di Furio Diaz – «Mondoperaio», gennaio 1974, pp. 65-69
In principio, fu, ancora una volta, Gramsci. Nel dopoguerra italiano, anche a un partito comunista Lenin, con le sue dure scomuniche contro l’intellighentia, che era ed era sempre stata «impotente», non rappresentava una forza con cui gli operai potessero fare un accordo, serviva poco. Soprattutto, la concezione leninista del partito come élite di rivoluzionari di professione contraddiceva essenzialmente le esigenze del partito di massa che i comunisti italiani stavano costruendo dopo la liberazione; un partito di massa nel cui ambito, conformemente a certe tradizioni di tutta la storia italiana, rivissute con intensa partecipazione da Gramsci, da Togliatti ecc., gl’intellettuali non potevano non trovare spazio e peso. D’altronde, non era neppure il caso, almeno sotto questo specifico riguardo, di prendere in considerazione il modello di sviluppo dello stesso partito bolscevico, dal selettivismo qualitativo sul piano socio-politico dell’età di Lenin alla crescita in un apparato burocratico, dove la selezione era stata affidata alle «purghe» di fazione, del periodo staliniano.
Intellettuali organici e intellettuali tradizionali
Gramsci, invece, il quale aveva affrontato essenzialmente la questione in certi suoi scritti dal carcere del 1930[1], aveva tentato di abbozzare una concezione del problema degli intellettuali che, richiamandosi esattamente alle linee del pensiero marxiano, consentisse peraltro un recupero della tradizione culturale italiana, e più generalmente europea. Ecco, pur nella necessaria sommarietà e frammentarietà della sua analisi, la dicotomia che coglieva un fondamentale aspetto del problema: da un lato gl’intellettuali che «ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea organicamente», ricevendo dalla loro opera «omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico»; d’altro lato, le «categorie intellettuali preesistenti» che ogni gruppo sociale, nell’affermarsi in seno allo sviluppo storico, trova e che anzi appaiono «come rappresentanti una continuità storica ininterrotta anche dai più complicati e radicali mutamenti delle forme sociali e politiche»[2].
Non è questa la sede per esaminare ancora, sul piano teorico e storiografico, queste celebri proposizioni gramsciane e i loro possibili sviluppi e applicazioni. Per il momento Gramsci, pur tra comprensibili oscillazioni e oscurità, tendeva a mediare la suddivisione, notando come il gruppo sociale «che si sviluppa verso il dominio» si crea i propri intellettuali «organici», nel senso ampio di un ceto di uomini capaci di «elaborare criticamente l’attività intellettuale… ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo»; ma, contemporaneamente, quel gruppo svolge una «lotta per l’assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali, assimilazione e conquista che è tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici»[3].
Era evidente, anche nell’esplicito accenno alle recenti discussioni in proposito dell’«Ordine nuovo», che Gramsci aveva più che altro in mente ormai il nuovo gruppo sociale aspirante al dominio, le classi lavoratrici, sicché il concetto di intellettuale doveva acquistare «un’estensione molto grande», articolandosi nelle due funzioni subalterne affidate agli intellettuali, quella di fornire certi quadri per il conseguimento del «consenso ‘spontaneo’ dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale del gruppo fondamentale dominante», e quella di nutrire l’«apparato di coercizione statale che assicura ‘legalmente’ la disciplina di quei gruppi che non consentono né attivamente né passivamente»[4]. Dove, dal punto di vista della motivazione psicologica e politica, s’incontravano le esigenze di momenti storici che potevano coincidere, ma potevano anche distanziarsi: nel primo caso la situazione di paesi dove le classi lavoratrici avessero compiuto la rivoluzione socialista, nel secondo quella di paesi dove ciò non fosse avvenuto. Con la conseguenza, che la seconda delle due funzioni sopraindicate, quella relativa all’apparato coercitivo dello Stato, pur così importante per la realtà sovietica, finiva per avere meno rilievo, nell’elaborazione di Gramsci, della prima, assai più attuale e premente in situazioni, come quella italiana, dove il movimento operaio era ben lontano dalla conquista del potere.
Nella prospettiva di questa funzione del ceto intellettuale, rivolta alla «società civile» anziché allo Stato, assume allora in Gramsci le sue caratteristiche e il suo valore storico il «partito politico moderno», come strumento ad un tempo per la formazione degl’intellettuali «organici» del gruppo sociale dominante o che tende al dominio, e per la «saldatura», che sempre il gruppo vuol realizzare, tra questi suoi intellettuali organici e gl’intellettuali tradizionali (i quali poi, si sa, sono essenzialmente, come tipo abituale, «volgarizzato», filosofi, letterati, artisti, ecc.)[5].
Non ha qui gran rilievo la considerazione dei dubbi e delle perplessità che questa visione, dove la riflessione storica si frammischia di continuo alla proposta politica, potrebbe suscitare come interpretazione valida per le più diverse manifestazioni del fenomeno, in epoche e situazioni concrete diverse. Basti pensare alla funzione, assai più articolata e complessa nei confronti della struttura di cui potevano più o meno considerarsi espressione, esercitata da ceti intellettuali in vario modo «in anticipo» sulle esigenze e sugli obiettivi del gruppo sociale che si affacciava al dominio nell’età loro, i philosophes nella Francia del ‘700, alcuni gruppi della stessa intellighentia russa dell’800 (populisti ecc.). A parte il suo notevole valore interpretativo per il momento storico cui immediatamente si riferiva (e che se mai ebbe il torto di tendere a generalizzare troppo), la posizione di Gramsci qui c’interessa per l’influenza che ebbe nel determinarsi, con consapevolezza più o meno espressa, di una «politica verso gl’intellettuali» del PCI negli anni di questo dopoguerra. Può dirsi, infatti, che in gran parte il rapporto tra il partito comunista e gl’intellettuali costituì allora un trasporsi nella prassi delle idee, e anche delle incertezze, di Gramsci (il legame delle quali, del resto, con testi marxiani e con successive discussioni del marxismo europeo, non sarebbe difficile indicare).
Da Gramsci a Togliatti
Il partito comunista italiano, quale si presentava dopo la liberazione, possedeva già, come, in maggiore o minor misura, tutti i partiti comunisti europei, un proprio nucleo di «intellettuali organici». Erano i vecchi dirigenti del partito al momento della sua costituzione, forgiatisi poi nella clandestinità, nell’esilio alla scuola della III Internazionale e del partito sovietico. Di origine sia operaia o contadina sia intellettuale stricto sensu (ma questi si erano di gran lunga lasciati alle spalle le peculiarità proprie degl’«intellettuali tradizionali»), formavano ormai un gruppo di funzionari di provata esperienza, ai quali, in tempi più recenti, nell’ultimo periodo della emigrazione e attraverso le lotte della guerra partigiana, si erano aggiunti altri «quadri», usciti anch’essi o dall’organizzazione clandestina nelle fabbriche o da elementi intellettuali antifascisti che avevano scelto la via della rottura completa con la società circostante, per entrare nelle file del partito.
Provvisto di questo solido nucleo, il PCI apparve subito affascinato dalla prospettiva indicata da Gramsci nei confronti degl’intellettuali: assimilare gl’intellettuali tradizionali, fonderli progressivamente con gl’intellettuali organici, «farli diventare intellettuali politici qualificati». Ma l’affascinamento rimase piuttosto epidermico, la prospettiva fu seguita almeno all’inizio molto in superficie. Elementi obbiettivi lo rendevano tutt’altro che facile. Da un lato la diffidenza, spesso giustificata, spesso esagerata da mentalità acquisite nella clandestinità e nell’esilio, che il nucleo dirigente «funzionarile» nutriva nei confronti degli intellettuali, di tipi, qualità, gradi, i più diversi e svariati, che la stessa forza mostrata dal partito, nella guerra di liberazione e dopo, attraeva in gran numero. D’altro lato, il reale distacco di formazione e di mentalità, che rendeva difficilmente assimilabili al tipo d’intellettuale qualificato secondo le formule del comunismo internazionale, sempre più o meno esplicitamente riferentisi al modello sovietico, intellettuali cresciuti nell’ambito di tradizioni culturali assai diverse, in seno a una «società civile» in fondo individualistica, nonostante, anzi quasi come reazione alle recenti velleità collettivistiche del fascismo.
Non era un problema semplice, e le cure che il partito comunista italiano vi dedicò, anche attraverso discussioni teoriche per lo più ispirate dalle colonne di «Rinascita» o di «Società», rivelano quanto i suoi dirigenti (e Togliatti certamente più di tutti) ne avvertissero l’importanza. Ma, nell’urgenza della lotta politica, le soluzioni non possono venire da discussioni teoriche, quale ne sia il livello. E la via che allora il PCI adottò fu, conforme alla saggezza tattica di Togliatti, una vita tipicamente di compromesso: limitare la vera e propria assimilazione di «intellettuali tradizionali», la loro piena trasformazione in intellettuali politicamente qualificati, del tutto fungibili quanto a mansioni di partito con i funzionari del vecchio nucleo, mediante la selezione delle scuole di partito, delle esperienze in URSS, di un prudente noviziato subalterno nell’apparato del partito stesso e delle organizzazioni sindacali; utilizzare la maggior parte degli intellettuali che al PCI avevano più di recente aderito, come preziosi ausiliari specialmente per mansioni «esterne», di elaborazione e discussione culturale, di esercizio delle cariche pubbliche, dall’amministrazione degli enti locali alla rappresentanza parlamentare. Era, anche questa, una forma di assimilazione, e non sarebbe esatto dire che le possibilità di ricambio, di osmosi tra le due categorie fossero escluse, anzi. E neppure è possibile dare un giudizio netto di positività o meno sui risultati ottenuti da una tale linea. Certo, ci furono intellettuali, specie i più giovani, che attraverso le suole di partito o la FGCI o le camere del lavoro, s’inserirono perfettamente e divennero «intellettuali organici» in senso pieno, fino a raggiungere spesso i più alti gradi dirigenziali, come tutti sanno. E vi furono invece intellettuali che la stessa milizia nell’attività culturale o nelle rappresentanze «esterne» del partito, in una posizione spesso difficile, di tensione, di diffidenza reciproca con gli organi dell’apparato, contribuì a stancare ed alienare dall’organizzazione o addirittura dalla politica del PCI. Ma è chiaro che a questo punto il rapporto del partito comunista con i suoi intellettuali diviene solo un aspetto di tutto lo sviluppo della sua vicenda politica, dei suoi successi e delle sue crisi su di un piano più generale. E quindi un giudizio in proposito trascende i problemi dell’organizzazione del partito nei confronti degl’intellettuali, nel senso che implica una valutazione politica di portata molto più ampia e complessa.
La tradizione socialista
Qui, può interessare solo una certa comparazione tra questo «modello di sviluppo» comunista e quello che si può giungere a rintracciare nella politica organizzativa del PSI. Nel partito socialista, in fondo, gl’intellettuali organici si erano fin dall’inizio confusi con gl’intellettuali tradizionali (e appare qui un altro limite della generalizzazione gramsciana)[6]. Per non parlare di Antonio Labriola, i fondatori e dirigenti del partito, dallo stesso Costa ai Treves, Turati, Bissolati, Modigliani ecc., e giù, in certo senso fino ai Mussolini, Serrati, ecc., erano stati (spesso magari al livello giornalistico, anch’esso previsto dalla definizione gramsciana) intellettuali tradizionali, studiosi di politica, di letteratura, di storia, o magari avvocati «umanisti» o anche autodidatti cultori di filosofia, di marxismo, di dottrine politiche socialiste e anarchiche, i quali avevano preso l’iniziativa di dare unità ideologica e organizzativa alle aspirazioni delle masse lavoratrici tra gli ultimi decenni del secolo XIX e i primi del XX. A loro si erano via via aggiunti, in una pittoresca confusione tutt’altro che «selettiva», quadri venuti dalle file operaie e talora contadine, pieni di entusiasmi e di spirito di sacrificio, anche se, ovviamente, di capacità organizzative e politiche assai spesso limitate.
Il processo di assestamento, di più precisa organizzazione interna e di più efficace attrezzatura per i rapporti «esterni», avviatosi dopo la prima guerra mondiale in concomitanza con i grandi successi elettorali e la posizione di primo piano che il partito socialista aveva assunto nella politica italiana, era stato stroncato dall’avvento del fascismo. Né, per una serie di circostanze obbiettive che non tocca qui esaminare, il PSI aveva potuto darsi una organizzazione di qualche consistenza durante la clandestinità e l’esilio. Certo, anche sui socialisti il movimento di liberazione aveva avuto i suoi effetti, facendogli acquisire energie nuove, suscitandogli nuove spinte ideologiche e organizzative. Ma in fondo anche l’apporto di nuovi quadri provenienti dalle classi lavoratrici non aveva modificato il tipo fondamentale d’intelaiatura del partito, improntato (l’esempio di Rodolfo Morandi è significativo) al primato degl’intellettuali tradizionali nella stessa dirigenza politica, ideologica e organizzativa. D’altronde, esaurita, con la scissione di palazzo Barberini, l’equivoca associazione con elementi di destra socialdemocratica, il lungo periodo del patto di unità d’azione con i comunisti non poteva certo favorire un processo di revisione autonoma delle prospettive politiche e organizzative del partito, e in esse del suo rapporto con gl’intellettuali. Poteva anzi allora essere naturale che in seno al movimento operaio italiano, unificato dalla rigida alleanza tra PSI e PCI e in certo senso quindi, dati i rapporti di forza, egemonizzato da quest’ultimo, nell’orientamento e nell’azione politica, il partito socialista presentasse almeno l’alternativa di una organizzazione più elastica, anche se meno efficiente, di una maggiore apertura, più libera da schemi ideologici e da modelli esterni, verso ogni tipo di apporto alla sua struttura e alla sua opera, particolarmente da parte degl’intellettuali, secondo la linea del resto tradizionale di certe inflessioni umanistico-libertarie della sua visione del mondo.
Perciò il problema del rapporto fra partito e intellettuali, specie con riguardo alla struttura organizzativa, si pose per il PSI in modo nuovo e pressante proprio per il periodo successivo al 1956 – e questo può in parte a giustificare l’estrema sommarietà dei cenni storici che precedono. Liberato dalla tutela comunista, proiettato dalla sua nuova iniziativa politica in una posizione chiave per gli sviluppi della società e della vita pubblica in Italia, il PSI si trovò ad affrontare con le sue forze il punto che del resto era diventato nodale per l’esistenza e l’azione di qualsiasi partito in una democrazia moderna: quello di disporre di un apparato efficiente e organico, al di là delle improvvisazioni, dei sacrifici personali, della precarietà delle prestazioni, della casualità delle scelte, che avevano caratterizzato (per molti riguardi non certo positivamente) la sua struttura e la sua azione passate.
L’esperienza della DC
In uno sguardo d’insieme, sbrigativo e manchevole nell’analisi particolare quale questo deve necessariamente essere, si può prescindere, nell’esame di questo punto conclusivo, dal breve intermezzo della riunificazione, che, data la sua natura epidermica ed effimera, non ha inciso sostanzialmente sul processo di sviluppo della questione: di questo mi limiterò dunque a segnalare alcuni tratti che mi sembrano caratterizzanti e significativi, anche per un orientamento futuro.
Il problema si era posto ormai con tutto il suo rilievo anche per gli altri partiti italiani. Ma dei due maggiori, mentre il partito comunista portava avanti, bene o male, la linea di sviluppo cui sopra abbiamo accennato, la Democrazia cristiana aveva ormai trovato una sua via particolare: insediatasi al potere essenzialmente come partito di opinione, si era creata un apparato in virtù delle armi fornite dall’esercizio stesso del potere, e del sottogoverno. Non è stato difficile a un partito mantenutosi al governo ininterrottamente nei venticinque anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, forgiarsi una struttura, essenzialmente di intellettuali nel senso più ampio e meno qualificante della parola, ma in certo modo «organici» come espressione degl’interessi di gruppi sociali accumunati da una linea di moderatismo trasformista, integrato nel processo di sviluppo neocapitalistico: non si trattò certo di intellettuali tradizionali, con le specializzazioni filosofico-politico-letterarie indicate da Gramsci, ma di professionisti, di laureati in materie economiche e finanziarie, d’impiegati, di tecnici, d’insegnanti ecc., disposti a lavorare, magari a mezzo tempo, per il partito che poteva aiutare la loro carriera attraverso tutte le pieghe del governo e del sottogoverno. E in complesso, per le stesse opportunità pratiche offerte da un partito tanto consolidato al potere, tale apparato crebbe e si sviluppò con indubbi requisiti di efficientismo.
Ne restavano in gran parte fuori proprio gl’intellettuali in senso stretto, quei cultori di studi umanistici e politici che Gramsci aveva chiamato «tradizionali»: ma che farci se in maggioranza essi erano di sinistra, contro lo schema dello stesso Gramsci? E in un’epoca di tecnologia, di crisi delle ideologie e dei loro contrasti, tornava in fondo comodo alla Democrazia cristiana valersi, ai fini del suo esercizio del potere, di un apparato, forse privo di punte eccelse, ma capace di organizzare punti di riferimento interclassisti, dai quali richiamare ancora e sempre le preferenze degli elettori. Tanto più che gl’intellettuali «qualificati», ad esempio i professori universitari, magari in prevalenza di diritto e di medicina, d’ingegneria e di economia, non facevano difetto alla DC, in certi gangli direzionali e soprattutto in sede di parlamento e di governo.
L’apparato del PSI
Il PSI fu quindi l’ultimo dei «tre maggiori» a dovere affrontare il problema dell’apparato. Ed era forse anche naturale che, reduce dall’intima alleanza comunista e di fresco iniziato ai sistemi del governo democristiano, seguisse, non sempre con molta consapevolezza, una via di mezzo fra quella del PCI e quella della DC. Non poté improvvisare gli strumenti selettivi dell’organizzazione comunista per la creazione di «intellettuali organici», ma ne sentì fortemente la tentazione; non ebbe la pratica e la spregiudicatezza e i mezzi finanziari di sottogoverno che tanti anni di potere avevano dato ai democristiani, ma s’ingegnò di apprendere il tutto al più presto.
Ne risultò certamente un ibrido. L’apparato socialista si trasformò, spostandosi dai vecchi, più o meno romantici e commoventi, quadri operai (poco o punto pagati e ridotti a svolgere il lavoro di partito nei ritagli di tempo libero), verso un prevalente tipo di quadro intellettuale in senso lato: ma questi nuovi dirigenti, centrali e periferici, non furono gl’intellettuali «organici» costruiti ormai in serie dal Partito comunista, con elementi non importa se di origine operaia o intellettuale «tradizionale»; e non furono neppure i tecnocrati abili e rotti a tutte le esperienze e le astuzie clientelari, dei quali progressivamente la Democrazia cristiana era riuscita a guarnire le sue sezioni. Furono piuttosto un’accolta di piccolo-borghesi di buona volontà, e spesso di molta ambizione, che videro nei diversi gradi dell’apparato socialista l’optimum, come punto d’incontro fra le loro convinzioni politiche e le loro necessità di vita. Di qui i vantaggi e gli svantaggi di questo tipo di organizzazione, su cui gravano certamente le frettolosità e l’improvvisazione che hanno presieduto al suo farsi: non lo schematismo o il fondamentale dogmatismo del funzionario comunista, ma neppure la sua serietà professionale, la sua sicurezza di collocazione organica, che gli conferisce notevoli capacità di giudizio obbiettivo; non il cinismo e l’opportunismo di molti dirigenti democristiani, ma neppure la loro esperienza degli affari, la loro souplesse nel condurre le stesse operazioni d’influenza clientelare e di sottogoverno. E insieme la presunzione di aver saputo accogliere e magari mediare e superare gli elementi positivi degli uni e degli altri.
Ne è risultata, invece, una mediocrità magari laboriosa e convinta, ma in genere assai poco aurea quanto a intelligenza dei problemi e a efficienza di azione. Con il rischio che questa «intellettualizzazione» dell’apparato del partito molto spesso si alimenti, al di là dello schematismo gramsciano degli «organici» e dei «tradizionali», d’intellettuali «mancati»: l’eterno studente che fa il segretario di federazione o di sindacato, l’impiegato velleitario che assume i compiti più importanti nell’«esecutivo», l’avvocato senza clienti o il medico pasticcione che divengono amministratori negli enti locali, danno la scalata agli assessorati comunali, provinciali, regionali, gli studiosi falliti che divengono depositari della politica del partito nei loro settori di specializzazione e così via.
Il problema politico
È ancora un pericolo piuttosto che una realtà, ma il rischio c’è, per lo stesso carattere tumultuario e d’improvvisazione dell’assimilazione tutt’altro che organica di elementi provenienti da un variegato ceto genericamente intellettuale nelle strutture del partito e nelle sue rappresentanze amministrative e politiche. È un pericolo che può comportarne un altro, non certo minore: una tensione più o meno esplicita, una tendenziale frattura, fra questi intellettuali più direttamente inseriti nel partito e nelle sue attività politiche e gl’intellettuali che al partito aderiscono o per esso simpatizzano, ma non s’iscrivono in un legame organico con la sua organizzazione e col suo lavoro. E non importa se intellettuali di questo secondo tipo esercitino talora di fatto, per situazioni di lavoro e di prestigio personale, attività di rilievo per conto del partito, in organizzazioni scientifiche o di categoria, nella pubblicistica, nell’università, nella burocrazia, o addirittura a livello ministeriale, per non parlare di qualche massimo dirigente. Il distacco, la divaricazione restano: essenzialmente, tra i quadri di una organizzazione che ha assimilato senza mediazione troppi intellettuali di attitudini generiche e di relative capacità, dandogli però la pretesa, e quasi il senso di rivincita, di sentirsi «organici», espressione strutturale e diretta del partito, e tanti intellettuali qualificati, divenuti come alienati, estranei al lavoro del partito, certo spesso per loro vecchi difetti d’individualismo e di specialismo, ma molto anche a seguito del piglio d’indifferenza, quasi di fastidio se non di disprezzo, che le istanze ufficiali del partito hanno assunto verso di loro.
Finisce così per divenire assai più difficile l’intesa e la comprensione fra queste due categorie, di una comune seppur generica matrice intellettuale, che non tra intellettuali qualificati e quadri politici e sindacali ancora rimasti più genuinamente legati alla matrice operaia o contadina. La conseguenza è infine che molti tra i migliori intellettuali o vengono male utilizzati in lavori settoriali e di secondo piano o, tutti assorbiti dalla loro attività di specialisti, … quasi dimenticano di militare nelle file del PSI.
Non è facile intravedere prospettive di superamento di uno stato di cose, maturato rapidamente e come inconsapevolmente, in certo senso quasi per una forza d’inerzia uscita dal contatto della tendenza tradizionale di un partito, rimasto per anni all’opposizione, e in un ruolo un po’ subalterno, con la spinta non sempre univoca prodotta dall’esercizio, anch’esso per certi aspetti subalterno, del potere. È una diagnosi parziale e prevalentemente sintomatica, non può e non vuole essere una proposta. Sembra qui solo da dire che l’instaurazione di un rinnovato rapporto, di fiducia e di compenetrazione, tra il partito e i suoi intellettuali, di tipo «tradizionale» finché si vuole ma di livello seriamente qualificato, possa, assai più di qualsiasi organicismo o tecnocratismo di accatto, portare un contributo efficace alla ridefinizione di una peculiare fisionomia del PSI, di una sua linea politica coerente e incisiva.
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[1] Gl’intellettuali e l’organizzazione della cultura, I ed., Torino 1949.
[2] Cfr. ivi, VI ed., 1955, pp. 3-4.
[3] Cfr. ivi, p. 7.
[4] Ivi, p. 9.
[5] Cfr. ivi, pp. 11-12.
[6] Un limite che si ricongiunge a quanto sopra osservato circa intellettuali di altre epoche storiche. In fondo «gl’intellettuali tradizionali» che in Italia avevano dato vita e sviluppo politici al movimento socialista, erano gli eredi di una tradizione «progressista», rivoluzionaria, eversiva verso l’establishment, che, già operante nei libertini seicenteschi, prende nuovo vigore e più precisa incidenza politica nei riformisti del ‘700, poi ispira i democratici dell’800, per trovare appunto il suo sbocco nel socialismo.