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    Partito d'Azione
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    Predefinito Come si cercò di creare il «partito che non c’è»

    di Adolfo Battaglia – In “Né un soldo né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica”, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 135-149.


    L’idea di un partito «diverso» aveva già costituito uno dei fondamenti del Partito d’azione. E memorabile rimane la conversazione immaginata da Carlo Levi ne L’Orologio tra «le due figure più pure» dell’azionismo, chiamate nel libro «Andrea» e «Carmine» (Levi parlava di Leo Valiani e Manlio Rossi-Doria)[1]. Era tornato il giorno, col Partito repubblicano? Io l’avevo conosciuto negli anni Cinquanta, quando con Oscar Mammì e tanti vecchi militanti che combattevamo le giunte centriste di Roma. Lo avevo anche provato negli anni Sessanta, a Torino, dove era composto essenzialmente di mazziniani dall’onestà a tutta prova, colti, cortesi, bravissimi e privi di qualsiasi contatto con la società torinese (non ricordavano, per dir così, che in città esistesse la Fiat). Nella primavera del 1963 stetti con loro un paio di mesi per organizzare la campagna elettorale di La Malfa. In favore della sua candidatura, cui lavorò la concretissima intellettuale che era Lelia Vaccarino, si schierò la crema dell’azionismo torinese, con un manifesto che non aveva alcuno dei tratti moralistici e filo-comunisti poi addebitati al gruppo Gl di Torino[2]. Si mobilitarono, egualmente, comandanti partigiani di «Giustizia e libertà», i radicali, i Valdesi, il Movimento di Comunità. Il Pri ebbe così un bel successo di stima. Ma elettoralmente il disastro delle nostre liste in Piemonte fu eguale a quello del Pri in tutta Italia.
    Era quello di Roma o quello di Torino il partito che serviva? Da una parte era considerato mezzo moribondo; dall’altra, era in alcune zone un «piccolo partito di massa», secondo la definizione di Togliatti. Quelle di «Andrea» e «Carmine» erano, tuttavia, un po’ le stesse idee nostre: un partito a rete, non di classe, dotato di cultura storica e avverso ad apparati pesanti, estraneo a ogni ideologismo, poco impregnato dalla politique politicienne. Oggi la storiografia più avvertita è arrivata alla conclusione che il concetto di partito di massa «non costituisce neppure più un dato residuale di riflessione: il che mostra come la sua enfatizzazione nel passato avesse limiti sia storici sia politico-costituzionali e venisse a coprire contraddizioni latenti e nodi irrisolti»[3]. Allora, naturalmente, la cosa era diversa. E la Dc e il Pci, pur essendo di ispirazione opposta, avevano una caratteristica comune: intendevano rappresentare tutti i settori della società (perfino la magistratura, la polizia, le forze armate) e si erano quindi caricati di strutture organizzative pesanti e di politiche inesorabilmente contraddittorie. Convergevano così, al di là delle ideologie, in un’azione particolaristica di tipo clientelar-sociale; e assumeranno presto la fisionomia dei «partiti pigliatutto» identificati dalla politologia.
    Entrambi si difendevano, naturalmente, sostenendo che col loro operato realizzavano due beni primari: l’integrazione sociale del paese e il coinvolgimento nella vita dello Stato di masse di popolo. Ma fu davvero realizzata l’integrazione sociale nello Stato, considerando il rapidissimo crollo della Repubblica alla fine degli anni Novanta? La partecipazione delle masse popolari passava soltanto attraverso quelle vie dolorose? Si può dubitare che le spropositate esigenze finanziarie legate alla gigantesca struttura dei partiti non siano state tra le cause rilevanti della corruzione diffusasi in Italia? La nostra tesi era che la società italiana in marcia verso la modernizzazione si sarebbe sentita sempre meno omogenea ai partiti di massa. Certo, la condizione internazionale e gli esiti politici seguiti alla Liberazione, ne spiegavano presenza e peso. Però una parte significativa dell’opinione pubblica già percepiva la loro insufficienza. I migliori commentatori politici non esitavano[4].
    Ora, i gruppi di giovani aggregatisi intorno a La Malfa avevano anzitutto in comune l’istintiva consonanza con la nuova società industriale: mobile, varia, alimentata dalla scienza, in continua trasformazione; creata, appunto, dal pensiero laico e razionalista europeo. Avevano in mano una chiave, cioè, che non potevano possedere né le formazioni marxiste né quelle cattoliche. Il cosiddetto (da Ingrao) «laboratorio italiano» non costituiva dunque le colonne d’Ercole della visione politica. C’erano nel mondo altre cose: la «Nuova frontiera» kennediana; l’abbandono del marxismo da parte della socialdemocrazia tedesca; la tradizione aggiornata dei «fabiani» inglesi; le politiche di welfare del mondo progressista scandinavo sollecitate da Myrdal. E c’era il dibattito della sinistra democratica in Francia, alimentato da due settimanali di forte impatto intellettuale, «Le Nouvel Observateur» e «L’Express».
    Andava di moda in particolare il saggio del direttore dell’«Express», Jean Jacques Servan-Schreiber, Le défi americain[5], che rappresentò un momento di presa di coscienza della debolezza del vecchio continente. Ma aprivano orizzonti sconosciuti in Italia i volumi di Raymond Aron e di altri sociologi sulla nuova struttura della società industriale[6]. Era chiaro, d’altra parte, quanto fosse importante quella rete di società, di circoli culturali, di club, che in Francia si rifacevano alle posizioni di Jean Monnet e di Pierre Mendès-France, così come di Jacques Delors e Marcel Rocard: un movimento che ebbe l’affetto di rifondare il vecchio Partito socialista e portò alla sua segreteria François Mitterrand, che veniva dai radicali.
    Avevamo così un nutrimento che la cultura liberale italiana non forniva. Per noi si trattava di acqua benedetta. E fondammo anche noi il nostro club: il Club della Repubblica. La sua presidenza dava l’idea dell’apertura alla società civile che si ricercava: il rettore della Scuola Normale di Pisa, il fisico Gilberto Bernardini, due grandi storici come Luigi Salvatorelli e Franco Venturi, e due intellettuali indipendenti, uno fine come Renzo Zorzi e uno sanguigno come Francesco Compagna. I repubblicani erano, con La Malfa, il vicepresidente dell’Iri, Bruno Visentini, e il presidente dell’Associazione mazziniana italiana, Giuseppe Tramarollo, entrambi poco ortodossi.
    Il primo convegno del Club, a Roma, nell’ottobre 1964, era basato su una relazione di un centinaio di pagine[7], cui aveva lavorato quel grande storico che si sarebbe dimostrato Alberto Aquarone, col contributo di un sociologo di valore legato a «Comunità», Cesare Mannucci. Seguirono dibattiti, incontri, presentazioni di libri. Si costituì un bel gruppo anche a Milano, intorno a Vittorio Olcese (erede dei famosi imprenditori lombardi) e Franco Cingano (che diverrà presidente della Banca commerciale e di Mediobanca). Poco prima di noi gli intellettuali socialisti avevano fondato a Milano il Club Turati, più direttamente legato al Psi. Poi la moda del club politico si diffuse e ne furono creati di vario genere in molte città. Il Club della Repubblica, tuttavia, ebbe vita breve, per la buona ragione che dopo il congresso nazionale del Pri, nel 1965, La Malfa ne divenne finalmente il segretario politico e dovemmo perciò dedicarci tutti all’opera di ricostruire il partito[8].
    Nel Pri si trattava di realizzare l’idea che poteva esservi una sinistra nuova non soltanto nei temi e negli indirizzi, ma anche nella struttura. Il punto era che nessuna delle organizzazioni repubblicane doveva dedicarsi all’azione settoriale che era nella logica dei partiti di massa. Doveva fondarsi sulla presa di coscienza delle forze operanti in ogni situazione; approfondire l’analisi della condizione economica di area, i problemi della cittadinanza, i dati relativi alle infrastrutture, le necessità prioritarie uscite dalle analisi di circoli, associazioni, sindacati, single-issue movements, ecc. E su queste basi conoscitive, con l’apporto di competenze tecniche indipendenti, costruire un progetto coerente, una prospettiva politica per l’intera comunità. Così come, sul piano nazionale, cominciava a fare la nuova Direzione del partito. Fabrizio Barca, qualche decennio dopo, teorizzerà qualcosa di abbastanza simile[9].
    Questo tentativo di rinnovare i moduli d’azione corrente era uno sforzo di alimentare la politica «dal basso», come ora si dice, facendola scaturire non dalle stanze dei partiti ma dall’autonomia delle forze indipendenti presenti nella società: delle quali i partiti avrebbero dovuto divenire i vettori e, più avanti, i luoghi di coordinamento e di sintesi. Era un metodo di organizzazione della politica opposto a quello, cui allora taluni pensavano, del «governo per enti», di cui i partiti divengono i cervelli direttivi e i beneficiari pratici. C’erano naturalmente elementi di incompletezza e ingenuità nella nostra concezione. Ma c’era anche lo sforzo di far uscire sulla scena pubblica tutte le forze vive della società, invece di continuare ad affidarsi a comitati di militanti.

    (...)



    [1] C. Levi, L’Orologio, Torino, Einaudi, 1950.
    [2] Firmarono il manifesto fra gli altri: Franco Venturi, Carlo Galante Garrone, Giorgio Agosti, Carlo Casalegno, Leo Valiani, Giorgio e Lelia Vaccarino, Barbara Allason, Aldo Garosci, Emilio Bachi. Invece Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone si astennero, guardando ai socialisti, al contrario di altri intellettuali rispettati come Nicola Abbagnano e Carlo Augusto Viano, che parteggiavano per La Malfa.
    [3] P. Craveri, Considerazioni storiche sulla metamorfosi della «forma partito» in Italia, in «Ventunesimo Secolo», VII, 2009, febbraio.
    [4] Un’analisi delle responsabilità dei partiti di massa si poteva leggere già allora nel volumetto che riporta il dibattito organizzato a Milano dal Centro d’informazione politica e sociale di Salvatore Carrubba fra alcuni dei maggiori giornalisti dell’epoca; due futuri direttori del «Correre della Sera», il direttore dell’«Avvenire», l’editorialista economico del «Messaggero» e io che vi intervenni come direttore della «Voce Repubblicana». Cfr. A. Battaglia, A. Cavallari, P. Ottone, L. Valente, C. Zappulli, La politica e il paese, Milano, Edizioni della Tavola Rotonda, 1969.
    [5] J. J. Servan-Schreiber, La sfida americana, Milano, Etas Kompass, 1968.
    [6] Cfr. R. Aron, Dix-huit leçons sur le société industrielle, Paris, Gallimard, 1962; Id., La lutte des classes, nouvelles leçons sur les société industrielles, Paris, Gallimard, 1964; C. Mannucci, La società di massa, Milano, Comunità, 1964; D. Bell, La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta ad oggi, Milano, SugarCo, 1991.
    [7] A due anni dal centrosinistra, nuovi problemi della lotta politica e della società industriale, relazione a cura del Club della Repubblica, Roma, 1964.
    [8] Gli esponenti del Club della Repubblica costituirono l’ossatura del Pri «lamalfiano» e con gli anni molti di loro furono eletti parlamentari nazionali o regionali (Giorgio Bogi e Gianni Persico in Liguria, Giorgio La Malfa, Lelia Vaccarino e Aldo Gandolfi in Piemonte, Vittorio Olcese in Lombardia, Sergio Dalla Volta e io in Veneto, Carlo Di Re nel Friuli, Libero Gualtieri in Emilia-Romagna, Bruno Visentini e Giovanni Ferrara in Toscana, Mario Di Bartolomei nel Lazio, Francesco Compagna, Giuseppe Galasso e Mario Del Vecchio in Campania, Aristide Gunnella ed Enzo Santacroce in Sicilia). Inoltre i lamalfiani del Club della Repubblica ebbero i principali incarichi di responsabilità nel partito. Franco Montanaro e Tiziano Federighi furono i segretari organizzativi nazionali, Giuseppe Ciranna diresse l’Ufficio attività culturali della direzione nazionale, Ludovico Gatto l’Ufficio scuola, Nicola Martorelli l’Ufficio enti locali, Vittorio Frenquellucci fu l’amministratore della «Voce Repubblicana». Disponevamo al partito, inoltre, di un piccolo gruppo di funzionari di valore, che ebbero poi incarichi di responsabilità in varie associazioni e strutture: tra gli altri, Giancarlo Tartaglia, Antonio Canino, Marino Rinesi, Giancarlo Bonifazi, Attilio Tempestini, Mario Marra, Sergio Ferretti, Giovanni Teti, Giulio Picciotti, Pino Vita (Emma Minola, l’unica persona a interessarsi di amministrazione, a differenza di tutti gli altri funzionari rimase sempre una fedele pacciardiana). Giuseppe Candidori fu il vicesegretario organizzativo e il responsabile funzionariale del gruppo parlamentare. Quanto a me, prima diressi l’Ufficio stampa e propaganda, poi il quotidiano del partito insieme con P. Bandiera, divenni vicesegretario nazionale insieme a Emanuele Terrana nel 1970 e deputato del Veneto nel 1972. Erano nel direttivo del Club della Repubblica anche Antonio Maccanico, Giovanni Russo, Andrea Manzella, Vittorio Ripa di Meana, Tomaso Carini, Licisco Magagnato, Michele Tito e Paolo Ungari. Ma partecipavano al nostro club anche altri amici che poi si dirigeranno politicamente altrove: fra gli altri, Nicola Tranfaglia, Stefano Rodotà, Massimo Fichera, Claudio Simonelli. In Sardegna, non avevamo strutture ma un gruppo capeggiato da una persona legatissima a La Malfa, Lello Puddu, su cui si poteva contare.
    [9] F. Barca, La Traversata, Milano, Feltrinelli, 2013.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Come si cercò di creare il «partito che non c’è»

    In un partito antico come quello repubblicano tutto questo non passò naturalmente senza difficoltà. Ma era su quella linea che operò il nuovo vicesegretario del partito Claudio Salmoni, che veniva dalla sinistra liberale[1]. Su quella linea Francesco Compagna e Giuseppe Galasso illustravano su «Nord e Sud» il nuovo meridionalismo europeista; e Rocco Scotellaro, Giuseppe Ciranna, Leonardo Sacco, insieme a sparuti circoli di pescatori di Terracina e contadini della Basilicata, tentavano di far lievitare il Mezzogiorno. Più in generale, era sulla base di quella concezione che Giorgio Bogi spiegava a uno stupito Consiglio nazionale la «teoria dei galleggianti laterali del partito moderno»: l’idea cioè che la vita della società contemporanea comporta una serie di spazi laterali a quelli della politica, ma autonomi da essa, i quali richiedono iniziative e soluzioni fondate sulla modernità scientifica culturale e tecnica che esprime ciascun aggregato.
    Legare in rete queste autonomie, rispettandone il carattere, significava legare alla politica le articolazioni della società moderna e vivificare i partiti, arrestando la loro tendenza a invadere ogni spazio della società. Era la negazione più netta del partito di massa neo-corporativo che si protende con le sue esigenze di potere su tutti i campi della vita del paese. Era la teorizzazione di un nuovo tipo di partito: l’inizio, appunto, del tentativo di realizzare «il partito che non c’è». E a leggere ora le considerazioni di quanti oggi si prodigano nel dare volto moderno alla sinistra, ci si accorge che forse non eravamo poi così bizzarri[2].
    Nello sforzo di rendere politicamente omogeneo il partito ebbe forte peso «La Voce Repubblicana», ferreamente presidiata dai giovani lamalfiani che progressivamente vi entrarono. La sua continuità giornaliera, la pressione che esercitava su dirigenti e iscritti erano più incisive di qualsiasi opuscolo. Naturalmente linea e interventi del quotidiano erano collegati con la segreteria politica e con gli uffici operativi della Direzione del partito. Ma furono molto allargate le collaborazioni e grazie ad alcune di esse si riuscì a «entrare» in settori specifici della società. Pochi redattori, bassi stipendi, molti commenti, divenne un giornale di partito del tutto sui generis, cui veniva riconosciuta indipendenza di giudizio[3].
    Però sulle impostazioni politico-organizzative della sinistra lamalfiana, si avviò subito nel Pri una sorta di braccio di ferro tra la nuova e la vecchia dirigenza. Dovemmo fare i conti con i residui della destra di Pacciardi, capeggiati ora dal leader del sindacalismo repubblicano, Raffaele Vanni. Fu spesso di ostacolo la diffidenza di gruppi connessi alla massoneria e chiusi in sé stessi. Si sprigionò la resistenza di una serie di personaggi collocatisi (in verità con modesti guadagni) in enti pubblici, assessorati, cooperative, e simili. Non fu uno scontro facile. Muoveva però quel nostro gruppo dirigente una sorta di disperata frenesia di lavoro, la sensazione che quelle nostre idee avessero un avvenire, che ci trovassimo malgrado tutto in una fase ancora positiva. C’era comunanza di sentire e molto disinteresse personale. Ciò che si chiedeva, in fondo, era semplice: che tutti tornassero alla politica. All’etica della politica, alla fuoriuscita dall’intreccio tra potere e interesse che, alla fine, perderà la Repubblica.
    La caratteristica più rilevante del partito politico moderno è peraltro la sua intima contraddizione. Non può non avere una fisionomia profondamente democratica; ma non può non essere anche profondamente leaderistico. E lo scioglimento della antinomia non dipende da procedure formali ma essenzialmente da una cultura condivisa, capace di ispirare grandi scelte e di farne percepire la coerenza. Se manca l’uno o l’altro di tali elementi – la cultura e il leader – il partito politico finisce col deformarsi. Assume, volta a volta, o un carattere a-democratico nella sua struttura o un’impronta populistica nella sua leadership. Come spesso, appunto, è avvenuto, in Italia e altrove.
    Occorreva dunque trasmettere alle ruote grandi e piccole della nostra macchina l’intero codice da portare nell’impegno politico, e fu una terribile fatica. Un numero sterminato di weekend di lavoro, di riunioni periferiche, di documenti, di analisi, di circolari esplicative, di lettere personali. Decine e decine di fogli in cui circolavano appunti, tesi, commenti. Infinite serate di discussione e di pranzi di lavoro. Fu un lavoro da matti. E straordinario, in particolare, fu un giovane intellettuale del Mezzogiorno formatosi a Firenze, Franco Montanaro, che da Pisa un cugino cattedratico, Donato Morelli, aveva tratto dall’infanzia orfana di Alberobello. Ricco di intelligenza politica e amante del teatro, di Proust, della musica moderna, divenne il concretissimo segretario organizzativo del partito lamalfiano. Ma fummo colpiti dalla sventura: due anni dopo la sua nomina, nel maggio 1967, Franco ebbe un incidente d’auto presso Padova e morì sul colpo, a 33 anni, insieme alla giovane ragazza americana, Kathryne Gartshore, che lo aveva accompagnato nella sua missione di partito.
    Un grande grafico, Michele Spera, allora giovanissimo, con il suo lavoro per il Pri aprì la strada al rinnovamento di tutta la grafica della politica italiana. Colpirono i nuovi slogan dei nostri manifesti (l’opera di copywriter era affidata, oltre che a me, a un primario medico, Giorgio Bogi, a un critico d’arte, Giulio Picciotti: ogni tanto però domandavamo indicazioni a un eminente psicanalista, Francesco Montanari). Importammo dagli Stati Uniti il fund-raising party per alimentare le povere finanze locali[4]. Il nostro principale strumento di propaganda elettorale fu un film, commissionato a un noto uomo di cinema, Ugo Gregoretti, grazie all’aiuto di un autorevole produttore pubblicitario, Giuseppe Mariani. I temi cruciali dei repubblicani erano raccolti lì, in una storia colma di satira verso i partiti di massa ma anche ricca della grazia del regista. «Domande e risposte» fu la nostra replica al «Quaderno dell’attivista» del Pci. Cercammo di concludere le campagne elettorali con i concerti e di togliere sacralità ai comizi: facemmo costruire decine di piccole piattaforme di legno, alte 80 centimetri, microfono e simbolo, da spostare strada per strada per brevi discorsi (le mandammo a tutte le federazioni provinciali ma non sono sicuro che fossero molto utilizzate). E poi: commissioni di lavoro, convegni programmatici, libri bianchi, opuscoli tematici, corsi di formazione politica, candidati indipendenti nelle liste amministrative (spiccò fra loro l’avvocato Giacomo Antonelli, che una volta raccolse oltre 6.000 preferenze). Aldo Carboni andò appositamente negli Stati Uniti per seguire la campagna elettorale del 1968, producendo poi un rapporto sui suggerimenti che potevano dedursene[5].
    Il lavoro culturale fu fondato sul rifiuto della concezione dell’«intellettuale organico» e concepito come struttura portante del partito moderno. Vi presiedeva Giuseppe Ciranna che, essendo di temperamento pessimista, e nato a Potenza, era soprannominato «l’Amaro Lucano». Passava per pigro ma in breve tempo creò una casa editrice, chiamò intellettuali, progettò libri e reprints, promosse mostre documentarie. Tomaso Carini diede vita invece a un ambizioso mensile, «Settanta»[6], ricco anche delle firme internazionali procurate dalla vasta rete di conoscenze di Elena Croce che della rivista era il vero direttore, con il prezioso aiuto di Sandro Bonella. Fu aiutato il rilancio del bimestrale di Angelo Sabatini, «Il Cannocchiale», che aveva una direzione composta da Renzo De Felice, Mario Petrucciani, Angelo M. Ripellino e Rosario Romeo[7]. Accanto a «Nord e Sud», anche «Comunità» continuava a essere vicina al Pri attraverso personalità indipendenti come Geno Pampaloni, Renzo Zorzi, Roberto Olivetti. Quell’intellettuale appassionato che fu il direttore dei Musei di Verona Licisco Magagnato[8] avvicinò al partito Renzo Piano, Carlo Scarpa, Neri Pozza, Alberto Mondadori, Luigi Meneghello, Renato Ghiotto. Luigi Lotti, poi presidente dell’Istituto di Storia per il Risorgimento, era a Firenze un punto di riferimento della tradizione repubblicana. Nella sua città fu protagonista di un bellissimo convegno («Il nodo di Trieste») Claudio Magris. Carlo Casalegno mi aveva chiesto a suo tempo di scrivere per «La Stampa» la recensione al suo primo grande libro, «Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna», ma era un volume troppo impegnativo e non me la ero sentita.
    Larga eco ebbe la rappresentazione, da noi organizzata in un precario teatro, del dramma di Hochhuth Il Vicario sulla passività di Pio XII di fronte allo sterminio del popolo ebraico. Era stato proibito dalla censura governativa ma la nostra sfida vide largo pubblico e nessun intervento della polizia. Il partito entrava adesso anche in ambienti che fino a quel momento gli erano stati sconosciuti. Fellini simpatizzava per i repubblicani e più avanti Prova d’orchestra espresse tutto il disagio e il disordine su cui La Malfa batteva. Alessandro Blasetti volle aderire al partito; gli erano vicini Vittorio Gasmann, Arnoldo Foà, Gabriele e Fausto Ferzetti, Valentina Cortese, Leopoldo Trieste, Gino Cervi, Rina Morelli; ci furono spesso contatti con Vincenzo Torraca, Remigio Paone, Morris Ergas. Le battaglie condotte per l’indipendenza e la qualità della Rai ci aiutarono, rendendoci vicini a uomini di valore del mondo televisivo come Piero Angela, Sergio Zavoli, Andrea Barbato, Livio Zanetti, Maurizio Barendson, Sergio Telmon, Franco Chiarenza (e anche a grandi navigatori come Gianni Granzotto e Luciano Rispoli).

    (...)



    [1] Claudio Salmoni ingegnere e urbanista, uomo di valore e disinteressato, era stato per alcuni anni sindaco di Ancona, la roccaforte repubblicana delle Marche. Divenne vicesegretario dopo il congresso del 1965, e interpretò nel partito una posizione differenziata da quella del Club della Repubblica ma non meno sicura nel rinnovamento. Fu colto da un infarto a Milano al ritorno da un viaggio politico in Israele. Era anche un facitore di couplet politici pieni di humor raccolti da R. Baldelli, Lascia Guido che mi scaldi / all’idea di Garibaldi, Ancona, affinità elettive, 2008.
    [2] Cfr. per esempio Barca, La Traversata, cit.; S. Biasco, Per una sinistra pensante, Venezia, Marsilio 2009.
    [3] Ne fui condirettore con Pasquale Bandiera dal 1967 al 1972. Collaboravano tra le firme importanti non repubblicane, Rodolfo Wilcock, Elena Croce, Elemire Zolla, Riccardo Bauer, Elio Pecora, Gaio Fratini, Alberto Aquarone (Alichino) per la storia, Andrea Manzella e Paoli Ungari (Ottomano) per le istituzionali, Vittoria Olivetti, Lia Weinstein, Dario Bellezza, Leonardo Cammarano, Loretta Valtz, Gigi Ghirotti, Lucio Rosaia per la sanità, Pietro Armani per la finanza pubblica, Giuseppe Marchiori, Giuseppe De Logu e Vito Aculeo per la critica d’arte.
    [4] Ebbe anche eco che mandassimo ai giornalisti politici per il Natale i reggi-libri pensati da Spera: cubi di perspex trasparente al cui interno era la verde foglia d’edera simbolo del Pri. Fortebraccio, il corsivista dell’«Unità» Mario Melloni, che ogni tanto prendeva in giro i repubblicani nella sua rubrica «Il dito nell’occhio», ci mandò un’affettuosa lettera di complimenti.
    [5] Il partito si irrobustì anche attraverso l’ingresso di liberali di sinistra tra Venezia, Torino e Bari (con il gruppo di Democrazia ’67, tra gli altri Antonio Casellati, Gianfranco Amendola), di democristiani di sinistra in provincia di Roma, del movimento contadino del Piemonte Sud, con Vitale Robaldo, e perfino di qualche fascista pentito in Sicilia. Si aprì un dialogo anche con la Sinistra indipendente, raccolta intorno all’onorevole Fausto Anderlini e ai senatori Simone Gatto e Tullia Carettoni. Ma la loro richiesta di porre subito in crisi il centrosinistra non era accettabile e il dialogo con il Pri si concluse con un nulla di fatto.
    [6] Il suo comitato di direzione era composto da Adolfo Battaglia, Leonardo Cammarano, Enrique De Rivas, Gustavo Herling, Antonio Maccanico, Licisco Magagnato, Giovanni Russo.
    [7] Nella redazione erano Alfredo Barbina, Sandro Bonella, Tommaso Lisi, Vincenzo Loriga, Achille Mango, Giancarlo Scoditti, Raffaele Simone, Achille Tartaro. Segretario di redazione era Marcello Ciotti.
    [8] R. Zorzi, Licisco Magagnato «veronese», in Id., Gli anni dell’amicizia. Immagini e figure del secondo Novecento, Vicenza, Neri Pozza, 1991.
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    Predefinito Re: Come si cercò di creare il «partito che non c’è»

    Non mancavano contatti con i democratici stranieri. Il Pri fu un riferimento di esuli cecoslovacchi, a cominciare dall’ex direttore della radiotelevisione di Praga, Jiri Pelikan. Attraverso Claudio Salmoni ed Ennio Ceccarini, la direttrice di «Shalom», Lia Levi, e Luciano Tas avevamo vicini gli ambienti delle comunità ebraiche nella difesa intransigente dello Stato di Israele. Vedevamo gli spagnoli antifranchisti, i repubblicani messicani e i liberal statunitensi. Dopo il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia demmo aiuto a molti esuli dell’Unione di centro, a cominciare dal suo segretario, Nicola Nikolaidis, preoccupato della «comunistizzazione» dell’opposizione. Poi arrivò Panagulis, salvato dal carcere greco dove era stato a lungo torturato, e oltre che nelle nostre braccia cadde anche in quelle di Oriana Fallaci, che ne fece l’eroe eponimo della Resistenza greca. Ancora con emozione ricordo la lunga notte che passammo col rappresentante del Fronte di Liberazione nazionale algerino, venuto clandestinamente in Italia per cercare aiuti alla lotta. Stemmo insieme fino all’alba e ci salutammo con ansia, non abbiamo mai saputo quale sia stata la sua sorte.
    Se un ricercatore scrutasse con occhio di storico l’immenso lavoro di carattere politico e culturale compiuto in pochi anni, avrebbe ancora oggi, probabilmente, qualche sorpresa, atta a collocare meglio quel periodo. Sulla scena politico-parlamentare il partito era vivacissimo, per l’impulso che gli conferiva il suo segretario, tanto più significativo di fronte alla modestia dell’opera di governo. Ma divenne logorante quella sorta di politica del doppio binario che seguivamo: partecipare ai governi e criticarli per la loro opera insufficiente. Il 1969 fu un anno molto difficile. Avevamo in tutti i modi aiutato Rumor, presidente del Consiglio, ma egli non aveva la tempra del leader. «Il centrosinistra è morto – disse La Malfa alla Direzione del partito – era nato per contrappesare la Dc con forze socialiste e oggi è la Dc che media tra due partiti socialisti» (c’era appena stata, nell’aprile 1969, la scissione tra Psi e Psdi, da poco unificatisi).
    Formule di governo alternative, peraltro, non c’erano e fu giocoforza continuare la collaborazione. Anche nel nostro gruppo ferreamente «lamalfiano» nacquero incertezze, giudicandosi troppo cauta la posizione del segretario. Il ministero costituito da Emilio Colombo a metà del 1970 non migliorò molto le cose, e così, nel febbraio 1971, il Pri abbandonò il governo pur restando in Parlamento nella maggioranza, secondo una proposta che azzardai al nostro capo in un colloquio di prima mattina a casa sua.
    Poi un bellissimo congresso a Firenze, nell’autunno del 1971, sanzionò il nuovo carattere del partito e andammo con molte speranze e qualche apprensione alle elezioni del 1972. Farsi largo era arduo in una società ideologicamente irrigidita. A destra eravamo considerati filocomunisti, essenzialmente per il dialogo di politica economica con la maggiore forza della sinistra; mentre veniva ignorata la continua contrapposizione del Pri al Pci sul terreno della politica internazionale. La sinistra marxista, invece, fuorviata dal rifiuto repubblicano dei suoi schemi, e dalla battaglia contro la crescita della spesa improduttiva e del debito, considerava il Pri un partito schiacciato sulla Dc, composto da gente lontana da una sinistra vera, e con la quale, anzi, bisognava stare attenti a non avere troppi contatti.
    Ci fu a riguardo un episodio eloquente, «il manifesto», quotidiano dei comunisti usciti «da sinistra» (Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Lucio Magri, Luciana Castellina, un gruppo di persone molto intelligenti e un poco vanitose) era in difficoltà finanziarie e aveva aperto una sottoscrizione. Pubblicava perciò ogni giorno in prima pagina in nomi dei sottoscrittori e le cifre, in genere modeste, che essi inviavano. Ora, «il manifesto» aveva la redazione in via Tomacelli 146, un piano sopra «La Voce Repubblicana». Con i suoi redattori prendevamo lo stesso ascensore e stampavamo nella stessa tipografia; ci vedevamo tutti i giorni, frequentavamo talora gli stessi amici. Erano avversari duri ma voci sincere, un po’ l’indipendenza che era la nostra cifra. Così dissi a La Malfa che avremmo potuto fare un gesto amichevole e mandare un contributo: e lui fu subito d’accordo e fece stanziare per la sottoscrizione un milione, che a quell’epoca era proprio una bella cifra. Bene, è difficile crederlo: «il manifesto» incassò l’assegno e non pubblicò né il nome del sottoscrittore né la cifra che aveva inviato.


    https://musicaestoria.wordpress.com/...to-che-non-ce/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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