Lo spread, cioè il differenziale di rendimento tra i decennali italiani e quelli tedeschi, è indubbiamente il termometro preferito da politici, economisti e giornalisti. In teoria, e salvo la distorsione provocata dal quantitative easing, misura infatti le aspettative sullo stato di salute economico-finanziario (e politico) dell’Italia dal punto di vista dei mercati. Per i risparmiatori il termometro è invece un altro e riguarda le loro tasche: più semplicemente, il puro rendimento dei titoli di stato italiani, senza alcun calcolo differenziale. Cioè quanto è in grado di fruttare all’anno il gruzzoletto di oltre 1.200 miliardi di euro depositato dalle famiglie italiane in posta o nelle banche del Paese: che sia remunerato dalla banca attraverso i tassi di deposito o che sia remunerato dallo Stato attraverso le cedole dei bond poco cambia, visto che il rendimento è molto simile per la medesima scadenza.
Zero interesse. Ma soprattutto è sempre più basso, ora su nuovi minimi storici spingendo lo spread sotto quota 90, con valori a zero per la scadenza a 7 anni e rendimenti negativi per tutte le scadenze inferiori: l’asta di giovedì 11 dei Btp a tre anni, collocata per 3 miliardi in gran parte agli investitori istituzionali, ha riaperto l’offerta del primo Btp della storia con cedola a zero emesso lo scorso luglio, aggiudicato giovedì a un prezzo di 100,98 che corrisponde a un rendimento lordo su base annua pari a -0,33%. Va bene per le banche: se depositassero le eccedenze presso la Bce dovrebbero sottostare a un tasso overnight di -0,50%, che diventerebbe -0,48% attraverso un impiego interbancario a 3 anni. Va bene per gli investitori istituzionali, che possono puntare su un altro allungo delle quotazioni (cosa che accade quando lo spread si riduce) per rivendere i titoli prima della scadenza conseguendo un utile, oppure possono puntare sulla differenza di rendimento tra Btp e Bund nell’ambito dell’attività di carry trading. Ma nulla di tutto questo va bene per il risparmiatore: per lui la cosa certa è che perderà in tre anni 0,98 euro ogni 100 investite.
Quindi non comprerà Btp e non lo farà nemmeno allungando la scadenza: l’asta dei Btp a 7 anni ha battuto infatti un prezzo di 100,50 per un titolo con cedola annuale dello 0,25% lordo, che corrisponde a un rendimento annuale dello 0,15%, cioè 15 euro all’anno ogni 10mila euro investiti. Analogamente, tutti i capitali italiani impiegati nel risparmio gestito con l’intento di avere un rendimento piccolo ma certo, comprese le polizze vita rivalutabili, si avvicineranno molto presto a ritorni nulli, man mano che i titoli in portafoglio giungeranno a scadenza, lasciando scoperti i costi annui di gestione. Un’esperienza vissuta e criticata da anni dai risparmiatori tedeschi, ai quali i tassi negativi e il quantitative easing hanno tolto qualsiasi prospettiva di rendita finanziaria, anche minima. Le politiche ultra-accomodanti delle banche centrali, infatti, hanno questo difetto non trascurabile: quello di spiazzare gli investimenti di carattere finanziario, oltre a spiazzare il conto economico degli istituti di credito, un male necessario per sostenere l’economia reale e gli elevati livelli dei debiti pubblici.
Zero aspettative. Il gruzzoletto di oltre 1.200 miliardi delle famiglie italiane (che arriva a quota 2mila miliardi considerando anche le imprese), cresciuto peraltro dell’11,1% nel corso del 2020 a causa della pandemia, rimarrà lì inattivo per gli anni a venire: estrapolando le attese sui tassi futuri (forward), sia dalla curva Irs e sia dalla curva dei rendimenti dei titoli di stato dell’Eurozona, si può notare che per i prossimi cinque anni e più non ci sono aspettative di vedere i saggi sostanzialmente sopra lo zero, salvo fiammate inflattive. E anche se così fosse, i nuovi livelli dei debiti pubblici avranno bisogno di tassi reali negativi per poterne intravedere un ridimensionamento nel tempo, dove la svalutazione causata dall’inflazione può giocare un ruolo tanto importante quanto quello in capo alla crescita economica. C’è quindi da scommettere che le banche centrali continueranno a influire sulla curva dei rendimenti, arrivando se necessario al controllo esplicito (targeting): lo fa la Bank of Japan mantenendo a zero il rendimento decennale e lo ha fatto la Fed tra il 1942 e il 1951, quando ha bloccato allo 0,375% i tassi a breve e ha limitato al 2,5% i rendimenti tra i 10 e i 30 anni.
Viste le prospettive, una piccola parte del gruzzoletto bancario degli italiani, così come accade nel risparmio gestito, finirà in borsa sui titoli che staccano dividendi stabili e interessanti, cioè principalmente le utility, accettando dunque un livello di rischio più alto pur di traguardare una remunerazione del capitale. Un’altra parte finirà in Asia e più in generale sui mercati emergenti con le valute più stabili, cioè per oltre il 50% in Cina, dove i titoli di stato offrono ancora rendimenti degni di attenzione, sobbarcandosi però il rischio di cambio. Questo trend è già iniziato negli ultimi mesi e sarà destinato a intensificarsi percorrendo lo stesso cammino dell’inflazione che accompagnerà il recupero economico, sotto la spinta degli ingenti stimoli monetari e fiscali, visto che aumenterà progressivamente il costo implicito nel detenere liquidità.
Risparmio abbandonato. In ogni caso non si tratta di un buon affare per l’Italia: 1.200 miliardi di euro corrispondono a sei volte il Recovery plan, o metà dell’intero debito pubblico, e vederli inattivi sui conti, o peggio vederli finanziare altri Paesi, è un vero spreco di potenzialità. Perché, allora, non dare la possibilità agli italiani di partecipare al rilancio del Paese, offrendo loro una prospettiva di rendimento che sia in grado stimolarne l’impiego e di evitarne l’investimento all’estero? Lo strumento più idoneo è stato individuato da Milano Finanza lo scorso aprile, cioè un nuovo Btp con una cedola completamente variabile legata alla crescita annua del Pil, in misura pari almeno al 40% coincidente con la pressione fiscale, in modo che lo Stato possa riconoscere ai suoi “azionisti” privati, cioè ai cittadini e contribuenti, tassi più alti di quelli di mercato solo quando i conti pubblici lo permettono, preservando l’equilibrio di bilancio e contemporaneamente la ricchezza delle famiglie italiane. Se poi questi Btp potessero essere costituiti come garanzia al 100% del valore nominale nell’ambito di finanziamenti creditizi ai tassi minimi di mercato (cioè quelli interbancari), e in tempi rapidissimi senza alcuna istruttoria (lo Stato assisterebbe questi titoli con una mini-garanzia mirata alla sola volatilità dei prezzi), l’Italia troverebbe agevolmente in casa una soluzione duratura ai problemi di finanziamento della crescita e delle riforme strutturali necessarie a quest’ultima.
Lo conferma il record storico di raccolta, pari a 22,3 miliardi di euro (di cui 14 dai privati), che ha vissuto lo scorso maggio la sedicesima edizione del Btp Italia, dove la prospettiva di percepire un rendimento un po’ più corposo legato all’inflazione, una volta lasciati alle spalle i lockdown, è riuscita a far breccia tra i risparmiatori. Un successo che invece non è riuscito al nuovo Btp Futura, dove il Tesoro ha avuto il braccino troppo corto nell’accogliere la proposta di Milano Finanza, circoscrivendo la crescita del pil al solo premio finale (peraltro con cap) e non alle cedole. Rimane il dubbio, fino a prova contraria, che sia una parte della politica a non voler trovare sbocchi intelligenti e convenienti alla grande massa di risparmio inattivo in Italia, se non quello di aggredirlo con una patrimoniale. Mentre occorrerebbe offrire valide alternative d’impiego a quei preziosi e sudati 1.200 miliardi, finalizzate da un lato a preservare la ricchezza nazionale e dall’altro a fungere da carburante per l’economia italiana. (riproduzione riservata)