Intervista di Mauro Mita a Renzo De Felice, in «La Voce Repubblicana», 17-18 maggio 1990


La Francia rivoluzionaria non fu, per i movimenti rivoluzionari europei, il Dio che crea dal nulla, bensì il Sole che fa schiudere i fiori. Renzo De Felice riprende questa espressione di Alexis de Tocqueville per riassumere quello che egli chiama il “triennio giacobino in Italia” (1796-1799), in tutto l’intreccio delle attese e delle delusioni che segnarono le vicende dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, in un momento decisivo della formazione della coscienza nazionale italiana. La leggenda dei giacobini, nei suoi splendori e nei suoi orrori, costituisce l’inizio dell’attività di storico dello studioso che ha magistralmente interpretato il totalitarismo fascista con gli strumenti di analisi che, giovanissimo – siamo agli albori degli anni ’50 – usò nella lettura del primo “partito” totalitario dell’Europa moderna. De Felice, che si è laureato con Federico Chabod, trae però da Delio Cantimori, che egli definisce suo maestro ideale, l’interesse per i giacobini.
«Il rapporto con Cantimori – dirà – è forse il più importante specie per una persona giovane come ero io allora quando l’ho conosciuto. La conoscenza è avvenuta in relazione alla mia tesi di laurea. E poi ho continuato ad avere con lui rapporti di amicizia sempre più personali, nonostante la differenza di età, fino alla morte».
Dal sodalizio con Cantimori nasce, scritto insieme, il secondo volume sui giacobini italiani degli Scrittori d’Italia di Laterza[1].
«Emergeva sempre più in primo piano un certo interesse tutto nostro, fatto di conversazioni amichevoli, di studio, di ricordi di Cantimori, per le vicende dell’Italia contemporanea, per il fascismo, che si fece poi più preciso quando cominciai il lavoro sugli ebrei. Direi che la cosa che più mi è servita di questo rapporto con Cantimori, è stata la conferma di certe mie idee su come affrontare questi problemi». Ricorda De Felice, la bella lettera con cui Cantimori affronta i problemi dei fascisti, sottolineando che egli era contro qualsiasi generalizzazione: «Fascismo e antifascismo – sottolineava il patriarca della storiografia marxista – sono discorsi senza senso a livello storiograifico».

Libertà e uguaglianza

Né l’uno né l’altro, insisteva, sono un’unità. «Si tratta – diceva ancora Cantimori – di guardare dentro queste realtà». «Penso – conclude De Felice – a quella stupenda pagina sul fascismo, inteso come la balena di Moby Dick, nella quale Cantimori dice che il fascismo va considerato in tutte le sue componenti, in tutto il suo svilupparsi[2].
De Felice si cimenta con i giacobini fino alla metà degli anni ’60, su stimoli che abbracciano diversi argomenti: propaganda e giornalismo politico, ruolo pedagogico del teatro, funzione dell’istruzione nell’educazione del cittadino, situazioni delle comunità ebraiche, rapporto fra giacobinismo italiano e giacobinismo francese. Molti di questi saggi, apparsi su varie riviste, sono ora raccolti nel volume che inaugura la nuova collana storica delle edizioni Bonacci, dal titolo Storia e Politica, diretta da Francesco Perfetti, che in una lucida e stimolante introduzione aggiorna la ricerca storiografica sul giacobinismo italiano[3].
Chi sono i giacobini? De Felice fa propria la definizione che ne dette nel 1796 un pamphlettista antirivoluzionario, l’abate Barruel: «Sotto il malaugurato nome di Giacobini – scrisse il Barruel nel suo Discorso preliminare – è comparsa nei primi giorni della Rivoluzione francese una setta, che insegna gli uomini tutti essere uguali e liberi, e che, collo specioso nome di questa libertà ed uguaglianza disorganizzatrice, calpesta altari e troni; e sotto la medesima invocazione spinge tutti i popoli alle stragi della ribellione e agli orrori dell’anarchia. […] Per mezzo loro la Rivoluzione francese il flagello è divenuta dell’Europa, e il terrore delle potenze indarno collegate a porre un termine ai progressi delle armate rivoluzionarie più numerosi e più devastatrici dell’inondazione dei Vandali». Spiega De Felice che la definizione del giacobinismo data da Barruel, liberata da tutti gli orpelli anti-giacobini, rimane ancora una delle più precise, «in quanto, scendendo in profondità, ne individua le caratteristiche salienti: la fede nella democrazia, intesa nel senso più radicale, l’egualitarismo, almeno tendenziale, l’anticlericalismo, il repubblicanesimo, il cosmopolitismo». Sulle basi delle determinazioni del Barruel, De Felice desume altri quattro aspetti del giacobinismo, sia francese sia italiano: uno “politico”, uno “sociale”, uno “religioso” «ed ultimo, non certo per importanza però», uno “psicologico-morale”[4].
La raccolta dell’editore Bonacci non comprende l’ultimo lavoro defeliciano, quello del 1963 sull’Italia giacobina[5], che rappresentò – dice Perfetti – un momento importante sia per il dibattito sul giacobinismo italiano, sia per l’evoluzione storiografica del suo autore. «Il volume sotto questo aspetto costituisce, se non l’ultima, una delle ultime incursioni dello studioso nel terreno dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, prima del dirottamento di interessi verso la ricostruzione storica del periodo fascista».
Il ventennio francese, nelle sue implicazioni italiane, è visto partendo dalle radici. Il “triennio giacobino” è fatto risalire con la presa della Bastiglia, allorché «nel cielo italiano incominciarono a dardeggiare i primi raggi di sole della Rivoluzione». Non comincia quindi con il 1796, quando le armate francesi varcarono le Alpi. Il periodo compreso fra il 1789 e il 1796 appare importante per l’individuazione dei possibili sviluppi che «i fiori italiani erano portati ad avere prima che la mano del giardiniere francese li selezionasse e li coltivasse secondo le esigenze del suo mercato». Gli avvenimenti americani, polacchi, corsi, la soppressione della Compagnia del Gesù, il riformismo hanno in varia misura sensibilizzato diversi strati di opinione pubblica e diffuso irrequietezza ed attesa in tutte le classi e ceti sociali. L’impoverimento degli ultimi decenni del ‘700 ha colpito un po’ tutti, specialmente contadini. Ma è nella borghesia e in parte nella nobiltà e nel clero, dove il malcontento spinge da uno stato di opposizione interna al sistema politico-sociale vigente ad una aperta posizione di rottura. Ma la rottura non si consuma nemmeno con la discesa delle armate francesi.
Nel triennio rivoluzionario si tocca con mano che la politica del direttorio, come poi quella di Bonaparte, considera l’Italia terra di sfruttamento economico o di baratto. De Felice non nega questa valutazione, ma rifiuta il canone storiografico inaugurato da Vincenzo Cuoco della “rivoluzione passiva”[6]. Sarebbe stato storicamente corretto parlare di “rivoluzione passiva” per il triennio, a patto di non assumere tale definizione come «punto di partenza, bensì come punto di arrivo». Sottolinea che l’arrivo dei francesi non aveva incontrato l’aperta ostilità delle masse popolari, che in qualche caso avevano addirittura manifestato la loro esultanza. Su questa predisposizione si sviluppò durante il triennio l’incontro, ove più ove meno esplicito, fra masse popolari e mondo democratico.
«Se si deve fare un bilancio del triennio rivoluzionario – sottolinea lo studioso – esso non può essere assolutamente negativo, come a prima vista potrebbe apparire sulla base di una tradizione storiografica più che secolare, né può […] basarsi su un’antistorica contrapposizione del movimento repubblicano meridionale, tutta luce, a quello settentrionale, tutta ombra. Il movimento rivoluzionario italiano fu infatti un fenomeno, pur nelle sue peculiarità locali e regionali, squisitamente unitario».

Un bilancio da ridiscutere

Non ci sono soltanto le conquiste amministrative costituzionali, ma c’è il fatto rilevante dell’impulso che i giacobini, al Nord quanto al Sud, danno alla crescita della visione nazionale della rivoluzione italiana. Si afferma la consapevolezza che la rivoluzione nazionale non è un fatto della sola borghesia, ma di tutte le classi della società italiana, comprese quelle popolari. «Se già nel ’96-’99 – sottolinea -, e ancora più nettamente nel successivo periodo napoleonico, furono i moderati ad avere la meglio e a imporre la loro linea politica, è un fatto indiscutibile che questa consapevolezza dei giacobini fu alla base di gran parte del movimento settario del primo Ottocento, si fece violentemente sentire nel movimento liberale sino al 1848 e, se non fu proprio alle origini, certo influì notevolmente sul movimento mazziniano».
Sono intuizioni che aprono nuovi sviluppi alla successiva ricerca storiografica: una ricerca che Francesco Perfetti segue attentamente richiamando i contributi che nel giacobinismo italiano hanno dato altri studiosi, da Saitta a Firpo, da Villani a Godechot, a Capra, a Zaghi, a Vaccarino, per fare solo alcuni nomi.
L’iniziativa dell’editore Bonacci riapre un discorso che va ancora rivisitato, poiché il mito giacobino conserva tuttora angoli inesplorati, e nel suo mosaico ci sono ancora molti tasselli che la storiografia non ha scoperto.

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[1] Giacobini italiani, II vol., a c. di D. Cantimori e R. De Felice, Laterza, Bari 1964.
[2] D. Cantimori, Conversando di storia, Laterza, Bari 1967, p. 134.
[3] R. De Felice, Il triennio giacobino. Note e ricerche, Bonacci editore, Roma 1990.
[4] A. Barruel, Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, Londra, 1797-1798.
[5] R. De Felice, Italia giacobina, Esi, Napoli 1965.
[6] V. Cuoco, Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799, Milano 1801.