Intervista di Giancarlo Bosetti e Pasquale Chessa a Norberto Bobbio e Renzo De Felice. In «Panorama», 28 aprile 1995.


Il cinquantesimo del 25 aprile 1945 non è un anniversario indolore come il novecentesimo delle Crociate. Infatti, a mezzo secolo dalla fine della guerra, guerra di liberazione e guerra civile per l’Italia, i drammi del tragico biennio ’43-’45 non si lasciano archiviare. Perché il valore della Resistenza o il giudizio su comunismo e anticomunismo, fascismo e antifascismo, sono argomenti che non fanno discutere solo gli storici. Il sogno di un’Italia normale non sembra ancora realizzato. Perché? Come è possibile che le parole “fascismo” e “comunismo” siano ancora insulti correnti nella vita politica? Perché la democrazia italiana ha bisogno, ancora oggi, di essere “anti”? Per essere antifascisti bisogna non essere anticomunisti? Si possono paragonare fascismo e comunismo usando la categoria del totalitarismo?
Ci sono due studiosi che hanno approfondito lo studio della storia e delle ideologie di questo secolo: Norberto Bobbio e Renzo De Felice. Il filosofo azionista che meglio rappresenta la tradizione antifascista laica e lo storico “revisionista” che di più ha approfondito i caratteri specifici del fascismo come movimento e come regime. Un settimanale, «Panorama», un quotidiano, «L’Unità» e un mensile, «Reset» (che pubblicherà la versione integrale), hanno cercato una risposta agli interrogativi centrali della nostra epoca mettendo a confronto i loro pessimismi. L’incontro, grazie all’ospitalità di casa Bobbio a Torino, è durato 5 ore per un totale di ottanta pagine dattiloscritte. Ecco cosa si sono detti.

25 aprile: cinquant’anni di storia al vaglio. Dall’8 settembre del ’43 al crollo del Muro di Berlino nell’89, dalla fine del fascismo ad Alleanza nazionale. La politica di oggi è cucita con fili lunghi mezzo secolo. Perché facciamo fatica ad archiviare per la storia il giudizio sul nostro passato?
Bobbio. Colpisce, fra le novità della politica italiana, il ritorno degli eredi del fascismo. Mi rendo conto di quanto questa formulazione sia un po’ brutale. È comprensibile che coloro che hanno partecipato attivamente all’antifascismo ne siano rimasti scossi. Penso, però, che non dobbiamo stupirci del ritorno sulla scena politica degli avversari di un tempo. Si sa che le vicende della storia umana non procedono in linea retta ma attraverso corsi e ricorsi. Diventa perciò molto importante riflettere sul modo con cui dobbiamo celebrare il cinquantenario della Liberazione. Qualcuno potrebbe anche dirci: «Finitela, a noi non ci interessa più». Invece noi dobbiamo far capire che abbiamo delle ottime ragioni per ricordare cosa è stato il giorno della Liberazione. Sottolineo che non è una festa solo italiana. È una data che appartiene all’umanità: la fine della più terribile guerra della storia rappresenta la sconfitta del nazismo, del fascismo, della barbarie. È una delle date decisive del secolo, insieme all’autunno dell’Ottantanove. Due momenti che segnano il ritorno alla democrazia, là dove era stata conculcata. Ora mi domando: ma in Francia, o in Olanda, Belgio, Danimarca, si discute se festeggiare o meno la Liberazione? No. Quella festa è un valore condiviso dalla gente.
De Felice. Sul valore storico della Resistenza sono d’accordo con Bobbio. Meno quando cita la Francia. Mi permetto una digressione: mi chiedo infatti perché in Francia la Liberazione non è al primo posto della gerarchia delle feste nazionali, che spetta da due secoli alla presa della Bastiglia, il 14 luglio. La risposta ci porta al cuore del problema: il rapporto fra comunismo e Resistenza. In Francia il partito comunista di Maurice Thorez, pur essendo a pieno titolo parte del movimento partigiano, ha dovuto scontare le sue scelte antidemocratiche. Nessuno ha dimenticato che Thorez, quando fu stipulato il patto Ribbentrop-Molotov nel 1939, fu costretto a schierarsi, in nome dell’internazionalismo proletario, con i nemici della patria. In Italia, poiché il partito comunista sotto il fascismo non poteva che essere ben poca cosa, quel tradimento non fu visibile. Il tradimento francese fu, invece, palpabile, evidente, concreto. Per questo in Italia il Pci ha potuto vantare, nel dopoguerra, una sorta di primazia sulla tradizione del 25 aprile. Privilegio che Charles De Gaulle, primo antinazista di Francia, non avrebbe mai consentito a Thorez. Eccoci a un nodo: perché in Italia non si può essere allo stesso tempo antifascisti e anticomunisti? Bisogna infatti constatare che gli ex sono due. Oltre agli ex fascisti ci sono anche gli ex comunisti.
Bobbio. I due piani sono completamente diversi. I comunisti nel 1945 si trovavano dalla parte dei vincitori, in difesa della democrazia. I fascisti stavano dalla parte degli sconfitti, contro la democrazia. Perciò non capisco il paragone. I problemi con i comunisti sono venuti dopo la fine della guerra, non certo a causa della loro partecipazione alla Resistenza. Non può esserci per questo, né in Italia né nel mondo, un discrimine tra i comunisti e gli altri antifascisti. La differenza radicale, la contrapposizione frontale con la democrazia, per lo meno in Italia, riguarda solo i fascisti.

Si dice: c’è una certa disaffezione intorno al 25 aprile. Che sia oramai un fatto elitario?
Bobbio. Anche il Risorgimento è stato un fatto elitario…
De Felice. A me sembra una festa ad alta densità politica, che non trova riscontro nel sentimento collettivo. Soprattutto fra i giovani, i quali non capiscono.
Bobbio. Possibile che sia tanto difficile far capire una cosa così chiara, così vera: che c’è stato il nazismo, che c’è stato il fascismo, che entrambi sono stati sconfitti il 25 aprile, anche con la partecipazione dell’Italia, seppure all’ultimo momento, col sacrificio di tanti partigiani uccisi? Per grazia di Dio ci sono stati da un lato Stalingrado, la più cruenta di tutte le battaglie, e lo sbarco in Normandia, il più straordinario evento strategico della seconda guerra mondiale.
De Felice. D’accordo per la Normandia. Ma, con tutto il rispetto per il maestro, caro Bobbio, c’è una domanda che non posso tacere: che cosa segue a Stalingrado? Che la Polonia ha perso l’indipendenza e la libertà, insieme alla Romania, l’Ungheria, la Bulgaria, la Cecoslovacchia… per loro Stalingrado ha significato la fine della democrazia, come avrebbe ugualmente comportato una vittoria tedesca a Stalingrado.

Sulla guerra, sulla Resistenza, sulla Repubblica di Salò quali sono i giudizi storici da rivedere?
Bobbio. Non ho mai condiviso l’apologia acritica della Resistenza. Non ho mai accettato interpretazioni che non vedessero anche le ragioni della sua intrinseca debolezza, dalle quali sono derivate le successive delusioni. Revisione dunque, sì. Ma non della questione di fondo: la priorità che spetta sempre a coloro che hanno combattuto.
De Felice. Alla revisione del mito della Resistenza guardo più da storico che da politico. Perciò non parto dal 25 aprile ma dall’8 settembre, giorno in cui Dwight Eisenhower annunciò l’armistizio con gli italiani. Data tragica della nazione italiana: quel giorno è l’idea di patria che muore. L’8 settembre vide il pronto schierarsi di due élite, quella fascista e quella antifascista, nell’indifferenza delle masse che non riuscivano a comprendere perché si dovesse continuare una guerra di cui esse pagavano il prezzo. Il giudizio sul movimento partigiano va sempre messo in relazione allo stato d’animo di quel particolare momento. In principio il soldato sbandato che cerca di sfuggire ai tedeschi viene aiutato dalla popolazione. Le mamme pensano ai loro figli in guerra e si prodigano… con lo stesso spirito e la stessa abnegazione, finché si tratta di aiutare la banda partigiana del proprio paese, tutti si danno da fare. Quando invece la guerra civile si fa più violenta, fra attentati e rappresaglie, intorno alla Resistenza si crea il vuoto. La maggioranza non partecipa, aspetta. Aspettano gli operai, aspettano gli impiegati, aspettano i borghesi e i contadini. Così, fra alti e bassi, si arriva fino alla primavera del 1945, quando si capisce che gli alleati hanno vinto, e basta mettere un fazzoletto intorno al collo per diventare combattenti della libertà. Al sentimento di entusiasmo fra le élite combattenti corrisponde fra la maggioranza un sentimento di sollievo per la pace raggiunta, non importa come.
Bobbio. Saremo anche stati una minoranza, ma abbiamo cambiato la rotta degli eventi. Oggi bisogna contrapporsi alla posizione di chi allora non si rese conto dell’importanza, per la storia dell’intera umanità, di combattere il nazismo e il fascismo attivamente non solo passivamente. Se la Resistenza non è stata “popolare”, la colpa non può essere addossata ai partigiani. Diamone un po’ anche a chi stava a guardare, a chi pensava di salvare così la pelle e la roba, senza rendersi conto che ci sono momenti nella storia dell’uomo in cui la pace e la libertà si devono conquistare. A De Felice che ragiona sul crollo dell’identità nazionale dopo l’8 settembre, contrappongo come data tragica della storia italiana il 10 giugno 1940, giorno dell’entrata in guerra di Mussolini. Allora insegnavo a Siena dove un piccolo gruppo di docenti e studenti avevano già maturato una coscienza antifascista sbalorditi, attoniti, affranti… Non riuscivano a capire perché si dovesse attaccare la Francia. E l’Inghilterra… E poi la Grecia… Per non parlare della campagna di Russia: credo che non ci sia stato un solo alpino della Cuneense che avesse capito perché era stato mandato a combattere contro i russi.
De Felice. In effetti, controllando bene le cifre, si scopre che la partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale conta più volontari della prima. Molti di più di quanti io non avessi calcolato. I dati pubblicati nell’ultimo volume della mia biografia di Mussolini vanno corretti: ho scoperto che i militari cercavano di minimizzare le adesioni, facendo passare molti volontari per arruolati. È per questa ragione che la dissoluzione dell’esercito, dopo l’8 settembre, viene vissuta come una catastrofe. De profundis intitolò il suo libro sulla “morte della nazione” Salvatore Satta, grande giurista e grande scrittore sardo[1] .
Bobbio. Semmai l’8 settembre ha dato la possibilità agli italiani, agli antifascisti, di riprendere il cammino, di risollevarsi e di agire. Noi, una minoranza, eravamo pienamente convinti che l’Italia dovesse perderla quella guerra. Caro De Felice, è questa la valutazione che ci divide: secondo me, la stragrande maggioranza degli italiani non fu favorevole all’entrata in guerra.
De Felice. Furono oscillazioni parallele che si alternano per tutta la guerra in un’altalena che seguì i ritmi delle vittorie e delle sconfitte.

Ma com’era l’Italia di allora? Cosa pensava? Come si muoveva? Sembra che non ci fossero comportamenti omogenei sia da una parte che dall’altra…
Bobbio. La revisione che è giusto fare, lo ammetto, secondo me consiste soprattutto nel mettere in evidenza una pluralità di comportamenti: i combattenti per la Resistenza, i loro avversari fascisti e quelli che sono rimasti in mezzo. È una conquista dei più recenti studi storici averci mostrato questa maggiore complessità. La mancata partecipazione popolare non può essere considerata come una generica forma di opposizione al movimento partigiano. Ma è curioso che in Italia, per esempio, fra tanta urgenza di revisionismo, sia stata sottovalutata la categoria del collaborazionismo. C’erano sinceri antifascisti che non hanno fatto i partigiani perché ritenevano di non dover continuare a combattere. C’è chi ha fatto la Resistenza senza mai sparare un colpo. Così dall’altra parte c’era chi non aveva intenzione di stare in prima linea. Molti poi si adoperavano a fare da pacieri tra partigiani e fascisti. I parroci soprattutto.
De Felice. Non facciamo la retorica, alla rovescia, sull’eroismo dei parroci, come Pietro Scoppola nel suo libro sul 25 aprile, che tende a distribuire un po’ troppe aureole[2]. C’erano anche molti approcci che assolvevano tutte le nefandezze dei fascisti e anche quelle dei partigiani. Ma la stessa variegazione c’era anche nel mondo di Salò. Numerosissimi erano gli antitedeschi, per esempio. Alla fine, ovviamente, pesavano i rapporti di forza reali, però…
Bobbio. C’erano i volontari e i coatti, chi sceglieva e chi subiva…
De Felice. Quando anche uno studioso della serietà di Lutz Klinkhammer, in un’intervista storiografica dice: «Per un certo tempo credo che la demonizzazione della Repubblica di Salò sia stata necessaria, forse perché altrimenti l’antifascismo non si sarebbe imposto culturalmente», io mi ribello. Sarebbe come dire che siccome non ci sono argomenti convincenti e per condannare Salò, non resta che il giudizio politico morale, per salvarsi l’anima. Compito della storia deve essere, invece, riportare alla luce la verità dei fatti. È sui fatti che si possono formare giudizi morali, opinioni politiche, valutazioni etiche.
Bobbio. I protagonisti della grande storia del Ventesimo secolo, perlomeno della seconda parte, non sono due, ma tre. Se dimentichiamo questo conto facciamo una grande confusione. Non c’è stato solo il fascismo e il comunismo, ma anche la democrazia. È il terzo “incomodo” che ha vinto. Per cui, quando ci si schiera con l’antifascismo, nell’antifascismo è compreso anche il comunismo, così come quando si sceglie l’anticomunismo, nell’anticomunismo è compreso il fascismo. L’antifascismo comprende due posizioni diverse, i comunisti quanto i democratici, unite fra di loro nell’anti, ma separate per tante altre cose che sarebbe troppo facile ricordare. Così, quando tu fai dell’anticomunismo, nell’anticomunismo non è soltanto compresa la democrazia, ma anche il fascismo, tanto è vero che se tu sei un anticomunista viscerale, ti avvicini necessariamente al fascismo, come se tu sei veramente un antifascista, non puoi non aver avuto legami con i comunisti. Questo mi è parso chiaro quando ho commentato Augusto Del Noce, e ho fatto presente che il suo anticomunismo radicale, filosofico, metafisico, religioso, lo conduceva naturalmente vicino a Giovanni Gentile. Similmente come un antifascista viscerale, mi si permetta quest’espressione, è inevitabilmente portato a dare una qualche ragione, se non altro per le alleanze che ci sono state durante la resistenza, ai comunisti. La cosiddetta guerra civile europea è stata una lotta a tre e non a due e quindi erano destinati a vincere i due che si fossero alleati contro il terzo rimasto isolato. Come del resto è avvenuto.

In questione, però, c’è quella che De Felice chiama «gerarchia degli antifascismi», secondo la quale nella politica italiana del dopoguerra per essere antifascisti “veri” bisognava non essere anticomunisti.
Bobbio. Ho fatto parte dell’azionismo italiano, quando ho fatto politica. Perciò sono sempre stato non comunista. Sono stato protagonista, negli anni Cinquanta, di una nota polemica con alcuni intellettuali comunisti e alla fine anche con Palmiro Togliatti. Azionisti e comunisti hanno sempre litigato fra di loro anche durante la Resistenza. Dicevamo noi azionisti: «No ai comunisti. Se voi andate scrivendo sui muri “Viva Stalin”, noi, nello stesso tempo, gridiamo “Giustizia e libertà”».
Altro, quindi, è un’alleanza tattica, come l’America alleata alla Russia, un’alleanza contingente per combattere il nemico comune, altro è un’identità politica. Da Ferruccio Parri a Ugo La Malfa, da Leo Valiani a Vittorio Foa, non c’è mai stata alcuna attrazione verso il comunismo all’interno del Partito d’azione. Dopo la diaspora e la sconfitta elettorale, quasi nessuno ha scelto di militare per i comunisti. Ma non si può dire neanche che abbia avuto quella egemonia culturale di cui ha parlato Augusto Del Noce ieri e di cui parla oggi Ernesto Galli della Loggia.
De Felice. Ma l’egemonia culturale nel dopoguerra chi l’ha avuta? Non certo Benedetto Croce…
Bobbio. Ci sono state due egemonie, non possiamo negarlo, lo stesso Galli lo ha riconosciuto: quella marxista – pensiamo alla rilevanza di Antonio Gramsci e del marxismo italiano – e quella liberaldemocratica che si è espressa per esempio, nel «Mondo» di Mario Pannunzio.
De Felice. Ma siete voi, azionisti, che nell’Italia del dopoguerra, al vino comunista avete dato il marchio di garanzia, il riconoscimento doc.
Bobbio. Personalmente non sono mai stato comunista per ragioni ideali, ma non sono mai stato anticomunista per ragioni politiche, perché ci opponevamo all’egemonia della democrazia cristiana.
De Felice. Un momento: concedo che durante la guerra uno gli alleati non se li sceglie, “à la guerre comme à la guerre”. Inglesi e americani si trovarono al fianco di Stalin perché quello “scapestrato” di Adolf Hitler aveva aggredito l’Urss. Ma nel dopoguerra le cose cambiano: non si poteva far finta di non sapere cosa pensavano e facevano quei signori che stavano al Cremlino.
Bobbio. Nonostante tutto, anche ora, nel 1995 continuo a non mettere sullo stesso piano il fascismo e il comunismo.
De Felice. Ma allora io introdurrei un’altra distinzione: gli attori sono tre e non due: Hitler, Mussolini e Stalin. Voglio dire che dopo cinquant’anni è venuto il momento di distinguere tra nazismo e fascismo. Quella del nazifascismo è un’invenzione da tempo di guerra. Fu inventata dagli americani come strumento di propaganda. Fu legittimata poi dai partigiani contro la repubblica di Salò.
Bobbio. Ma abbi pazienza! Dopo le leggi razziali e la fondazione della repubblica di Salò che differenza c’è tra nazismo e fascismo? Nessuna!
De Felice. C’è una grande differenza fra il fascismo del regime e il fascismo della repubblica sociale occupata dai tedeschi. Gli ebrei italiani fino a 20-25 anni fa facevano differenza fra fascismo e nazismo secondo le tesi dello storico Leon Poliakov, anche se adesso hanno cambiato idea.
Bobbio. Ma a me questa distinzione interessa meno, a me interessa quella tra fascismo e comunismo.

François Furet, storico della Rivoluziona francese, ha scritto un libro, che sta per uscire in Italia da Mondadori, Il passato di una illusione. Il titolo si riferisce all’idea comunista ma in relazione all’idea fascista. Furet insiste, infatti, su ciò che comunismo e fascismo hanno in comune: l’odio per la borghesia e per la democrazia. Ma, soprattutto, il totalitarismo. Questo concetto non sarebbe penetrato in Italia, sostiene Furet, a causa dell’egemonia antifascista dei comunisti.
Bobbio. Non è affatto vero. Anche noi abbiamo adoperato molto la categoria del totalitarismo. E cito un libro di cui Furet fa molto uso L’ère des tyrannies di Elie Halévy[3]. Il totalitarismo è una categoria che si adatta ai mezzi di propaganda di massa di uno stato moderno, ma quello che ancora serve a caratterizzare i regimi di Stalin, Hitler e Mussolini è la vecchia nozione di tirannia. Quella del tiranno è un’idea antichissima. Basta leggere i libri VIII e IX della Repubblica dove Platone delinea la figura del tiranno con tratti ancora attualissimi. Ci sono sempre state nella storia forme cesaristiche del potere.
De Felice. Ma rispetto e L’ère des tyrannies c’è una variante, e io sono invece d’accordo con Furet, la società del nostro secolo “attivizza” le masse in un modo che prima non era possibile. Se vogliamo parlare dei regimi comunista, nazista e fascista, dobbiamo mettere da parte il pensiero liberale classico, Montesquieu, ma anche Max Weber, perché non è più la loro realtà quella in cui si esercita questa nuova forma di coercizione. Il Novecento, in questo campo, ha fatto passi da gigante, purtroppo. Rispetto ai tiranni di Platone, Mussolini, Hitler e Stalin, rispondono a una logica che potremmo per assurdo definire “democratica”. La loro tirannia si basa sul consenso delle masse popolari.
Bobbio. In ogni caso l’elemento tirannico o totalitario che comunismo e fascismo hanno in comune, riguarda la sfera del potere politico. Nelle altre due grandi sfere su cui si esercita il potere, quella economica e quella della cultura, prevalgono di gran lunga le differenze: la Germania di Hitler, a differenza dell’Italia di Mussolini e della Russia di Stalin, accetta il sistema capitalistico e quanto all’ideologia tra i due regimi, c’è la differenza che passa tra Il Capitale di Karl Marx e Mein Kampf di Hitler. Non si può porre l’idea universalistica dell’emancipazione dell’uomo sullo stesso piano del razzismo. La cultura italiana è arrivata al punto da non capire più la differenza tra l’uno e l’altro? Se è così, c’è davvero da essere preoccupati.
De Felice. Comunismo e fascismo, preferiscono parlare del prodotto nazionale, sono figli della guerra e dell’era delle masse iniziata con la guerra del ’14. Il fascismo non può essere rappresentato solo come una reazione al comunismo: vuole creare e instaurare una nuova epoca dell’umanità, vuole anche lui creare un uomo nuovo, come il comunismo. Entrambi esprimono una visione di progresso, sono il prodotto di una ricerca, di una tensione verso un futuro di “riscatto”. Il nazismo, proprio per il suo intrinseco razzismo, non si cura minimamente del progresso dell’umanità, anche perché l’uomo “nuovo”, l’ariano, c’è già, si tratta soltanto di ripulirlo dalle incrostazioni, di rimetterlo a nuovo. Mentre comunismo e fascismo pensano a soluzioni diverse, un nuovo tipo di economia e cultura ai nazisti non interessa, perché in realtà l’economia c’è già, si tratta solo di renderla più funzionale, togliendo di mezzo gli ebrei che secondo l’ideologia del Führer, la dominano dall’interno e la condizionano dall’esterno. Non identifichiamo nazismo e fascismo, non sono la stessa cosa. E non lo dico per diminuire le responsabilità di quest’ultimo, secondo intenzioni che qualcuno, sbagliando, mi attribuisce. Per Hitler il razzismo è la pietra basilare del suo edificio politico, per il fascismo no.

Ha scritto Furet: «Niente di essi, cioè di fascismo e comunismo, era necessario e la storia del nostro secolo poteva svolgersi diversamente, basta immaginare un ’17 senza Lenin o una Germania di Weimar senza Hitler». Ma anche, aggiungiamo, un’Italia senza Mussolini.
De Felice. Mi pare fosse stato Angelo Tasca a dire che i semi erano molti ma pochi riuscirono a diventare alberi. La situazione alla fine della guerra, nel 1918, era aperta, dinamica, sovraeccitata: le grandi masse erano oramai arrivate sulla scena della storia. Per anni la cultura italiana ha rifiutato il dibattito sull’influenza della “personalità” nella storia. Si parlava solo di “strutture”. Io invece penso che le tre tirannie del Novecento debbano tutto alle personalità dei loro fondatori. Un fascismo senza Mussolini, un nazionalsocialismo senza Hitler, un comunismo senza Lenin e Stalin, sarebbero nati lo stesso, ma sarebbero stati ben poca cosa.

Fino a che punto questi grandi contrasti storici si fanno sentire nella politica di oggi? Che fare? Bisogna lasciarseli alle spalle? O bisogna ancora approfondirli?
Bobbio. Approfondiamo queste contrapposizioni, nel senso del dibattito, del confronto delle idee, come stiamo facendo qui. E così cerchiamo di lasciarcele alle spalle. Andiamo al di là del fascismo e del comunismo, dobbiamo farlo perché siamo l’unico Paese del mondo in cui ancora ci sono due parti politiche che si fronteggiano usando come arma l’uno contro l’altra, quelle insegne politiche. Persino i due tronconi del Partito popolare si sono reciprocamente insultati come “comunisti” e “fascisti”. Diciamo basta a queste cose. Fascismo e comunismo non corrispondono a nulla di attuale.
De Felice. Questa mi sembra una affermazione sacrosanta: quelle due parole non rappresentano nulla che abbia un richiamo reale all’attualità della nostra società di oggi. Né è possibile, un recupero di attualità. Pericoli veri per la democrazia francamente non ne vedo. Per quanto si parli male di questo popolo italiano, mi sembra sia migliore di come noi stessi lo descriviamo. Non voglio dire che il nostro regime democratico sia perfetto. Ma la democrazia, si sa, è per definizione perfettibile. Perché al contrario del totalitarismo che non permette di essere antitotalitari, la democrazia consente cittadinanza politica anche ai suoi nemici. Perciò bisogna fare attenzione. Ai giovani dico: ponetevi di fronte a questi problemi con la vostra coscienza democratica, con la vostra cultura, quale che sia. Noi storici, noi vecchi intellettuali possiamo offrirvi una fotografia del passato la più vicina possibile al vero e non falsificata dalla propaganda e dalla faziosità. Con la pacatezza i problemi si scioglieranno. Non continuiamo a dire da destra: «Figli di puttana» e da sinistra «Figli di troia» – scusate i termini – perché così non ne verremmo mai fuori.

Un giornale americano ha lanciato un concorso fra i suoi lettori: definire con una sola parola il Novecento. In che secolo siamo?
Bobbio. Il secolo della violenza portata alle estreme conseguenze. Perché questo è il secolo di Auschwitz e di Hiroshima. La mia utopia per il futuro è una società che risolva i suoi conflitti senza violenza.
De Felice. Sono d’accordo con la definizione di Bobbio: bisogna mettere l’accento sulla violenza di massa.
Bobbio. Certo: non siamo il secolo della bomba atomica?
De Felice. Voglio fare una domanda a Bobbio: se fosse dipeso da lui avrebbe buttato la bomba atomica per farla finita con la guerra?
Bobbio. Probabilmente sì. Gli americani furono costretti a costruire una bomba atomica e a buttarla. Non credo che l’abbiamo fatto con leggerezza. Così è il secolo ventesimo.

E per l’Italia del Ventunesimo secolo?
Bobbio. Spero che si realizzi il sogno di un’Italia normale…
De Felice. … con una sinistra normale, con una destra normale.

https://musicaestoria.wordpress.com/...chiviare-1995/



[1] Prima edizione Cedam, Padova 1948; ultima Ilisso, Nuoro 2003.
[2] P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995.
[3] Gallimard, Parigi 1938.