi al Benda, accettava la polemica contro i chierici traditori, che erano quei materialisti della politica, di cui aveva parlato sin dalla nota del 1912, che operano lo «scambio o sofisma di attribuire valore assoluto ai concetti empirici di nazione, classe e simili, innalzandoli a categorie spirituali»,[20] ma respingeva il dualismo tra valori spirituali e valori pratici con cui il Benda separava, senza possibilità di sintesi, i chierici dai laici. E proprio qui additava il pericolo della purezza che è vuotaggine, della libertà astratta che è morte del pensiero, affermando che chi si fosse distaccato dalla vita politica ed economica, disprezzandola, non avrebbe trovato di che dare alimento ai propri pensieri.[21]
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