di Adolfo Battaglia – In “Né un soldo né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica”, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 135-149.
L’idea di un partito «diverso» aveva già costituito uno dei fondamenti del Partito d’azione. E memorabile rimane la conversazione immaginata da Carlo Levi ne L’Orologio tra «le due figure più pure» dell’azionismo, chiamate nel libro «Andrea» e «Carmine» (Levi parlava di Leo Valiani e Manlio Rossi-Doria)[1]. Era tornato il giorno, col Partito repubblicano? Io l’avevo conosciuto negli anni Cinquanta, quando con Oscar Mammì e tanti vecchi militanti che combattevamo le giunte centriste di Roma. Lo avevo anche provato negli anni Sessanta, a Torino, dove era composto essenzialmente di mazziniani dall’onestà a tutta prova, colti, cortesi, bravissimi e privi di qualsiasi contatto con la società torinese (non ricordavano, per dir così, che in città esistesse la Fiat). Nella primavera del 1963 stetti con loro un paio di mesi per organizzare la campagna elettorale di La Malfa. In favore della sua candidatura, cui lavorò la concretissima intellettuale che era Lelia Vaccarino, si schierò la crema dell’azionismo torinese, con un manifesto che non aveva alcuno dei tratti moralistici e filo-comunisti poi addebitati al gruppo Gl di Torino[2]. Si mobilitarono, egualmente, comandanti partigiani di «Giustizia e libertà», i radicali, i Valdesi, il Movimento di Comunità. Il Pri ebbe così un bel successo di stima. Ma elettoralmente il disastro delle nostre liste in Piemonte fu eguale a quello del Pri in tutta Italia.
Era quello di Roma o quello di Torino il partito che serviva? Da una parte era considerato mezzo moribondo; dall’altra, era in alcune zone un «piccolo partito di massa», secondo la definizione di Togliatti. Quelle di «Andrea» e «Carmine» erano, tuttavia, un po’ le stesse idee nostre: un partito a rete, non di classe, dotato di cultura storica e avverso ad apparati pesanti, estraneo a ogni ideologismo, poco impregnato dalla politique politicienne. Oggi la storiografia più avvertita è arrivata alla conclusione che il concetto di partito di massa «non costituisce neppure più un dato residuale di riflessione: il che mostra come la sua enfatizzazione nel passato avesse limiti sia storici sia politico-costituzionali e venisse a coprire contraddizioni latenti e nodi irrisolti»[3]. Allora, naturalmente, la cosa era diversa. E la Dc e il Pci, pur essendo di ispirazione opposta, avevano una caratteristica comune: intendevano rappresentare tutti i settori della società (perfino la magistratura, la polizia, le forze armate) e si erano quindi caricati di strutture organizzative pesanti e di politiche inesorabilmente contraddittorie. Convergevano così, al di là delle ideologie, in un’azione particolaristica di tipo clientelar-sociale; e assumeranno presto la fisionomia dei «partiti pigliatutto» identificati dalla politologia.
Entrambi si difendevano, naturalmente, sostenendo che col loro operato realizzavano due beni primari: l’integrazione sociale del paese e il coinvolgimento nella vita dello Stato di masse di popolo. Ma fu davvero realizzata l’integrazione sociale nello Stato, considerando il rapidissimo crollo della Repubblica alla fine degli anni Novanta? La partecipazione delle masse popolari passava soltanto attraverso quelle vie dolorose? Si può dubitare che le spropositate esigenze finanziarie legate alla gigantesca struttura dei partiti non siano state tra le cause rilevanti della corruzione diffusasi in Italia? La nostra tesi era che la società italiana in marcia verso la modernizzazione si sarebbe sentita sempre meno omogenea ai partiti di massa. Certo, la condizione internazionale e gli esiti politici seguiti alla Liberazione, ne spiegavano presenza e peso. Però una parte significativa dell’opinione pubblica già percepiva la loro insufficienza. I migliori commentatori politici non esitavano[4].
Ora, i gruppi di giovani aggregatisi intorno a La Malfa avevano anzitutto in comune l’istintiva consonanza con la nuova società industriale: mobile, varia, alimentata dalla scienza, in continua trasformazione; creata, appunto, dal pensiero laico e razionalista europeo. Avevano in mano una chiave, cioè, che non potevano possedere né le formazioni marxiste né quelle cattoliche. Il cosiddetto (da Ingrao) «laboratorio italiano» non costituiva dunque le colonne d’Ercole della visione politica. C’erano nel mondo altre cose: la «Nuova frontiera» kennediana; l’abbandono del marxismo da parte della socialdemocrazia tedesca; la tradizione aggiornata dei «fabiani» inglesi; le politiche di welfare del mondo progressista scandinavo sollecitate da Myrdal. E c’era il dibattito della sinistra democratica in Francia, alimentato da due settimanali di forte impatto intellettuale, «Le Nouvel Observateur» e «L’Express».
Andava di moda in particolare il saggio del direttore dell’«Express», Jean Jacques Servan-Schreiber, Le défi americain[5], che rappresentò un momento di presa di coscienza della debolezza del vecchio continente. Ma aprivano orizzonti sconosciuti in Italia i volumi di Raymond Aron e di altri sociologi sulla nuova struttura della società industriale[6]. Era chiaro, d’altra parte, quanto fosse importante quella rete di società, di circoli culturali, di club, che in Francia si rifacevano alle posizioni di Jean Monnet e di Pierre Mendès-France, così come di Jacques Delors e Marcel Rocard: un movimento che ebbe l’affetto di rifondare il vecchio Partito socialista e portò alla sua segreteria François Mitterrand, che veniva dai radicali.
Avevamo così un nutrimento che la cultura liberale italiana non forniva. Per noi si trattava di acqua benedetta. E fondammo anche noi il nostro club: il Club della Repubblica. La sua presidenza dava l’idea dell’apertura alla società civile che si ricercava: il rettore della Scuola Normale di Pisa, il fisico Gilberto Bernardini, due grandi storici come Luigi Salvatorelli e Franco Venturi, e due intellettuali indipendenti, uno fine come Renzo Zorzi e uno sanguigno come Francesco Compagna. I repubblicani erano, con La Malfa, il vicepresidente dell’Iri, Bruno Visentini, e il presidente dell’Associazione mazziniana italiana, Giuseppe Tramarollo, entrambi poco ortodossi.
Il primo convegno del Club, a Roma, nell’ottobre 1964, era basato su una relazione di un centinaio di pagine[7], cui aveva lavorato quel grande storico che si sarebbe dimostrato Alberto Aquarone, col contributo di un sociologo di valore legato a «Comunità», Cesare Mannucci. Seguirono dibattiti, incontri, presentazioni di libri. Si costituì un bel gruppo anche a Milano, intorno a Vittorio Olcese (erede dei famosi imprenditori lombardi) e Franco Cingano (che diverrà presidente della Banca commerciale e di Mediobanca). Poco prima di noi gli intellettuali socialisti avevano fondato a Milano il Club Turati, più direttamente legato al Psi. Poi la moda del club politico si diffuse e ne furono creati di vario genere in molte città. Il Club della Repubblica, tuttavia, ebbe vita breve, per la buona ragione che dopo il congresso nazionale del Pri, nel 1965, La Malfa ne divenne finalmente il segretario politico e dovemmo perciò dedicarci tutti all’opera di ricostruire il partito[8].
Nel Pri si trattava di realizzare l’idea che poteva esservi una sinistra nuova non soltanto nei temi e negli indirizzi, ma anche nella struttura. Il punto era che nessuna delle organizzazioni repubblicane doveva dedicarsi all’azione settoriale che era nella logica dei partiti di massa. Doveva fondarsi sulla presa di coscienza delle forze operanti in ogni situazione; approfondire l’analisi della condizione economica di area, i problemi della cittadinanza, i dati relativi alle infrastrutture, le necessità prioritarie uscite dalle analisi di circoli, associazioni, sindacati, single-issue movements, ecc. E su queste basi conoscitive, con l’apporto di competenze tecniche indipendenti, costruire un progetto coerente, una prospettiva politica per l’intera comunità. Così come, sul piano nazionale, cominciava a fare la nuova Direzione del partito. Fabrizio Barca, qualche decennio dopo, teorizzerà qualcosa di abbastanza simile[9].
Questo tentativo di rinnovare i moduli d’azione corrente era uno sforzo di alimentare la politica «dal basso», come ora si dice, facendola scaturire non dalle stanze dei partiti ma dall’autonomia delle forze indipendenti presenti nella società: delle quali i partiti avrebbero dovuto divenire i vettori e, più avanti, i luoghi di coordinamento e di sintesi. Era un metodo di organizzazione della politica opposto a quello, cui allora taluni pensavano, del «governo per enti», di cui i partiti divengono i cervelli direttivi e i beneficiari pratici. C’erano naturalmente elementi di incompletezza e ingenuità nella nostra concezione. Ma c’era anche lo sforzo di far uscire sulla scena pubblica tutte le forze vive della società, invece di continuare ad affidarsi a comitati di militanti.
(...)
[1] C. Levi, L’Orologio, Torino, Einaudi, 1950.
[2] Firmarono il manifesto fra gli altri: Franco Venturi, Carlo Galante Garrone, Giorgio Agosti, Carlo Casalegno, Leo Valiani, Giorgio e Lelia Vaccarino, Barbara Allason, Aldo Garosci, Emilio Bachi. Invece Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone si astennero, guardando ai socialisti, al contrario di altri intellettuali rispettati come Nicola Abbagnano e Carlo Augusto Viano, che parteggiavano per La Malfa.
[3] P. Craveri, Considerazioni storiche sulla metamorfosi della «forma partito» in Italia, in «Ventunesimo Secolo», VII, 2009, febbraio.
[4] Un’analisi delle responsabilità dei partiti di massa si poteva leggere già allora nel volumetto che riporta il dibattito organizzato a Milano dal Centro d’informazione politica e sociale di Salvatore Carrubba fra alcuni dei maggiori giornalisti dell’epoca; due futuri direttori del «Correre della Sera», il direttore dell’«Avvenire», l’editorialista economico del «Messaggero» e io che vi intervenni come direttore della «Voce Repubblicana». Cfr. A. Battaglia, A. Cavallari, P. Ottone, L. Valente, C. Zappulli, La politica e il paese, Milano, Edizioni della Tavola Rotonda, 1969.
[5] J. J. Servan-Schreiber, La sfida americana, Milano, Etas Kompass, 1968.
[6] Cfr. R. Aron, Dix-huit leçons sur le société industrielle, Paris, Gallimard, 1962; Id., La lutte des classes, nouvelles leçons sur les société industrielles, Paris, Gallimard, 1964; C. Mannucci, La società di massa, Milano, Comunità, 1964; D. Bell, La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta ad oggi, Milano, SugarCo, 1991.
[7] A due anni dal centrosinistra, nuovi problemi della lotta politica e della società industriale, relazione a cura del Club della Repubblica, Roma, 1964.
[8] Gli esponenti del Club della Repubblica costituirono l’ossatura del Pri «lamalfiano» e con gli anni molti di loro furono eletti parlamentari nazionali o regionali (Giorgio Bogi e Gianni Persico in Liguria, Giorgio La Malfa, Lelia Vaccarino e Aldo Gandolfi in Piemonte, Vittorio Olcese in Lombardia, Sergio Dalla Volta e io in Veneto, Carlo Di Re nel Friuli, Libero Gualtieri in Emilia-Romagna, Bruno Visentini e Giovanni Ferrara in Toscana, Mario Di Bartolomei nel Lazio, Francesco Compagna, Giuseppe Galasso e Mario Del Vecchio in Campania, Aristide Gunnella ed Enzo Santacroce in Sicilia). Inoltre i lamalfiani del Club della Repubblica ebbero i principali incarichi di responsabilità nel partito. Franco Montanaro e Tiziano Federighi furono i segretari organizzativi nazionali, Giuseppe Ciranna diresse l’Ufficio attività culturali della direzione nazionale, Ludovico Gatto l’Ufficio scuola, Nicola Martorelli l’Ufficio enti locali, Vittorio Frenquellucci fu l’amministratore della «Voce Repubblicana». Disponevamo al partito, inoltre, di un piccolo gruppo di funzionari di valore, che ebbero poi incarichi di responsabilità in varie associazioni e strutture: tra gli altri, Giancarlo Tartaglia, Antonio Canino, Marino Rinesi, Giancarlo Bonifazi, Attilio Tempestini, Mario Marra, Sergio Ferretti, Giovanni Teti, Giulio Picciotti, Pino Vita (Emma Minola, l’unica persona a interessarsi di amministrazione, a differenza di tutti gli altri funzionari rimase sempre una fedele pacciardiana). Giuseppe Candidori fu il vicesegretario organizzativo e il responsabile funzionariale del gruppo parlamentare. Quanto a me, prima diressi l’Ufficio stampa e propaganda, poi il quotidiano del partito insieme con P. Bandiera, divenni vicesegretario nazionale insieme a Emanuele Terrana nel 1970 e deputato del Veneto nel 1972. Erano nel direttivo del Club della Repubblica anche Antonio Maccanico, Giovanni Russo, Andrea Manzella, Vittorio Ripa di Meana, Tomaso Carini, Licisco Magagnato, Michele Tito e Paolo Ungari. Ma partecipavano al nostro club anche altri amici che poi si dirigeranno politicamente altrove: fra gli altri, Nicola Tranfaglia, Stefano Rodotà, Massimo Fichera, Claudio Simonelli. In Sardegna, non avevamo strutture ma un gruppo capeggiato da una persona legatissima a La Malfa, Lello Puddu, su cui si poteva contare.
[9] F. Barca, La Traversata, Milano, Feltrinelli, 2013.