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    Predefinito Croce e la politica della cultura

    di Norberto Bobbio – In «Rivista di filosofia», a. XLIV, n. 3, luglio 1953, pp. 247-65; poi in N. Bobbio, “Politica e cultura”, Einaudi, Torino 1955, pp. 100-120; ora in N. Bobbio, “Etica e politica. Scritti di impegno civile”, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2009, pp. 191-213.



    1. Il pensiero politico di Croce si muove tra due poli: l’affermazione, da un lato, dell’attività politica come attività economica o forza vitale, e in quanto tale autonoma rispetto alla morale, avente le proprie ragioni e le proprie leggi; l’identificazione, dall’altro, della libertà con la forza morale, che dirige in ultima istanza la politica e con la quale ogni buona politica deve fare i conti. Egli accentuò, a seconda dei tempi, or l’una or l’altra posizione, tanto da essere, con scandalo dei moralisti, fautore dello Stato-potenza durante la Prima guerra mondiale, e, al contrario, esaltatore, a dispetto dei tiranni, tirannelli e loro servitori dell’epoca del fascismo, dell’ideale della libertà. Se vi sia stata coerenza in questa bipolarità, e di qual natura sia stata, è problema su cui varrebbe la pena di soffermarsi; e mi propongo io stesso di ritornarvi in altra occasione.
    Mi preme ora di mettere in rilievo che pur nel mutare degli atteggiamenti, vi fu nel pensiero e nelle preoccupazioni di Croce un’idea costante: gli uomini di cultura (nella specie i filosofi) hanno una responsabilità e una funzione politica, in quanto uomini di cultura (o in quanto filosofi). Oggi si parla insistentemente di una «politica della cultura»: con quest’espressione si intende appunto la politica degli uomini di cultura in quanto tali, si vuole dire, cioè, che gli uomini di cultura – quale che sia la politica che essi accettano o promuovono come appartenenti a questo o quel partito – non possono sottrarsi a responsabilità politiche specifiche che derivano proprio dalla loro qualità di uomini di cultura, e dalla consapevolezza che alla cultura spetta pure una funzione di critica, di controllo, di vivificazione e creazione di valori, che è, a breve o lunga scadenza, funzione politica, ed è doverosa ed efficace soprattutto in tempi di crisi e di rinnovamento. Tra tutti i problemi attinenti alla politica che si affacciarono alla mente del Croce nella sua lunga vita, che passò attraverso tempi tranquilli e convulsi, di decadenza e di grandezza, di pace sociale e di guerra civile, il problema della politica della cultura fu quello che egli sentì più profondamente, con tutta la sua coscienza di dotto che è dotto prima di essere uomo pratico o politico, ma che insieme ha un altissimo senso della responsabilità civile del dotto, quando non sia arido erudito, della funzione rischiaratrice della filosofia, quando non sia accademismo o verbalismo o virtuosismo delle idee astratte. E tanto profondamente sentì questo problema che non solo vi si soffermò per teorizzarlo, ma i vari atteggiamenti politici ch’egli assunse furono costantemente accompagnati o sorretti da una considerazione generale della funzione politica degli intellettuali e sono riconducibili e furono da lui stesso consciamente ricondotti ad atteggiamenti di politica della cultura più che di politica militante.
    Il Croce si travagliò a lungo, ripetutamente, sul problema dei rapporti tra filosofia e politica. A giudicar dall’insistenza con cui è ritornato sul tema e da certi passi, anzi dal tono generale della sua prima opera autobiografica (Contributo alla critica di me stesso), che egli scrisse in momenti di grave turbamento politico (aprile 1915) quando l’Italia stava per rompere la neutralità, per «abbozzare» la storia della sua vocazione o missione, e cercò di spiegare in qual senso la sua opera, che non era di politico ma di filosofo, aveva pure avuto la sua funzione civile, il travaglio dovette essere profondo, e fu determinato dal contrasto tra la sua inclinazione che lo conduceva ad appartarsi negli studi e il senso del dovere del filosofo di non chiudersi nella torre d’avorio, tra l’egoismo dello studioso soddisfatto del suo isolamento e il dovere del cittadino. Questo contrasto interiore lo indusse a un continuo ripensamento intorno alle conseguenze politiche di una determinata posizione filosofica, e gli fece trovare, di volta in volta, nelle diverse vicende del Paese la «tranquilla coscienza» che il filosofo ha il suo posto di responsabilità nella vita civile. Fu appunto nel chiarimento dei termini e nella elaborazione dei presupposti di questa «tranquilla coscienza», che il Croce venne elaborando, sviluppando e arricchendo la sua teoria della politica della cultura.
    Si possono distinguere, io credo, nel suo pensiero tre fasi, diverse ma integrantisi successivamente l’una all’altra, nell’elaborazione di questa teoria, che corrispondono, grosso modo, a tre periodi, il primo comprendente gli anni dagli studi sul marxismo fino alla guerra mondiale, il secondo gli anni della guerra mondiale e l’immediato dopoguerra, il terzo gli anni del fascismo.


    2. Il primo modo di intendere i rapporti tra attività filosofica e attività politica fu quello che potremmo dire, con parola dal Croce stesso più volte usata, della specialità o della specificazione.[1] La filosofia appartiene alla sfera teoretica; la politica (intendiamo l’attività del politico, e non, beninteso, la teoria della politica) appartiene alla sfera della pratica. L’una e l’altra sono due forme distinte dell’attività spirituale. Così forte fu nel Croce il senso della «distinzione» delle forme spirituali, che la ritrovò nell’individuo singolo (e in se stesso) come apprezzamento della specificità delle vocazioni. E andò ripetendo, ogni qual volta gli si propose il problema dei doveri del filosofo nella vita civile, che chi aveva vocazione di filosofo, o più semplicemente di uomo di studio badasse a continuare a svolgere, e a svolgere bene, il suo compito di filosofo e di uomo di studio, e che non gli era mai accaduto di avere incontrato nella storia e nella vita un buon filosofo che fosse insieme un buon politico, e viceversa; che se per avventura fosse accaduto di vedere il filosofo darsi alla vita politica e aver successo, c’era da sospettare che fosse stato un mediocre filosofo che avesse finalmente trovato la sua vera vocazione nella direzione della cosa pubblica. Egli stesso cercò di essere fedele a questa «separazione» dei compiti; e non gli costò fatica perché nei non molti incarichi pubblici che egli ebbe pur non avendoli sollecitati, e pure svolse con animo scrupoloso, si trovò a disagio e appena poté sciogliersi dall’impegno tornò sempre con rinnovato ardore e piacere ai prediletti studi.[2]
    Cresciuto in ambiente familiare, com’egli stesso racconta nel Contributo, in cui mancava «qualsiasi risonanza di vita pubblica e politica»,[3] con un padre che andava predicando «che i galantuomini debbono badare alla propria famiglia e alle proprie faccende, tenendosi lungi dagli imbrogli della politica»,[4] ebbe il primo fervore politico quando, nel 1895 (aveva ormai quasi trent’anni), si dedicò, tramite il Labriola, allo studio delle opere di Marx. «Ma quell’appassionamento politico e quella fede» egli racconta «non durarono»: […] scemato l’appassionamento, perché natura tamen usque recurrit, e la mia vera natura era quella dell’uomo di studio e di pensiero.»[5] Senonché, ritornò uomo di studio e di pensiero, si potrebbe aggiungere, non solo, come egli dichiara, avendo bruciato l’astratto moralismo con cui si era posto, negli anni precedenti, innanzi alle questioni politiche, ma con la convinzione che l’uomo di studio e di pensiero, restando tale e non facendosi per forza politico, può e deve svolgere un compito utile alla società, che è quello di confutare gli errori, in cui cadono i politici perché soverchiati dall’intento pratico che li muove, e di sgombrare il cammino all’avanzata della verità, di cui gli stessi politici, presto o tardi, potranno giovarsi. Gli si fece chiara in mente l’idea, che lo accompagnò poi per tutta la vita, della distinzione tra il filosofo e il politico, ma insieme della politica che fa il filosofo a modo suo e nel suo campo. Quando il Labriola rimproverava il giovane Croce, da lui avviato agli studi marxistici ma riluttante ad accettare le idee socialiste sul terreno pratico-politico, di essere un letterato indifferente alle lotta della vita, Croce ribatteva che era naturale che un uomo, preso da «una passione taciturna e tenace per la ricerca scientifica», non potesse sentire il socialismo «al modo stesso in cui lo sentiva un uomo di predominante passione e disposizione politica», e conchiudeva appunto richiamandosi alla teoria della «separazione»:


    Al Labriola la teoria marxistica del sopravalore e il materialismo storico importavano soprattutto ai fini pratici del socialismo; a me importavano soprattutto al fine di quel che se ne potesse o no trarre per concepire in modo più vivo e pieno la filosofia e intendere meglio la storia.[6]



    E se il Labriola si era illuso di trovare nel giovane amico un collega nella difesa del marxismo, egli non si era fatta nessuna illusione in proposito perché «quella che egli [Labriola] chiamava pigrizia di letterato, era in realtà travaglio di pensatore, a suo modo politico nella cerchia sua propria».[7]
    Era chiaro ormai che in conseguenza del nuovo interessamento per i problemi politici, di fronte alla consapevolezza, ch’egli non poteva più respingere, dei nessi tra attività del filosofo e politica, e dei doveri che incombevano al filosofo nella vita civile, anche se questi doveri non erano per ciò stesso identici a quelli dell’uomo politico, era chiaro che, pur tenendo distinta l’attività teoretica da quella pratica, si dovesse preoccupare di mostrare, prima di tutto a se stesso e alla sua inquieta coscienza di cittadino, che l’attività filosofica, alla quale era chiamato dalla natura e che non aveva nessuna voglia di sacrificare, neppure in piccola parte, alla operosità dell’uomo pubblico, era, nella cerchia sua propria, politica.
    3. Che cosa volesse significare il Croce con questa espressione, bisogna ora cercare d’intendere. È da escludere che egli intendesse che la filosofia deve dettare regole di condotta al politico, o che da una determinata concezione filosofica si potesse ricavare un’ideologia politica, buona a costituire il contenuto di un programma di governo. Su questo punto aveva idee ben nette, quasi ostinate e pugnaci. Non cessò infatti mai dal polemizzare contro la confusione di teoria e pratica, che discende da questo modo meccanico d’intendere i rapporti tra filosofia e politica, e quando parlò sprezzantemente di «cretinismo filosofico» proprio a questo «miscuglio di filosofia e politica» si volle riferire, dandone un esempio caratteristico nella sostituzione dell’astratta proposizione filosofica alla concreta affermazione di fatto e alla determinazione pratica e morale, che nel caso è richiesta, come accade ad esempio a coloro che, partendo dalla proposizione filosofica che le cose umane sono governate dalla forza e che ogni forza è forza spirituale, sentenziano che ogni forza, anche quella del bastone o del pugnale, è forza spirituale.[8]
    Attribuendosi la qualità di pensatore politico nella cerchia sua propria, Croce aveva in mente altro. Da un lato, partendo dal concetto della specialità delle funzioni, che era l’opposto del dilettantismo, pensava che la vita civile di una nazione non avesse che da trarre vantaggio dall’avanzamento della cultura, dal chiarimento dei concetti teorici e storici che viene dai buoni specialisti nel campo degli studi. Questo modo ancor generico e a dire il vero poco impegnativo, adatto a tempi di pace, di intendere la funzione civile della filosofia (e in genere degli studi), trovò la più adeguata attuazione nel periodo aureo della «Critica», nel decennio dalla sua fondazione allo scoppio della guerra. Ed il Croce stesso mostrò chiaramente di voler proprio in tal senso interpretare questo periodo della «maturità» raggiunta, scrivendo con un certo compiacimento in un passo, assai significativo, del Contributo:


    Ma, nel lavorare alla «Critica», mi si formò la tranquilla coscienza di ritrovarmi al mio posto, di dare il meglio di me, e di compiere opera politica, di politica in senso lato: opera di studioso e di cittadino insieme, così da non arrossire del tutto, come più volte m’era accaduto in passato, innanzi a uomini politici e cittadini socialmente operosi.[9]



    Passo significativo, perché ci mostra il Croce men sicuro di sé di quel che la netta teoria del distacco fra la teoria e la politica già ai tempi dell’amicizia col Labriola e degli studi marxistici lasciasse intravvedere, e che in conseguenza di questo senso d’inferiorità, di questo «arrossire», va in cerca di una giustificazione pratica del suo operare.
    D’altro canto, parlando di «opera politica», se pure «in senso lato», Croce intendeva, fors’anche, qualcosa di più preciso: intendeva dire che una funzione civile del filosofo era implicita non soltanto nell’opera dello studioso che fa bene l’opera sua, ma proprio nel modo stesso in cui egli aveva ormai considerato e attuato l’opera del filosofo, in quella filosofia che si identifica con la storiografia, di cui proprio al termine di quel primo decennio aveva tracciato il disegno; che, insomma, «opera politica», sì, fosse da attribuire al filosofo, purché fosse quel particolare filosofo che è insieme storico, e trae alimento per il suo filosofare, non diversamente dallo storico, dalla passione civile, onde tutta l’opera sua, lungi dal poter essere scambiata col teorizzare a freddo dei filosofi metafisici o accademici, è sempre formata della materia incandescente dei problemi che di volta in volta la storia pone agli uomini da risolvere, e s’intende agli uomini che hanno intelletto per comprendere e passione per impegnarsi. Il passo più interessante in questo senso, mi par quello finale di una noterella del 1925, nella quale (la polemica con gli intellettuali asserviti al fascismo è ormai avviata), dopo aver reso omaggio alla tesi della specializzazione che è «la sola e soda universalità possibile», e aver commentato che «non si può coltivare gli studi, filosofia, critica, storia, senza possedere, insieme, vivo il senso della politica e ardente l’affetto per la società e per la patria, e fare, dunque, in quel modo specializzato, anche della politica»,[10] spiega – e qui l’esemplificazione non solo chiarisce ma dà un senso pregnante e nuovo al suo pensiero – che la Storia del Regno di Napoli, «la quale pur non sarebbe mai nata senza la sua passione politica e del passato e del presente», è opera propriamente politica, e non già, si badi, nel senso generico che è una buona opera storica e come tale è un servizio reso alla patria, da non mettere al di sotto di quel che compie il politico coi suoi atti pratici, ma nel senso assai più preciso che «quel mio libro va penetrando nelle menti e negli animi, e lo vedo di continuo richiamato, da fascisti e non fascisti, nei problemi che concernono la vita italiana e le condizioni dell’Italia meridionale». E conclude trionfante: «Ed ecco… la mia migliore e più continua opera politica».[11]
    Additando nella Storia del Regno di Napoli la propria migliore opera politica, il Croce aveva le sue buone ragioni. Proprio alla fine del libro, come ognuno ricorda (e hanno ricordato e ricordano soprattutto i suoi avversari in storiografia, in particolare i materialisti storici), egli scriveva un cosiffatto elogio degli uomini di dottrina e di pensiero, «i quali compierono quanto di bene si fece in questo Paese, all’anima di questo Paese, quanto gli conferì decoro e nobiltà, quanto gli preparò e gli schiuse un migliore avvenire, e l’unì all’Italia»,[12] da arrivare a dire che la tradizione che mette capo a questi uomini era la sola di cui potesse trar vanto l’Italia meridionale. Non c’era dunque opera che meglio di questa storia potesse mettere a posto la sua coscienza, dal momento che proprio la ricerca di storico gli aveva rivelato che la grande storia la fanno, al di sopra della politica contingente, gli uomini di cultura. E con la sua opera di pensiero egli si riallacciava a quella tradizione, parlava da pari a pari con quei grandi, contribuiva, come loro, al decoro della patria.
    Lasciamo da parte il giudizio che si può dare di tale tesi storiografica in sede metodologica. Sta di fatto che, formulandola, il Croce mostrava ormai ben chiaro il concetto dell’importanza della funzione storica degli intellettuali in quanto tali (e non in quanto si facciano, con loro maggiore o minor vantaggio personale, politici), tanto da considerarla addirittura preminente rispetto a quella degli uomini operosi, davanti ai quali gli era toccato, in altri tempi, di arrossire. Era, se si vuole, una rivincita dell’uomo di cultura su gli uomini della politica o della «politicaccia quotidiana», che lasciava trasparire l’inveterato e non superato fastidio per la politica senza aggettivi. Ma era, comunque la si voglia giudicare, l’espressione che si era andata in lui rafforzando della fiducia in una funzione politica della cultura, che gli permetterà di parlare più tardi di una «condizionalità della filosofia per la politica», intendendo con questa espressione l’operare della filosofia nella politica, anche se quest’opera avvenga di solito inconsapevolmente.[13]



    4. Questa rivelata e accentuata importanza della funzione storica degli uomini di cultura non poteva restar senza conseguenze rispetto alla questione della responsabilità che gli stessi hanno nella società. La funzione degli uomini di cultura, come si andrà sempre meglio precisando nella mente del Croce sino a diventar succo del suo pensiero nell’ultimo periodo, era di porsi come coscienza morale dell’umanità nel suo sviluppo. Ciò implicava che agli uomini di cultura, soprattutto, spettava di salvaguardare e promuovere i valori che sono appunto «valori di cultura» distinti dai «valori empirici»; e questa difesa e promovimento erano da attuare tanto avverso i teorici astratti, o adoratori della giustizia assoluta che scambiano i valori empirici coi valori assoluti (e si fanno ingiusti), quanto contro i materialisti, o adoratori della forza senza giustizia, che empiricizzano i valori assoluti, e non vedono nulla al di là della patria o del partito nella loro immediatezza e brutalità.[14] Si tenga presente questo chiarimento, che è del 1912, e qualche passo che in questo saggio si legge, come il seguente:


    Quanto si ammira chi sacrifica la sua prosperità materiale e la sua vita alla patria o al proprio partito, altrettanto suscita riprovazione e nausea chi all’una o all’altro prenda a sacrificare la verità o la moralità: cose che non gli appartengono, leggi non scritte degli dèi, le quali nessuna legge umana può violare.[15]



    E si vedrà che già son poste le basi per quella polemica contro il «tradimento dei chierici», che infiammerà le pagine scritte durante la guerra e costituisce la seconda e più matura fase della consapevolezza che egli acquista della funzione politica della cultura.
    La polemica è troppo nota perché vi si debba insistere. Ma sarà bene, alcuni di questi accenti, ricordarli anche oggi che non hanno perduto di attualità, anzi in tempi di guerra ideologica, come i nostri, l’uomo di cultura corre il pericolo di cadere nella tentazione di servire prima il partito o la parte che la verità almeno sette volte al giorno. Già subito in occasione dell’entrata dell’Italia in guerra, Croce scriveva poche ma severe pagine sul dovere degli studiosi, nelle quali, fra l’altro, era detto:


    Ma, sopra il dovere stesso verso la patria, c’è il dovere verso la Verità, il quale comprende in sé e giustifica l’altro; e storcere la verità, e improvvisare dottrine […] non sono servigi resi alla patria, ma disdoro recato alla patria, che deve poter contare sulla serietà dei suoi scienziati come sul pudore delle sue donne.[16]



    Due anni dopo, cercando di giustificare rispetto ai critici malevoli il suo atteggiamento, spiegava che all’abitudine invalsa di «sofisticare la scienza stessa sotto pretesto di rendere servigio alla causa della patria», egli aveva contrapposto l’aurea massima «che tutto sia doveroso dare per la patria, salvo la moralità e la verità, che non sono cose che appartengono agli individui e di cui perciò questi possano a loro grado disporre».[17] E infine, alcuni anni dopo, ricordando quel periodo, riesprimeva la propria protesta in questi termini:


    Nell’ultima guerra si è visto, come in una vasta esperienza, con quanta cedevolezza un gran numero di studiosi di tutte le nazioni si siano dati a sostenere cose di cui essi non potevano ignorare la falsità, a foggiare teorie che conoscevano artificiose e sofistiche, a disdire vergognosamente quanto avevano per lunghi anni affermato e dimostrato; e s’immaginavano così di adempiere il loro dovere di buoni patrioti, quasi che la patria possa mai giovarsi del disonore di cui si coprono i suoi figli, della corruttela che introducono nelle loro anime.[18]



    Di fronte a tale atteggiamento era facile muovere il rimprovero che l’intellettuale è anch’egli cittadino, e con la sua pretesa di imparzialità o peggio di neutralità, finisce di muoversi a vuoto e nel vuoto e di rimanere inerte e sterile contemplatore degli eventi con la sua dottrina fatta di superbia, di rancore e di morta saggezza. Ma Croce badava a rispondere anche a questa obiezione, distinguendo il proprio atteggiamento da quello di Romain Rolland, banditore della formula «al di sopra della mischia», come più tardi lo distinguerà da quello del Benda, denunciatore del «tradimento dei chierici». Rispetto al Rolland, all’«ottimo» Rolland, egli chiariva che non aveva affatto inteso porsi al di sopra della mischia nella sfera politica, dove valgono passioni ed affetti, e dove l’uomo politico deve prendere decisioni che sono sempre impegnative, bensì nel campo teoretico e scientifico, «perché l’arte e la scienza, a quanto finora ci si era detto, sono appunto le due forme con le quali lo spirito umano esce di continuo e si mette in perpetuo di sopra alla mêlée o tumulto della pratica».[19] Ciò voleva dire che la serietà teoretica non escludeva l’impegno politico. Rispetto poi al Benda, accettava la polemica contro i chierici traditori, che erano quei materialisti della politica, di cui aveva parlato sin dalla nota del 1912, che operano lo «scambio o sofisma di attribuire valore assoluto ai concetti empirici di nazione, classe e simili, innalzandoli a categorie spirituali»,[20] ma respingeva il dualismo tra valori spirituali e valori pratici con cui il Benda separava, senza possibilità di sintesi, i chierici dai laici. E proprio qui additava il pericolo della purezza che è vuotaggine, della libertà astratta che è morte del pensiero, affermando che chi si fosse distaccato dalla vita politica ed economica, disprezzandola, non avrebbe trovato di che dare alimento ai propri pensieri.[21]

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Croce e la politica della cultura

    5. Croce in sostanza combatteva contro due fronti: oggi diremmo contro l’apoliticità della cultura, vale a dire contro la cultura che è staccata dalla storia in atto per mancanza di vigore filosofico, per aridità mentale, o, peggio, per deliberato spirito di evasione; e contro la politicità della cultura, vale a dire contro la cultura trasformata in pubblico servizio. Contro questi due atteggiamenti opposti egli, da un lato, prese le difese, come abbiamo visto meglio nel primo periodo, di una cultura che nasce da problemi attuali e come tale ha, se pur mediatamente, una funzione politica; dall’altro, come ci si è rivelato negli anni della guerra, sostenne l’autonomia della cultura, nella propria sfera, che è la sfera della teoria, nei confronti della politica.
    In entrambi i movimenti di difesa si rivelava ancora una volta la coscienza che il Croce si era venuto formando dell’importanza preminente della cultura nella direzione della storia. In fondo tanto gli apolitici quanto i troppo politici peccavano, gli uni per difetto gli altri per eccesso, contro il primato della cultura, quelli perché la rendevano inoperosa, questi perché le attribuivano efficacia, sì, ma solo strumentale e la spogliavano della dignità che le è propria. Si potrebbe osservare che questo concetto del primato della cultura non andò immune, negli anni della guerra, da enfatica e diciamo pure tediosa sopravvalutazione,[22] sino al punto da far ripetere al Croce monotonamente alcune idee come le seguenti: che i popoli che si fanno vincere sui campi di battaglia sono i medesimi che si sono già fatti vincere in quello del pensiero e della cultura; che l’immagine flagello della guerra non sarebbe stato invano se fosse servito a chiarire alcuni concetti sullo Stato-potenza, sulla forza che domina la storia, sulla insipidità delle ideologie democratiche e massoniche, che erano poi, senza mutar una virgola, proprio i suoi stessi concetti. «Se non profittiamo di questa dura guerra» egli esclamava «per liberarci dai preconcetti astrattamente umanitari e renderci familiare la vera dottrina dello Stato, quando diverremo savi?»[23] E sperava che gli Italiani avrebbero imparato dalla guerra a «riparare, per lo meno in ciò che è più sostanziale e urgente, alla debolezza dei nostri concetti direttivi»;[24] e che a guerra finita le nazioni latine avrebbero abbracciato l’ideale storico e combattente della vita.[25] Pensieri cotesti che, considerati nella loro nudità, avrebbero potuto essere ridotti in forma caricaturale ad una tesi non troppo lontana da questa: siccome gli Italiani erano ancora imbevuti di astratte ideologie illuministiche e non avevano ancora assimilato le idee dello storicismo, benvenuta la guerra che si sarebbe incaricata da sola, sotto specie di corso accelerato di studi, di insegnargliele.

    6. Negli anni successivi alla guerra non mancò alimento alla polemica contro i chierici traditori. Mentre, da un lato, il Croce dichiarava che non era mai riuscito interiormente a riconciliarsi con tutti quei cultori di studi che durante la guerra erano stati pronti a «storcere la scienza a servigio delle lotte politiche»,[26] dall’altro riprendeva energicamente la battaglia contro filosofi, letterati, uomini di scienza, servitori del regime fascista. Nel famoso manifesto degli intellettuali antifascisti (che fu scritto dal Croce, come è ben noto, in forma di protesta contro un precedente manifesto di intellettuali fascisti, scritto da Gentile e divulgato il 21 aprile del 1925) si ribadisce il principio che

    gli intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica, e con le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie.[27]

    In una noterella assai dura, e che ebbe larga risonanza, scritta nell’ottobre 1925, scherniva quei letterati «che si sono dati a offrire il loro aiuto e a prestare i loro servigi di qualità intellettuale e letteraria al presente regime politico italiano».[28]
    Ma mentre continuava nella medesima direzione la polemica iniziata durante la guerra, prendeva nuovo aspetto nell’opera del Croce il problema della funzione storica dell’intellettuale. Giungiamo così a una vera e propria delineazione di una «politica della cultura», che costituisce una terza ed ultima fase di sviluppo del pensiero crociano su questo argomento. Pur ostentando disprezzo per le «leghe d’intellettuali», che si propongono di salvaguardare non si sa quali diritti dell’intellettualità, dava per pacificamente accettato che «le lotte politiche e sociali prendono le mosse da posizioni del pensiero e da ideali vagheggiati dalla poesia».[29] Abbiamo visto che in un primo tempo per Croce la funzione politica dell’uomo di cultura risiedeva nell’opera di cultura stessa, e non c’era bisogno che l’autore se ne desse pensiero, perché, se l’opera era di vera filosofia, cioè un chiarimento di verità, avrebbe presto o tardi esercitato il suo influsso. In un secondo tempo, di fronte allo sconvolgimento che la guerra aveva portato nelle coscienze, a questo ideale dell’uomo di cultura che non venne mai meno, si aggiunse il concetto che questi era chiamato, la sua verità, non soltanto e elaborarla ed enunciarla, lasciando che facesse da sola la sua strada, per vie ignote al teorico e battute solo dal pratico, ma anche a non tradirla per un amor di patria mal collocato e a difenderla contro i troppo zelanti adoratori del primato della pratica sulla teoria. Il tipo dell’uomo di cultura, vagheggiato e incarnato dal Croce, si era fatto così più aderente alla situazione del tempo; e come personaggio aveva acquistato in autorità e nobiltà.
    In questo terzo tempo, l’uomo di cultura è ancora il combattente, ma la lotta ch’egli combatte ha un campo assai più vasto; non comprende soltanto la verità, la propria verità ch’egli deve difendere sempre ed ovunque dall’errore e da quelle cause di errore particolarmente pericolose che vengono dalla passione politica; ma abbraccia ciò che per Croce è il valore supremo della storia, il valore della libertà che si identifica con l’ideale morale. L’idea che il Croce si viene ora foggiando non è più quella dello specialista chiarificatore di concetti, né quella del devoto della verità, ma quella del filosofo difensore della libertà. E di una politica della cultura si può parlare d’ora innanzi in senso rigoroso, proprio perché si viene scoprendo, in tempi di oppressione, che la cultura ha una funzione politica sua propria, che è appunto la difesa della libertà, e tale polemica, siccome da altri non può essere condotta che dall’uomo di cultura, diventa il primo e supremo suo dovere. Insomma il problema del rapporto tra cultura e politica si arricchisce in quegli anni della teoria, che il Croce va a poco a poco chiarendo, della libertà.

    7. Non è il caso qui di soffermarsi a ricercare come il Croce negli anni della crisi dello Stato italiano abbia scoperto e giustificato storicamente e filosoficamente il liberalismo. Sarebbe un lungo discorso che, come abbiamo detto all’inizio, si vorrebbe fare in altra sede. Ci importa mettere in luce, ai fini dello specifico argomento che stiamo trattando, che la scoperta del liberalismo si identificò nell’animo del Croce con una nuova e assai più robusta consapevolezza della funzione attiva degli intellettuali nella vita sociale. L’idea liberale gli si affacciò sin dal primo momento in cui cominciò a teorizzarla – fu uno spunto che, come è notissimo, fece lunga strada ed è diventato negli anni della Resistenza e del dopoguerra una dottrina in vario senso commentata, esaltata od osteggiata – non già come una ideologia in mezzo alle altre ideologie, un programma di partito distinto da altri programmi particolari, ma come lo stesso ideale morale della umanità, che come tale abbraccia tutti i partiti, ivi compreso lo stesso Partito liberale, e tutti li supera.[30] L’intera dottrina pratica del Croce aveva poggiato sulla distinzione, a lungo elaborata e ad ogni occasione riesposta, tra la politica che appartiene alla sfera dell’economia, della forza vitale, e la moralità che è forza spirituale. Sino a che aveva discettato sullo Stato, aveva parlato di potenza, di interessi economici, di rapporti di forza; ma non aveva mai esaurito o creduto di esaurire tutta la sfera della pratica nell’attività dello Stato, non aveva mai fatto alcuna concessione all’aberrazione dell’eticità dello Stato. Lo Stato era, sì, potenza; ma accanto ed oltre lo Stato vi era la morale che lo giudica e lo riscatta. Si ricorderà che riferendosi alla difesa dello Stato-potenza, che gli fu nei primi tempi del fascismo rimproverata, egli scrisse con parole che non volevano né dovevano lasciar luogo a dubbi:

    In quella polemica, respinsi costantemente il concetto della forza intesa materialisticamente, e della politica come separata e disparata rispetto all’etica, verso la quale la ponevo al tempo stesso specificata e sottomessa. Per questa ragione ho sempre rifiutato ogni sorta di statolatria, ancorché si presenti o ripresenti come «idea etica dello Stato» e si rivesta della confacente rettorica sullo «Stato che è il Dovere e che è Dio», e altrettali goffaggini. Rimango anche in questa parte nella tradizione del pensiero cristiano, che dà a Cesare quel ch’è di Cesare, ma sopra Cesare innalza la coscienza religiosa e morale, la quale solamente eticizza di volta in volta l’azione politica, pur riconoscendone e rispettandone e adoprandone la logica che le è propria.[31]

    Or ecco che, di fronte all’invadente regime che si stava trasformando in dittatura, in quello Stato totalitario che consiste per sua natura nella politicizzazione senza residui di tutta la vita umana, e nella riduzione di tutta l’attività umana a politica, e dà a Cesare, per continuare il discorso con Croce, anche quello che è di Dio, ponendosi il Croce a riflettere su quel che vi è irriducibile allo Stato, sulla coscienza morale, venne in chiaro sul punto che questa coscienza morale è lo stesso ideale della libertà.
    Da questo chiarimento derivarono tutte quelle dottrine particolari che costituiscono la concezione liberale del Croce: la teoria liberale non è una teoria politica, ma metapolitica; anzi è una concezione del mondo che è venuta via via sviluppandosi nel pensiero moderno ed è legata all’immanentismo, all’idealismo, allo storicismo, e giunge alla massima consapevolezza ed espansione nell’età del romanticismo, che è l’età della «religione della libertà»; la storia è storia della libertà in quanto la libertà è per un verso il principio esplicativo del corso storico e per l’altro ideale morale dell’umanità; in quanto ideale morale, la libertà non si può confondere con nessun principio economico, donde la distinzione fra liberalismo e liberismo, né mettere sullo stesso piano con nessun altro ideale politico, onde la distinzione tra libertà e giustizia. Ma derivava pure un’altra conseguenza che maggiormente ci interessa: se la libertà è l’ideale morale della umanità, e dunque il valore di civiltà per eccellenza (si ricordi l’anteriore distinzione tra valori di cultura e valori empirici), in base al quale, pertanto, l’umanità si arricchisce e si perfeziona, essa non è storicamente legata a questa o a quella classe economica o politica (il Croce combatté il concetto storiografico della libertà come espressione dell’ideale borghese), ma è patrimonio di tutti gli uomini, in quanto si elevino alla coscienza morale, e in particolare è patrimonio di quella parte dell’umanità a cui è assegnato l’ufficio e la responsabilità di difendere e promuovere valori di civiltà, e, come tale, ha la «direzione della società»[32] vale a dire degli uomini di cultura. Nel momento stesso in cui Croce precisa che il liberalismo non è un’ideologia politica ma un ideale morale, gli si presenta come indissolubilmente legato quest’altro concetto che il liberalismo è per ciò stesso, se si vuol chiamare un partito, il partito degli uomini di cultura. Ecco come questo concetto viene per la prima volta formulato: «Come partito medio, come idealità che richiede esperienza e meditazione, senso storico e senso delle cose complesse e complicate, e insomma finezza mentale e morale, il liberalismo, è il partito della cultura».[33]

    8. Da quest’ultima frase si può misurare quanti passi avesse compiuto il Croce, dalla primitiva timida affermazione del valore politico dell’opera di pensiero, che doveva semplicemente servire a non farlo vergognare di fronte ai politici, all’affermazione che gli uomini di cultura hanno addirittura un loro partito, se pur diverso dai partiti organizzati, ed è il partito della libertà contro i partiti della servitù. Quello studioso che nella prima fase sembrava non dovesse preoccuparsi d’altro che di fare bene il proprio mestiere, ora si innalza a coscienza storica, a guida spirituale, a pedagogo dell’umanità. D’ora innanzi, all’incirca dal ’25 in poi, il Croce parla della libertà e del suo destino nel mondo, richiama gli uomini di cultura alle loro responsabilità, che sono ormai, dati i tempi e i costumi, responsabilità politiche, se pure di una politica della cultura, che è politica a lunga scadenza, distinta dalla politica ordinaria tutta rinchiusa nell’effimero e nel provvisorio, e non esita a metter l’accento sull’importanza decisiva della cultura e degli uomini che la rappresentano degnamente per il riscatto della tristissima storia d’Europa. Proprio scrivendo questa storia, nelle ultime pagine, affermava:

    Quando, dunque, si ode domandare se alla libertà sia per toccare quel che si chiama l’avvenire, bisogna rispondere che essa ha di meglio: ha l’eterno […] Quel che val più, sta in molti nobili intelletti di ogni parte del mondo, che, dispersi e isolati, ridotti quasi a un’aristocratica ma piccola respublica literaria, pur le tengono fede e la circondano di maggiore riverenza e la perseguono di più ardente amore che non nei tempi nei quali non c’era chi l’offendesse o ne revocasse in dubbio l’assoluta signoria, e intorno le si affollava il volgo conclamandone il nome, e con ciò stesso contaminandolo di volgarità, della quale ora si è deterso.[34]

    E nell’ultime righe del Soliloquio di un vecchio filosofo, che è tra le pagine più accorate ed alte del Croce, gli par quasi di vedere, tra le rovine della guerra (lo scritto reca la data del gennaio 1942), due diverse storia fatte dall’uomo, quella politica e quella morale, e pur sapendo che si tratta di una storia sola nei suoi necessari momenti dialettici, egli lascia volentieri a politici, a militari, ad economisti la considerazione della prima storia, purché a lui, filosofo, che ha l’anima religiosamente disposta, sia concesso di affidarsi all’altra, «nella quale si svolge il dramma che in lui si prosegue, e dove, lungo i secoli, egli incontra i suoi padri e i suoi fratelli, coloro che amarono come lui e come lui seppero soffrire e operare per la libertà».[35]
    Può sembrar strano, e certo è stato per molti motivo di amara delusione o addirittura di acerba critica, che il Croce, a guerra finita, abbai ritenuto di poter identificare questo partito della cultura, questa «forza non politica», come ancora da ultimo la chiamò, con uno dei tanti partiti che sorsero in quegli anni, che era evidentemente una forza politica, e abbia dovuto per giustificare questo apparentamento che era un abbassamento, fare di quel partito una specie di superpartito che sorveglia gli altri dall’alto della sua neutralità nei programmi economici, e mendicare infelici giustificazioni storiche nell’equiparazione di ceto medio e ceto culturale,[36] ed abbia confuso e contribuito a confondere proprio ciò che egli aveva sempre così severamente distinto, la politica della cultura dalla politica dei politici. Ma ciò non deve far dimenticare che egli negli anni della dittatura impersonò quella missione del dotto che aveva proclamato, dell’intellettuale che fa la sua parte nella storia in quanto portatore della «forza non politica, che la politica non può sopprimere mai radicalmente perché germina sempre nuova nel petto dell’uomo, e con la quale dovrà sempre, per buona politica, fare i conti»:[37] e fu coscienza morale di molti Italiani, soprattutto dei giovani, quella coscienza morale che è «voce dell’umanità», la quale «in sublimi momenti affratella gli uomini, anche divisi d’interessi o di idee, e li congiunge in un medesimo sentire e li porta a una medesima azione, quali che siano le condizioni sociali, la più umile e la più superba, e il popolo e la stirpe a cui appartengono, quali che siano gli abiti che indossano, borghese, militare o talare».[38] Né si arrogò meriti politici che gli pareva non competessero a chi aveva operato esclusivamente attraverso l’opera della cultura, sì che, rievocando quegli anni senz’ombra di magniloquenza, con dignitosa sobrietà di linguaggio, parlò semplicemente dell’occasionale servigio politico che aveva prestato «a difesa della cultura italiana in un periodo di oppressione della libertà».[39] Ma dentro quelle parole si vedeva che egli aveva finalmente raggiunto la «tranquilla coscienza» di aver compiuto il proprio dovere anche nella vita civile.


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    [1] Numerosissimi gli accenni a questa tesi, nelle opere del Croce: particolarmente ne trattano il saggio Il disinteressamento per la cosa pubblica, in Etica e politica, Bari 1945³, pp. 159-64; e il saggio La politica dei non politici (1925), in Cultura e vita morale, Bari 1926², pp. 289-93. Cfr. anche, in quest’ultima raccolta, Specialismo e dilettantismo, pp. 228-34.
    [2] Si legga in R. Franchini, Note biografiche di Benedetto Croce, Torino 1953: «Il Croce stesso confessava di non essersi mai sottratto ai pubblici doveri, ma di non averne mai sollecitato l’onorevole onere, perché nell’adempimento di essi non ha mai sentito, quantunque sempre li abbia adempiuti con scrupolo, quella soddisfazione che nasce dal fare qualcosa con la piena adesione dell’anima» (p. 25). In Due anni di vita politica italiana, Bari 1948, si legge: «Quel che ho fatto e fo di politica è uno sforzo contro la mia natura e il mio passato, uno sforzo eseguito sotto il comando, o l’illusione, del dovere» (p. 24).
    [3] Contributo alla critica di me stesso, in Etica e politica cit., p. 368.
    [4] Ibidem. A queste circostanze della fanciullezza, attribuisce, almeno in parte, il relativo ritardo dello svolgersi in lui dei sentimenti e dell’ideologia politica, soverchiati per lungo tratto dall’interessamento letterario-erudito. E negli anni in cui condusse la vita dell’erudito e del letterato «la politica del suo paese gli stava innanzi come spettacolo al quale non mai si propose di partecipare con l’azione, e pochissimo ci partecipava col sentimento e col giudizio» (ivi, p. 376).
    [5] Ivi, p. 383.
    [6] Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, Bari 1947³, pp. 290-1.
    [7] Ivi, p. 291. Il corsivo è mio.
    [8] Fissazione filosofica e Libertà e dovere, in Cultura e vita morale cit., pp. 293-306. Cfr. anche, nella stessa raccolta, i seguenti saggi: Troppa filosofia; Contro la troppa filosofia politica; Ancora filosofia e politica, pp. 238-53.
    [9] Contributo alla critica di me stesso cit., p. 388.
    [10] La politica dei non politici cit., p. 292.
    [11] Ibidem.
    [12] Storia del Regno di Napoli, Bari 1931², p. 281.
    [13] Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1928³, p. 145.
    [14] Contro l’astrattismo e il materialismo politici, in Cultura e vita morale cit., pp. 182-91; riportato anche in Pagine sulla guerra, Bari 1928², pp. 29-38.
    [15] Contro l’astrattismo… cit., p. 188.
    [16] Pagine sulla guerra… cit., pp. 52-3.
    [17] La guerra e gli studi, in Pagine sulla guerra cit., p. 210.
    [18] Contrasti di cultura e contrasti di popoli, in Cultura e vita morale cit., p. 308.
    [19] La guerra e gli studi cit., p. 221.
    [20] Il «tradimento degli intellettuali», in Pagine sulla guerra cit., pp. 348-9.
    [21] Si veda in questo senso lo scritto Apoliticismo, in Orientamenti, Milano 1934, pp. 51-62.
    [22] Accenti assai severi sul Croce di questo periodo contiene il giudizio del Mautino, La formazione della filosofia politica di B. Croce, Bari 1953³, p. 263.
    [23] Pagine sulla guerra cit., p. 105.
    [24] Ivi, p. 110.
    [25] Ivi, p. 129-311.
    [26] Cultura e vita morale cit., p. 309. E ne spiegava la ragione: «Se hanno tradito una volta la verità, perché non la tradiranno ancora? Forse perché, allora, la tradivano per amor di patria? Ma la verità non si tradisce per amore di nessuna cosa o persona; e, se si concede che sia lecito tradirla per la patria, perché non dovrebbe esser lecito poi tradirla per il figlio o per l’amico, e, in fin delle fini, pel nostro signor se stesso, il quale, anch’esso, conta per qualcosa?».
    [27] Pagine sparse, Napoli 1943, p. 380.
    [28] Ivi, p. 17.
    [29] L’intellettualità, in Etica e politica cit., p. 194.
    [30] Cfr. uno scritto del 1923 assai significativo in questo senso, Contro la troppa filosofia politica, in Cultura e vita morale cit., p. 245. E poi, via via, gli scritti Liberalismo, del 1925, nella stessa raccolta, pp. 283-8; e La concezione liberale come concezione della vita, in Etica e Politica cit., pp. 284-94.
    [31] Avvertenza a Pagine sulla guerra cit., p. 6. È interessante notare che nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 descrivendo l’influsso della propria filosofia negli anni del dopoguerra si sofferma compiaciuto proprio su questo aspetto: «Al sentimento e alle teorie nazionalistiche non tralasciò, in verità, di muovere critiche e rivolgere satire lo scrittore sopra ricordato, che era a capo del movimento filosofico italiano, il quale non solo si era accorto di quel che esso conteneva del solito irrazionalismo e di cupido sentire, ma anche, rifiutando molte dottrine dello Hegel, aveva rifiutato, tra le prime, l’esaltazione dello Stato di sopra la moralità, e ripreso, approfondito e dialettizzato la distinzione cristiana e kantiana dello Stato come severa necessità pratica, che la coscienza morale accetta e insieme supera e domina e indirizza» (pp. 259-60).
    [32] Così si legge in uno scritto del ’28 Contro la sopravvivenza del materialismo storico, in Orientamenti cit., p. 42.
    [33] Liberalismo, in Cultura e vita morale cit., p. 285. Il corsivo è mio.
    [34]Storia d’Europa nel secolo XIX, Bari 1932, pp. 358-9.
    [35] Discorsi si varia filosofia, Bari 1945, vol. I, p. 300. In quegli anni considerava compito principale del filosofo di elaborare una compiuta teoria della libertà, che la patria del liberalismo politico, l’Inghilterra, non aveva mai avuta. Cfr. Principio, ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà, in Il carattere della filosofia moderna, Bari 1941, pp. 104-25.
    [36] Cfr. su questo punto le quattro raccolte di scritti: Per la nuova vita dell’Italia, Napoli 1944; Pagine politiche, Bari 1945; Pensiero politico e politica attuale, ivi 1946; Due anni di vita politica italiana, ivi 1948.
    [37] Indagini su Hegel e altri schiarimenti filosofici, Bari 1952, p. 159. Su questo passo ho richiamato l’attenzione su «Il Ponte», a. IX, 1953, pp. 271-2.
    [38] Due anni di vita politica italiana cit., pp. 171-2. Nel diario Quando l’Italia era tagliata in due, riconosce che la sua opposizione al fascismo «era non direttamente politica ma anzitutto morale» («Quaderni della Critica», n. 7, marzo 1947, p. 100.
    [39] Avvertenza a Pensiero politico e politica attuale cit.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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