di Paolo Bufalini – «Rinascita», a. XLII, n. 41, 16 ottobre 1981, pp. 17-18.



Dopo i funerali di Togliatti, nulla abbiamo visto di paragonabile all’ondata popolare di dolore e rimpianto per la repentina morte del compagno Luigi Petroselli, sindaco di Roma. È stata una morte crudele, perché ha stroncato la vita di un uomo giovane, tutto impegnato, con successo, in un’opera alta e difficile, qual è quella del rinnovamento del governo capitolino e dello sviluppo di Roma.
Ancora una volta abbiamo visto passare, dinnanzi alla bara aperta, file interminabili di uomini e donne, da cui per l’ultima volta lo sguardo poteva cogliere l’immagine del caro volto, tornato, dopo la breve drammatica agonia, nella quiete della morte sereno e luminoso. File interminabili di gente del popolo di ogni condizione, ceto ed età, tanti lavoratori, tante donne, e vecchie e ragazzi e giovani; operai e intellettuali; madri e padri con i loro bambini: tutti composti, pur nella commozione, nel reverente saluto che rinnova, con tranquilla sicurezza, l’espressione di una fede. Era, infatti, un alternarsi continuo – tra le lacrime – del saluto col pugno chiuso e col segno della croce. Così il popolo romano ha dato l’addio a Luigi Petroselli, come aveva fatto con Togliatti. Non erano tutti comunisti e, tra i comunisti stessi, vi erano credenti e non credenti. Ma si è visto un popolo unito; un popolo che può sentirsi unito nell’omaggio a uomini che rappresentano un impegno autentico e sincero di rinnovamento, l’anelito alla giustizia e all’unità e perciò può raccogliersi attorno alle bandiere del Partito comunista italiano. È una realtà, questa, è un grande fatto, profondo, toccante e che invita tutti, comunisti e non comunisti, alla meditazione.
Il popolo romano che – dopo trent’anni di lotte e di lavoro, intenso e tenace, dei comunisti, dei socialisti, dei democratici avanzati, laici e cattolici – è riuscito a portare in Campidoglio, nel segno dell’unità delle forze di sinistra e democratiche, un sindaco comunista, ha riconosciuto e salutato in Luigi Petroselli «un grande sindaco».
Tutti eravamo consapevoli, dopo la vittoria del 1976, che per la nuova amministrazione popolare, di sinistra, il prendere nelle sue mani il governo capitolino era compito di estrema difficoltà, da far tremare le vene e i polsi – tanti e tanto gravi e immani erano e sono i problemi accumulatisi nel precedente trentennio. Nel quale uno sviluppo, impetuoso quanto disordinato, a Roma, certamente vi è stato, producendo una diffusione in grandi masse di un miglioramento, pur contraddittorio, del livello economico di vita, e una diffusione dell’informazione e di diversa cultura. Ed è stato uno sviluppo a cui hanno contribuito in modo propulsivo e determinante le lotte dei lavoratori, le battaglie per la democrazia, il progresso, la pace, così che, all’interno stesso di tale sviluppo sono cresciute l’influenza e le posizioni di forza del movimento operaio e democratico e, quindi, le possibilità di contrastarne e superarne i pesanti fenomeni negativi. Ma è stato pur sempre uno sviluppo contorto, lacerato da aspri ed alienanti contrasti strutturali, sociali, umani. E ciò è avvenuto perché, dopo la rottura dell’unità democratica e nazionale del 1947, anche lo sviluppo di Roma è stato condizionato e dominato da interessi di ceti grandi proprietari, da attività speculative, da potenti centri privilegiati. Ed è stato uno sviluppo che si è realizzato sotto direzioni capitoline (di centro-destra, centriste, e in parte di centro-sinistra) più o meno caratterizzate da grettezza di visione, da preoccupazioni clientelari, da difesa di privilegi e interessi corporativi; dalla mancanza, innanzitutto, di una moderna e previdente visione e programmazione dell’avvenire della capitale. (Naturalmente, per quanto riguarda la capacità amministrativa di singoli, qualche eccezione c’era, anche allora, ma non poteva certo rompere il cerchio chiuso di una politica conservatrice, a sostegno di interessi speculativi, posta al riparo dell’anticomunismo.)
Dopo la vittoria del 1976, eravamo tutti, dunque, consapevoli dell’estrema difficoltà. Con l’elezione di Giulio Carlo Argan si compì la svolta. La vittoria a Roma del PCI, e la sua scelta per il sindaco, coronava un lungo periodo di lotte di massa, di battaglie democratiche e per il progresso civile (la casa, il lavoro, il verde, il risanamento) e movimenti di pace, libertari e progressisti – nel tempo stesso protesi verso la ricerca dell’accordo, nella chiarezza e distinzione, col mondo cattolico, con la chiesa – orientati e attuati nella strategia dell’unità. Intendo la strategia dell’unità che si costruisce nelle lotte, che alle lotte – col fermo impegno nel superare ogni visione limitata e settaria – dà impronta chiara e sbocco sicuro. Così il PCI, il PSI, le altre forze di sinistra diedero finalmente a Roma – dopo tanti decenni – con Giulio Carlo Argan, un sindaco degno di Roma: un sindaco non di parte, ma capace di dare voce alle aspirazioni unitarie del popolo e alla vocazione universale di Roma.
Quando Petroselli succedette ad Argan – dimessosi per sua spontanea e fondatamente motivata volontà – sorse in molti un altro interrogativo: Petroselli ce la farà? E Petroselli che l’ha fatta, e in modo egregio; e da tale duro impegno – che gli è costato la vita – ha innalzato la propria statura. Di qui cominciò da parte mia una ancor più profonda stima per Luigi Petroselli, con il quale già dal ’69 mi trovavo d’accordo sulle questioni politiche fondamentali. Egli allora, eletto segretario della Federazione romana – dopo essere stato per breve tempo segretario regionale – in una conferenza di organizzazione che ebbe carattere congressuale, si dimostrò capace di guidare l’organizzazione romana del partito a superare una sua difficile crisi, dando prova di solide doti di equilibrio, di chiarezza di idee, di fermezza e insieme di apertura al nuovo ed alle esigenze nuove. In lui, da allora, cominciai a conoscere un uomo lucido e coraggioso, forte (di una forza pacata aliena da asprezze), capace col suo ottimismo di uomo d’azione di incoraggiare e sostenere un compagno in un momento di difficoltà e di amarezza. Petroselli era tanto intelligente che non volle imitare Argan, non soffrì il complesso della grande personalità culturale di lui. Fu se stesso: nel contatto con tutti gli strati del popolo romano, nel forte ottimismo di un militante comunista tempratosi in mille e mille battaglie quotidiane, nel concepire e perseguire, con il lavoro di tutti, con la capacità di realizzazione che gli era propria, un chiaro programma di risanamento e rinnovamento della capitale. E i romani lo hanno conosciuto, lo hanno capito, stimato e amato.
Bisogna dire, però, qualcos’altro, che ha una grande importanza. Nell’analisi della situazione, nel dibattito sui compiti del partito e sui problemi della sua vita interna, Petroselli aveva una visione politica giusta, a un tempo combattiva e unitaria; ed era uomo intransigente e comprensivo. È l’ultima immagine che mi rimane di lui: il nostro colloquio – in due posti vicini della sala del Comitato centrale – poco prima che egli morisse. Ci siamo scambiati opinioni; eravamo d’accordo. Mi strinse il braccio con affetto d’amico, con un lieto sorriso. Così lo ricorderò sempre. E per me, in questo dolore, è qualcosa che mi conforta. Purtroppo, non sempre così sono avvenuti gli estremi commiati con persone care e amate.
Ma che cosa egli ha detto, prima che crollasse senza più speranze di vita? Credo di ricordare abbastanza bene il suo intervento, l’essenziale di ciò che io ne ho colto.
Non solo nelle grandi città – egli faceva notare – si era riusciti a conservare un governo democratico e di sinistra, ma in un altro grande numero di città minori. Nella nostra analisi della situazione, insieme con le minacce e le spinte disgreganti, dobbiamo inserire il concetto che c’è un tessuto unitario che si è mantenuto e che opera nella situazione. Siamo a un punto, anche sul piano mondiale, in cui si pone un’alternativa tra grandi processi di riforma e minacce serie di restaurazione. Ciò, evidentemente – sempre ricostruisco l’intervento di Petroselli -, pone dei problemi a un partito, qual è il partito socialista, che certo è un partito riformatore, riformista, che però si muove in una linea che può sfociare in una direzione diversa. Ma un tale giudizio critico sul corso politico del PSI mette in luce contraddizioni politiche. Se noi siamo in una situazione nella quale, pur dall’opposizione, siamo riusciti a difendere conquiste e diritti dei lavoratori; a vincere grandi battaglie come l’aborto; a mantenere aperte le vie alla sete di verità; se siamo riusciti a mantenere tutto questo e molto altro ancora; se siamo riusciti addirittura ad avere un presidente del Consiglio laico; se la crisi della DC si è aggravata ed è venuta allo scoperto; ciò vuol dire che la situazione è aperta a diversi possibili sbocchi, anche negativi, ai quali anche può concorrere un certo corso politico del PSI. Ma non possiamo poi far seguire la conclusione che ormai il discorso è chiuso, che la DC ha imbragato il PSI in una situazione nella quale non gli resta che prendere o lasciare. Per essere efficaci, nella nostra critica dobbiamo introdurre elementi di contraddizione. Non si tratta di concedere alcunché; ma è o non è elemento di contraddizione il riavvicinamento sui temi della politica estera? È o non è elemento di contraddizione il fatto che c’è un processo ancora, sia pure travagliato, di unità sindacale? Sono o non sono elementi di contraddizione le giunte unitarie? Si è cercato di attaccarci – ha continuato Petroselli – come un partito settario, arroccato: una manovra politica che noi abbiamo respinto e che respingiamo con il documento del Comitato centrale. Ma non dobbiamo ricavarne la conclusione che non esistono più pericoli di settarismo: anzi, esistono gravi pericoli di settarismo. Non solo di settarismo, ma di ritorni viscerali a qualcosa che era stato cancellato dalla nostra storia: al rifiuto della politica, al rifiuto del rapporto con gli altri, a qualcosa che non ha niente a che vedere con l’alternativa democratica.
Ho cercato di ricostruire e ricordare il nucleo essenziale dell’ultimo discorso di Luigi Petroselli, con profondo rispetto ed affetto: un intervento fatto a braccio, privo di pretese, un contributo ad emendare e rendere più chiaro un documento proposto in bozza, e tuttavia nella sostanza un discorso importante e, mi pare, forte. La morte improvvisa e crudele ne ha fatto come un suo testamento politico e ideale.

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