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    Predefinito PCI e intellettuali nel Mezzogiorno (1973)

    di Giorgio Napolitano - «Rinascita», a. XXX, n. 28, 13 luglio 1973, pp. 22-23.





    Uno stimolante raccolta di saggi curata da Giuseppe Vacca per De Donato


    Nel corso degli ultimi anni si è via via raccolto e consolidato, attorno all’Università di Bari, un forte nucleo di intellettuali comunisti, che si caratterizza per una non comune omogeneità di interessi culturali e politici e per una singolare intensità di vita collettiva, e anche perciò è venuto acquistando una notevole capacità d’incidenza nel dibattito ideale, e nel confronto sui problemi degli studenti e della scuola. L’elaborazione portata avanti da questi nostri compagni e l’esperienza politica da essi compiuta attraverso la Sezione universitaria comunista, cui si è dato vita a Bari alla fine del 1969, costituiscono un punto di riferimento interessante e significativo: innanzitutto perché esse riflettono e affrontano consapevolmente i mutamenti intervenuti nella struttura sociale, nella scuola, nei ceti intermedi, nell’intellettualità del Mezzogiorno; mutamenti al di fuori dei quali non si sarebbe d’altronde potuta determinare la stessa aggregazione di queste nuove forze intellettuali nel partito comunista a Bari. Di questa elaborazione ed esperienza dà conto il libro curato da Giuseppe Vacca per l’editore De Donato (PCI, Mezzogiorno e intellettuali, pagg. 478, lire 2.800); e i problemi che ne emergono sono molti, ma la chiave, in cui essi vengono posti e discussi è una, e la si può agevolmente identificare nella prospettiva sia di un nuovo ruolo degli intellettuali nel partito comunista sia, più in generale, di un nuovo rapporto tra masse intellettuali e movimento operaio.
    Diciamo subito che i dati e gli argomenti portati tanto da Vacca, nell’«Introduzione», quanto da Franco Cassano nel saggio «Scuola e subordinazione sociale nel Mezzogiorno», a sostegno di una forte caratterizzazione meridionalista del nostro discorso sugli studenti e sulla scuola, sono seri e convincenti. Che il processo di scolarizzazione sia stato particolarmente intenso nelle regioni meridionali e abbia rappresentato una delle componenti e caratteristiche essenziali dell’abnorme processo di «urbanizzazione» realizzatosi nel Mezzogiorno nel corso degli anni ’60; che nel quadro del già vistoso fenomeno nazionale dell’inoccupazione giovanile, clamoroso risulti il peso del Mezzogiorno (il 31,8 per cento dei giovani da 14 a 26 anni risulta «inattivo» nel Mezzogiorno, contro il 17,1 per cento nell’Italia nord-occidentale e il 18,4 per cento nell’Italia nord-orientale); che la questione della disoccupazione intellettuale (e dell’emigrazione intellettuale: i laureati e diplomati costituiscono ormai circa il 20 per cento degli emigranti dal Sud) rappresenti uno degli aspetti più drammatici dell’aggravarsi della questione meridionale; che nel Mezzogiorno, infine, quel tanto che si realizza di occupazione intellettuale presenti caratteri paurosamente distorti in senso parassitario (nel 1970 solo il 6,2 per cento dei laureati meridionali risultava occupato nell’industria e nell’agricoltura, contro il 18,4 per cento nei servizi privati e il 75,4 per cento nei servizi pubblici) – tutto ciò viene messo in luce in modo incontestabile e spinge alla conclusione che la questione degli studenti, della scuola, dell’occupazione intellettuale si pone nel Mezzogiorno in termini specifici e assume qui un’importanza ancora più grande che altrove. È un fatto che – come afferma Vacca - «sono in particolare i giovani meridionali a subire con la massima acutezza le contraddizioni dello sviluppo delle forze produttive sulle basi ristrette, anguste e distorte della valorizzazione del capitale».
    È anche vero che «la rapina monopolistica del Mezzogiorno avviene oggi principalmente attraverso il drenaggio del prodotto agricolo grezzo dalle campagne e l’emigrazione di forza-lavoro più o meno qualificata». Sarei però più cauto nel collegare a quest’ultimo aspetto il discorso sull’inadeguata qualificazione o sulla qualificazione «generico-astratta» che oggi fornisce la scuola, in quanto questo è un discorso che non riguarda solo il Mezzogiorno, e non si può parlare di una scuola inetta a qualificare pienamente il giovane di qualcosa di puramente meridionale e di semplicemente «funzionale» all’apprestamento, nel Mezzogiorno, di un «semi-lavorato» (termine – sia detto tra parentesi – di dubbia proprietà, e troppo facilmente assumibile in impostazioni di stampo economicistico) di tipo particolare, destinato all’emigrazione. Giusta è egualmente la forte sottolineatura del rapporto tra i fenomeni della scolarizzazione di massa e della disoccupazione e occupazione intellettuale, e i caratteri patologici della crescita delle città meridionali: con la sola avvertenza che la definizione di «urbanizzazione terziaria» può diventare una formula sbrigativa, e che alla tendenza ad appagarsi della sua semplice ripetizione occorre contrapporre l’esigenza di analisi concrete e riccamente articolate di processi che presentano un’indubbia complessità.
    In quanto alla linea strategica che risulta dal libro, essa ci sembra corretta e fondata nell’essenziale, che sta poi in una esaltazione del peso oggettivo della «questione scolastica» e in una valorizzazione delle possibilità nuove che si sono aperte, in modo particolare nel Mezzogiorno, per la mobilitazione di larghe masse intellettuali in un fronte di lotta unitario accanto alla classe operaia e alle masse popolari. Se non si vede come nel Sud sia venuta avanti «una nuova generazione, per la stragrande maggioranza della quale la scuola costituisce la prima, fondamentale e comune esperienza di socializzazione» e che nella scuola «prende coscienza dei nuovi termini, e persino dell’aggravarsi delle vecchie piaghe della società meridionale: la disoccupazione e l’emigrazione» - se non si vede, se non si comprende questo, non si può oggi, nel Mezzogiorno, sviluppare una politica democratica e rivoluzionaria. Se si indulge a rappresentazioni puramente catastrofiche, nel senso di cogliere soltanto i guasti, gravissimi, dello sviluppo parassitario delle città meridionali, e non anche le contraddizioni e la crisi di questo sviluppo, e i fermenti che ne nascono in seno ai ceti intermedi, alla piccola borghesia e soprattutto in seno alle masse dei giovani di questa estrazione sociale, non si può combattere efficacemente il pericolo di destra, l’estendersi dell’influenza fascista, e neppure i fenomeni di ribellismo «di sinistra», non si può impostare in termini positivi una battaglia di conquista alla democrazia – di autentica e piena conquista alla causa del rinnovamento democratico della società – della grande maggioranza della gioventù, delle masse cittadine e delle popolazioni meridionali.
    Naturalmente, vedere le possibilità nuove che si aprono in questo senso non significa sottovalutare l’estrema difficoltà del compito che ci sta davanti, l’estrema complessità della situazione, le molte incognite che essa presenta. Basta, d’altronde, ripercorrere la concreta esperienza di tre anni di attività della Sezione universitaria barese «Palmiro Togliatti», attentamente analizzata, con grande rigore autocritico – nel libro di cui ci stiamo occupando – da Franco De Felice, per rendersi conto di quanto sia faticoso costruire un’iniziativa efficace nella scuola, nell’Università, tra le masse degli studenti (e tra le masse dei laureati e diplomati disoccupati), di quale sforzo debba affrontare, in questo campo, anche una organizzazione comunista di notevole consistenza e qualifica, per passare «dalla pedagogia alla politica», per superare limiti e insufficienze nelle impostazioni e nell’azione, per fare i conti con posizioni errate e fuorvianti come quelle dell’estremismo di sinistra. De Felice mette giustamente in evidenza, a più riprese, il pericolo di una divaricazione, di una frattura – di fatto già verificatasi negli anni scorsi, per effetto delle scelte e degli atteggiamenti di quel che era stato in larga parte il quadro dirigente del movimento studentesco del 1968 e di quelle che erano poi divenute le «formazioni extraparlamentari» - tra nuclei ristretti di studenti politicizzati (e ideologizzanti) e il grosso, la grande massa degli studenti, «sensibile a tendenze corporative e riformiste», esposta alla manovra di organizzazioni di destra come la Confederazione studentesca. La via da battere, per i comunisti, non può che essere, da un lato, quella di una sempre più incisiva caratterizzazione politica della loro iniziativa e presenza nella scuola e nell’Università, e, dall’altro, quella della creazione di nuove forme di organizzazione unitaria di massa degli studenti. Ma anche a questo proposito si stanno sperimentando, proprio in provincia di Bari, le difficoltà che si incontrano a far crescere e consolidare una organizzazione (che a Bari si è configurata come «Lega democratica degli studenti»), che parta dalle condizioni materiali di vita e di studio degli studenti per proporre rivendicazioni immediate e obiettivi di riforma, e che si basi su alcune, grandi discriminanti ideali – su quella antifascista in primo luogo – per collegarsi con l’insieme del movimento operaio e democratico.
    Occorre in definitiva riconoscere nella crisi della scuola, del suo ruolo e della sua capacità formativa, nella incertezza degli sbocchi professionali e nella carenza – addirittura paurosa in regioni come quelle meridionali – di prospettive di lavoro per le masse dei giovani che escono dalla scuola e dall’Università, le condizioni per una presa di coscienza da parte di larghi strati intellettuali della necessità di un mutamento profondo – quello stesso per cui si batte il movimento operaio – del tipo di sviluppo e dell’assetto sociale del paese; e in effetti di una siffatta presa di coscienza si sono avuti in questi anni segni tangibili nella partecipazione di masse consistenti di studenti e di diplomati disoccupati, in varie zone del Mezzogiorno, a scioperi generali e manifestazioni sindacali unitarie per il lavoro e la rinascita. Ma nel momento stesso in cui si traggono da ciò motivi di ragionata fiducia e di coraggiosa apertura, occorre sapere che per acquisire stabilmente masse sempre più ampie di studenti e intellettuali «allo schieramento democratico e anticapitalistico», a un legame organico col movimento operaio, ed evitare spostamenti e processi di segno opposto, è necessario un lavoro di lunga lena, un impegno eccezionale di tutte le organizzazioni della classe operaia, e in primo luogo di tutto il partito comunista, sulla base di una chiara e rigorosa impostazione ideale e politica.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: PCI e intellettuali nel Mezzogiorno (1973)

    Alle questioni d’impostazione crediamo si debba dare grande importanza, e a due di esse – che il libro dei compagni baresi ci suggerisce – desideriamo dedicare alcune considerazioni. La prima è quella della natura della crisi che attraversa la scuola italiana e della risposta che può e deve venire dal movimento operaio. Non persuadono, nello scritto di Vacca, la definizione della crisi della scuola in Italia come crisi della «scuola capitalistica» e la contrapposizione – a una politica di abbandono, da parte delle classi dominanti, della scuola pubblica alla disgregazione – di un’ipotesi di riqualificazione della scuola, intesa come «processo politico» (non essendo risolvibile il problema dei nuovi contenuti e sbocchi dello studio «se non rovesciando i rapporti di potere politico che oggi percorrono il terreno della scuola, mutandone gli utenti e i committenti») ovvero come lungo itinerario «di lotte e di sperimentazione politica». Se si pone in questi termini la questione, si perde – a me sembra – la concretezza della nostra linea di riforma della scuola, si offusca il carattere positivo della nostra battaglia. La crisi attuale della scuola, e del rapporto scuola-società, è certamente crisi della capacità di direzione complessiva, e, più specificamente, della capacità di direzione culturale e ideale, delle classi dominanti; è certamente riflesso, e punto focale, delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico; ma è anche conseguenza della rottura, da noi voluta, del carattere «elitario» del sistema d’istruzione in Italia. E davanti e noi non c’è la «scuola capitalistica» in astratto, ma una scuola pubblica di massa – caoticamente sviluppatasi come tale nel corso degli ultimi dieci anni – che le classi dirigenti stanno facendo andare alla deriva e che è compito nostro contribuire a salvare e rinnovare, perché possa divenire uno dei fattori decisivi del progresso sociale e culturale del paese. Ma per realizzare questo obiettivo – che si colloca, con sempre più grande rilievo, nella nostra prospettiva di lotta per uno sviluppo conseguente della democrazia e di avanzata al socialismo -, per bloccare e invertire la tendenza alla dequalificazione della scuola e dell’Università di massa, occorre strappare, oggi e non domani, concrete misure di riforma degli ordinamenti e degli indirizzi, tanto dell’istruzione di base, quanto dell’istruzione superiore, concrete misure per l’attuazione del diritto allo studio, e occorre avere la capacità di elaborare e proporre, in tempi brevi, nuovi contenuti culturali e formativi. Il nostro sforzo consiste – come risulta chiaramente del libro curato da Vacca – nel saldare le questioni della riforma della scuola e dell’occupazione intellettuale a quelle delle riforme di struttura e di un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale; ma la nostra proposta di riforma della scuola, per non ridursi a una generica bandiera, deve avere connotati concreti, deve ancorarsi a punti di riferimento precisi, anche se non può esaurirsi in un progetto di legge. Solo così essa può riuscire a mobilitare docenti e studenti, e diventare reale termine di confronto per lo sviluppo di una azione unitaria e per la ricerca di positive convergenze tra il nostro partito e altre forze riformatrici e democratiche.
    Pensiamo dunque alla nostra battaglia per la riforma della scuola come ad una multiforme battaglia, politica e culturale, che si prefigga obiettivi ben determinati e tenda a porre su nuove basi la vita della scuola, nel quadro della lotta per una diversa e piena utilizzazione delle risorse materiali, umane, intellettuali del paese. I limiti di un’impostazione che puntasse su una semplice «sindacalizzazione» del movimento degli studenti sono efficacemente sottolineati da De Felice; e bisogna dire che il libro offre contributi originali all’analisi della crisi culturale delle facoltà umanistiche e all’approfondimento dei termini in cui va oggi sviluppato il nostro discorso ideale e culturale (il libro comprende anche un interessante capitolo sull’esperienza del CSATA, un centro di informatica e di fisica applicata promosso dalla Cassa del Mezzogiorno, e sulla funzione nuova che esso potrebbe assolvere). Un attento esame meriterebbe in particolare il saggio di De Giovanni e Schiavone, che mette a fuoco molto acutamente il rapporto «di segno negativo» e, nello stesso tempo, sempre «più diretto» tra Università e società, e affronta quindi il tema degli insegnamenti filosofici e storici nelle Università meridionali (caratterizzati dalla «caduta» - dopo Croce - «di una funzione civile della filosofia»), e infine prospetta il ruolo crescente che è chiamato a svolgere il marxismo come teoria e come coscienza storica. Occorre dare questa ricchezza culturale e ideale al nostro impegno di lotta nell’Università e nella scuola, contro ogni tendenza a un suo appiattimento praticistico, e occorre darvi un reale orientamento politico unitario, contro ogni tendenza alla sottovalutazione del problema stesso degli sbocchi politici (e quindi del confronto con le altre forze politiche organizzate, dentro e fuori della scuola) o anche a un esclusivismo di partito, magari inconsapevole o «strisciante».
    Esigenze di spazio ci impediscono di dedicare la necessaria attenzione alla seconda delle questioni d’impostazione generale che a nostro avviso emergono dal libro curato da Vacca: quella della politica di alleanze della classe operaia (e del PCI). Diremo solo che da un lato condividiamo pienamente la necessità di cogliere fino in fondo le novità che oggi presentano la condizione studentesca e la questione degli intellettuali, o, come dicono De Giovanni e Schiavone, la «frattura che è intervenuta nella storia degli intellettuali»; e che dall’altro notiamo, accanto a un’efficace polemica contro un sommario ricorso al termine di «proletarizzazione» e ad una giusta riserva nei confronti di un esame di «fenomeni nuovi» compiuto con «strumenti analitici vecchi», una notevole incertezza circa il modo di intendere i concetti di «alleanza» ovvero di «unificazione» (sociale, politica, nella lotta) e in particolare circa il modo di concepire quella che è stata nel passato la nostra politica di alleanze. Oscuro rimane il senso dello stesso sottotitolo del libro: «dalle alleanze all’organizzazione» (al di là della specifica accezione in cui questa tesi si ritrova nello scritto di Caldarola, là dove si parla della necessità di passare, come movimento operaio e democratico, «dalla logica dell’alleanza col movimento studentesco così come è oggi… all’organizzazione di un movimento degli studenti sulla base di piattaforme che assicurino, ecc.»). E si ha l’impressione di un intrecciarsi di problemi che sono diversi, anche se presentano punti di contatto tra loro: quello della collocazione degli intellettuali nel partito, quello del rapporto tra movimento operaio e masse intellettuali, ecc.
    Su tutte queste questioni la ricerca e la discussione debbono andare ancora avanti. E insieme deve andare avanti lo sforzo di nuclei sempre più folti ed organici di intellettuali per farsi, come dicono i compagni di Bari, «dirigenti», in senso gramsciano, «costruttori, organizzatori», quadri di partito, superando errori e difficoltà, non cadendo in atteggiamenti pedagogici nei confronti del partito, ma contribuendo seriamente allo sviluppo e all’arricchimento della sua battaglia.


    Giorgio Napolitano
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