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    Predefinito Laici al governo: Spadolini, Craxi, Visentini

    di Adolfo Battaglia – In “Né un soldo né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica”, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 221-240.


    Almeno per quanto riguarda la vita politica Giovanni Spadolini era un uomo nato fortunato. Col Partito repubblicano fu eletto senatore per la prima volta nel 1972; e due anni dopo, nel 1974, era già diventato ministro. Lo divenne una seconda volta, sempre per il Partito repubblicano, nel 1979. Poi, nel 1981, divenne presidente del Consiglio dei ministri. Quindi tornò ministro, sempre per il Pri, dal 1984 al 1987. In quell’anno cambiò ruolo solo per diventare presidente del Senato, sempre rimanendo iscritto al Pri. Nel quale – a dirla tutta intera – era entrato per un caso fortuito che fu la sua fortuna, sebbene autorevolmente Machiavelli abbia sostenuto che la fortuna è la virtù (Spadolini, in verità, ne possedeva).
    La cosa, contrariamente a quello che ha scritto Indro Montanelli[1], andò così. Una sera in vista delle elezioni del 1972, La Malfa e io eravamo andati a Grosseto per un comizio e la mattina successiva ripartimmo presto per Roma. Erano le 7:00 e scorrevo in auto i quotidiani appena comprati quando rimasi folgorato dalla notizia delle dimissioni di Spadolini dal «Corriere della Sera». Pure La Malfa non ne sapeva niente. Almanaccammo un po’ e mi venne l’idea: «Perché non lo candidiamo a Milano?». La Malfa esitò. A Milano avevamo già impegnato Pietro Bucalossi, il famoso oncologo che era stato sindaco della città. Facemmo dunque alcuni chilometri in silenzio, poi La Malfa decise di telefonargli. Così alle 7:20 del mattino ci fermammo sulla strada statale Aurelia, poco prima di Talamone, a una stazione di servizio che aveva un telefono fisso collocato quasi sulla strada. E in quel posto, in piedi, nel rumore delle auto che passavano, La Malfa ebbe da Spadolini l’accettazione della candidatura per il Senato. Poi si seppe che Saragat più educatamente aveva chiamato Spadolini verso le 8:00, e gli aveva offerto la candidatura per il Partito socialdemocratico. Una telefonata tempestiva salva la vita, come si dice.
    Quando si iscrisse al Pri, Spadolini non apparteneva ad alcuno dei due filoni costitutivi del partito. Non era un repubblicano «storico», sebbene avesse scritto molto sul repubblicanesimo post-risorgimentale; e non apparteneva all’azionismo lamalfiano, che aveva dominato il partito più recentemente. Neppure era iscritto alla massoneria, sebbene si dicesse largamente il contrario. Appena eletto, convocò il segretario del gruppo parlamentare, Giuseppe Candidori, perché voleva avere notizie attendibili sui molti dirigenti repubblicani che non conosceva. E domandava sempre, alla fine di ogni singola informativa: «È anche massone?». Candidori, che conosceva tutto e tutti, rispose parecchie volte di sì. Così successe che al termine della ricognizione Spadolini concludesse: «Caro Peppino, grazie di tutto, ma se le cose stanno come dici allora mi conviene continuare a far credere che sono massone anch’io!».
    I repubblicani lo elessero segretario del partito, nel 1979, in luogo di quella persona assai perbene che era Oddo Biasini, considerato debole senza La Malfa alle spalle. In contrapposizione a Spadolini avevo fatto anch’io un pensiero per la segreteria; e Giovanni non era persona incline a dimenticare, sebbene qualche anno prima, a Milano, con lui, Bucalossi e Antonio Del Pennino avessimo condotto insieme una bella campagna elettorale che portò alla elezione di tutti e quattro. Quando il presidente della Repubblica, Pertini, gli diede l’incarico di costituire il governo, nel 1981, mi domandò che cosa pensassi dell’ingresso dei liberali nel governo, ricordando probabilmente i problemi che avevo creato anni prima sulla stessa questione. Ero il presidente del gruppo parlamentare e gli dissi onestamente che se voleva fare il governo non esitasse a inserirvi i liberali: altrimenti il suo rifiuto del Pli sarebbe stato anzitutto utilizzato come pretesto per farlo cadere. Era un buon consiglio e anche questo non lo dimenticò, credo.
    Quando il nuovo capo del governo apparve in tv per la prima volta, gli italiani si accorsero che la sua figura era del tutto diversa dalle solite. Appariva sugli schermi un omone un po’ grasso, buono, iracondo, vanitoso, coltissimo, integerrimo; un professore universitario autore di apprezzati volumi di storia, editorialista di grandi giornali, direttore di una storica rivista della cultura italiana[2] e del maggiore quotidiano del paese. Una persona «diversa», che piaceva anche perché non veniva dalla routine partitica. Rappresentò un valore aggiunto e costituì una vera fortuna per i repubblicani, i quali alle elezioni del 1983, dopo il suo Governo, quasi raddoppiarono i voti ottenendo il maggiore successo elettorale della loro storia.
    Nella vulgata di Montecitorio è passato spesso come un uomo vicino ai socialisti. Nei diari di un protagonista cattolico, lo storico Gabriele De Rosa[3], è considerato invece un liberale neogiolittiano. Era in realtà non un neogiolittiano ma una personalità molto complessa: un uomo tanto difficile alla confidenza quanto restio alla discussione dei suoi progetti. Attentissimo a tutti gli elementi e le pieghe dei processi politici; e apparecchiato a portare avanti il proprio disegno «inclusivo» di consolidamento della democrazia. Con intelligenza, con astuzia, con energia, e sempre nel rispetto dei principi e del valore delle istituzioni. Un uomo politico che andrebbe ormai studiato senza impressionismi, come figura rilevante della nostra vita pubblica. Il suo governo, per il tipo di direzione politica e di contenuti programmatici, rappresentò un momento di ripresa di fiducia nella politica da parte dell’opinione pubblica. Lo fecero cadere partiti preoccupati soprattutto del loro potere. E si perse così l’occasione, che quel governo rappresentava, di consolidare il passo indietro rispetto al precipizio verso cui il paese marciava.
    Il fallimento della «solidarietà nazionale» aveva aperto nel 1979 una nuova fase politica che divenne inevitabilmente dominata dall’indirizzo del segretario del Psi Bettino Craxi. Al suo inizio, quella stagione aveva visto il duro contrasto tra lui e La Malfa, poi tra lui e Berlinguer, mentre ulteriori differenze di orientamento si manifestavano entro la Dc e il Pci. La tesi del leader repubblicano era, in breve, che l’indirizzo politico di Craxi non solo non avrebbe contribuito a sanare la crisi della Repubblica ma ne avrebbe anzi accelerata la caduta. Ed era un giudizio indubbiamente esatto, che gli esegeti contemporanei del leader socialista dovrebbero forse tenere in maggior conto. In un paese fragile come l’Italia la strategia della rottura, come antitetica a quella «inclusiva», non poteva che portare rovine, quale che fosse la sua iniziale lucentezza. Furono anni controversi, in cui naturalmente si fecero anche cose buone. Ma era scritto che l’opera dei governi investisse soltanto singoli problemi e non potesse modificare l’andamento della condizione italiana. Era il sistema politico nel suo insieme a non reggere. Era la crisi di sistema su cui la sinistra laica da gran tempo batteva.
    Riuscirono solo ad appesantire la situazione, tra il 1979 e il 1981, il ministero Cossiga e quello Forlani, entrambi frutto di alchimie poco decifrabili[4]. Nell’imperversare del terrorismo, degli assassini delle stragi, nella crisi della legalità, negli sconvolgimenti generati da un’inflazione altissima, nelle crisi di impotenza dei partiti, esplose infine anche la crisi morale, quando la magistratura sequestrò a un gran maestro della massoneria, Licio Gelli, la lista degli iscritti alla Loggia segreta P2. Venne così alla luce uno degli aspetti più oscuri del groviglio che stava stremando il paese. Nella gravità dei tradimenti dimostrati dai nomi di quella lista sembrò che l’Italia fosse arrivata al fondo. Seguì una crisi caotica, connotata dal drammatico senso di disfacimento che risulta anche dal diario del segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico[5]. E quando il vecchio socialista galantuomo che era divenuto presidente della Repubblica, Sandro Pertini, chiamò a raccolta quanto rimaneva delle forze politiche, anche la Dc non poté avere obiezioni ad affidare il governo al segretario del Pri, il laico Spadolini.

    (...)



    [1] I. Montanelli, I conti con me stesso 1957-1978, a cura di S. Romano, Milano, Rizzoli, 2009.
    [2] La fiorentina «Nuova Antologia», divenuta bimestrale e poi trimestrale, e dopo Spadolini passata sotto l’oculata direzione di Cosimo Ceccuti.
    [3] G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico 1990-96, Roma-Bari, Laterza, 1997.
    [4] Francesco Cossiga fu peraltro fondamentale nella scelta della politica estera che consentì di controbilanciare la minaccia dei missili sovietici SS20 con la installazione sul territorio italiano di missili Nato, decisione che fu poi seguita dalla Germania e costituì ragione non secondaria del nuovo equilibrio internazionale che porterà alla caduta del comunismo mondiale. Dovevo recarmi negli Stati Uniti per ragioni personali e Cossiga mi chiese di andare al Dipartimento di Stato per confermare di persona, a suo nome, quanto aveva fatto sapere attraverso l’Ambasciata americana a Roma: l’Italia avrebbe accolto l’installazione dei missili americani.
    [5] A. Maccanico, Con Pertini al Quirinale. Diari 1978-1985, a cura di P. Soddu, Bologna, Il Mulino, 2014.
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  2. #2
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    Predefinito Re: Laici al governo: Spadolini, Craxi, Visentini

    Come in una parte della Dc e del Pci, anche nel Pri questa novità fu vissuta sotto il segno della contraddizione; da una parte, il declino della Repubblica era ritenuto inevitabile; dall’altra, la politica come attività intrinsecamente inventiva apriva vie inesplorate e chiamava, crocianamente, al rifiuto di ogni filosofia della storia: alla consapevolezza che la storia non è mai già scritta e dipende dalla volontà e dall’opera degli uomini. L’ambizione spingeva nella stessa direzione e Spadolini assunse così la responsabilità del governo formando il pentapartito cui l’aveva designato Pertini. Si trovò subito di fronte al problema dei socialisti: La Malfa aveva lasciato il Pri in rotta di collisione con il Psi e il nuovo premier doveva adesso modificare la posizione repubblicana fondandosi sull’appoggio di Craxi. Non si trattava di qualcosa che i repubblicani potessero trangugiare allegramente. Ma era difficile che il premier di un «governo del presidente» non stesse alle indicazioni del Quirinale. Spadolini badò dunque con attenzione al rapporto col segretario del Psi, incontrando diffidenza e malumori nel suo stesso partito, a cominciare da Bruno Visentini (impegnato nella difesa della proprietà del «Corriere della Sera» contro gli uomini della P2, e indirettamente di Craxi). Era però un politico che teneva presente tutta la raggiera delle questioni: e così, da una parte, osteggiò il tentativo del leader socialista di egemonizzare le forze laiche; dall’altra, mirò a tutelare l’autonomia del Pri scrutando le possibilità di una più vasta intesa di maggioranza e tenendo vito a questo fine uno stretto rapporto col Pci.
    Quanto mai riservatamente Spadolini aveva infatti con Berlinguer regolari incontri periodici per l’esame dei problemi politici. Si svolgevano nell’abitazione del segretario generale alla presidenza della Repubblica, Antonio Maccanico[1]; e dimostravano che, contrariamente a quanto si è tante volte scritto, il segretario del Pci non aveva dopo il 1979 mutato la sua visione politica. Radicalizzò, beninteso, la sua posizione, come è inevitabile avvenga in un partito dopo una rilevante sconfitta politica. Ma ogni leader è sempre riluttante a considerare errata la propria visione di fondo. E si trattava, in questo caso, di un sardo particolarmente ostinato, come sa chiunque l’abbia conosciuto. Alla formula dell’unità nazionale sostituì infatti proposte differenti, in particolare quella di un «governo diverso», ostile alla prassi partitocratica e fermo sulla questione centrale della prevalenza delle istituzioni su ogni altro interesse. È dunque errato ritenere che vi sia stato dopo il 1979 «un altro Berlinguer», teso alla rivendicazione dell’identità comunista su una posizione puramente moralistica e politicamente massimalista. La ricostruzione della posizione politica e dei contrasti interni del Pci, compiuta dal maggiore biografo di Berlinguer[2], lo dimostra ad abundantiam. Proposte e soluzioni relative a forme di unità nazionale furono fatte dal segretario comunista sia nel 1980 sia nel 1981-82; e non si comprende come adesso circoli una vulgata del tutto diversa. Ancora nel 1983, un anno prima della sua scomparsa, chiuse il congresso nazionale del Pci a Milano affermando che il suo obiettivo politico, lungi dall’alternativa, non poteva che essere quello di «passaggi intermedi»: per i quali i laici erano ovviamente essenziali, come registrai nel mio diario il 13 marzo 1983 dopo un colloquio in Transatlantico con Enrico.
    Per intanto, la posizione di Berlinguer contribuì indirettamente al superamento della difficoltà in cui il governo Spadolini si impigliò nell’agosto 1982[3]. Il governo si era dimesso per il ritiro dei ministri socialisti, dopo che la Camera non aveva approvato un provvedimento del ministro socialista delle Finanze, Rino Formica, sulla tassazione dei prodotti petroliferi. Si trattava in realtà di dimissioni strumentali, per giungere alle elezioni anticipate cui una parte del Psi puntava. Il presidente della Repubblica era contrario e le bloccò utilizzando l’idea del «governo diverso»: presieduto da Spadolini e composto da Dc-Psdi-Pri con l’astensione parlamentare o il sostegno del Pci, secondo l’idea avanzata da Berlinguer. Craxi fu indotto alla ritirata e la crisi di agosto si concluse con un compromesso paradossale: la riconferma del governo appena dimessosi.

    (...)



    [1] I colloqui, la notizia dei quali ebbi da Antonio Maccanico, sono registrati nel suo diario, Con Pertini al Quirinale. Diari 1978-1985, cit.
    [2] Cfr. F. Barbagallo, Il Pci dal sequestro di Moro alla morte di Berlinguer, in «Studi storici», 2001, 4, pp. 837-883; e A. Battaglia, Il partito democratico e Berlinguer, in «L’Acropoli», maggio 2012, 3, pp. 233-239.
    [3] Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit.
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    Predefinito Re: Laici al governo: Spadolini, Craxi, Visentini

    A palazzo Chigi il leader repubblicano si era organizzato artigianalmente, mettendo però in piedi un gruppo di giovani collaboratori di valore[1]. Tagliò corto a ogni esitazione presentando in pochi giorni il disegno di legge per lo scioglimento della P2 e favorendo l’istituzione di una speciale commissione parlamentare di inchiesta, presieduta da Tina Anselmi. Affrontò poi con altrettanta energia la questione dell’inflazione, arrivata nel 1981 oltre il 20% annuo. Nel corso di 12 mesi riuscì a rendere l’opinione pubblica consapevole del valore cruciale della battaglia antinflazionistica, «sloganizzando» le tre cifre, 16, 10, cinque che dovevano scandire in tre anni il ritmo di rientro dal pericolo. Furono segnali di un modo di fare nuovo del governo: assai più presente, con suo giudizio e sua posizione, su ogni questione avvertita dall’opinione pubblica. Nino Andreatta, come ministro del Tesoro, compì un atto fondamentale: la separazione tra il Tesoro e la Banca d’Italia da anni ostacolata. Scoppiò la crisi ini Libano e per la prima volta venne inviato un forte contingente militare di peace keeping. Il leader repubblicano fu fortunato nella lotta al terrorismo: il rapimento in Veneto di uno dei capi della Nato in Italia, il generale Dozier, fu presto sventato e la sua Liberazione significò in pratica la fine di un periodo che aveva segnato il paese con una striscia di sangue. Il provvedimento del governo relativo ai benefici per i pentiti del terrorismo costituì l’inizio della fase finale della lotta al terrorismo. Perfino sul terreno minato delle nomine pubbliche vi furono novità. All’Eni fu posto uno scienziato di fama internazionale, Umberto Colombo, e all’Iri un economista autorevole e rispettato, Romano Prodi. Nella lotta contro la mafia il governo produsse un colpo di scena con la nomina a prefetto di Palermo del generale Dalla Chiesa che era stato protagonista della sconfitta del terrorismo. Posso dire del personale turbamento che scosse Spadolini quando a palazzo Chigi, una sera di settembre, ebbe la notizia del suo assassinio. Infine fu una felice invenzione, nella crisi di governo dell’agosto 1982, il lancio dei 10 punti di riforma costituzionale che in fretta fu preparato da Andrea Manzella (allora segretario generale della Presidenza del Consiglio).
    Cadde il suo governo, dopo quasi un anno e mezzo di buon lavoro malgrado o forse anche a causa della proposta di riforma costituzionale fatta a Craxi. E cadde per la fondamentale ragione che era in sostanza un tentativo, pur cauto, di modifica del sistema partitocratico. I due differenti piani in cui si articola la direzione di un paese, quello della politica di Governo e quello della politica dei partiti, continuavano a non convergere. I nuovi leader Dc e socialista Ciriaco De Mita e Bettino Craxi si congiunsero fattualmente nell’avversione al governo laico, risultando tuttavia più esperti del gioco partitico-parlamentare che capaci di affrontare la crisi della democrazia italiana. Sembrava che sfuggisse loro la sua ragione vera, il deficit di riforma a ogni livello, l’insufficienza di partiti che anteponevano a tutto la difesa del proprio potere. Non era qualcosa che potesse essere mascherata da iniziative dai colori vivaci. «Il merito e il bisogno» fu il tema del grande convegno socialista di Rimini promosso da Claudio Martelli; «meno Stato e più mercato» fu la principale tesi nuova di De Mita. Ciò che serviva, però, non erano formule modernizzanti ma fatti. La storiografia è stata attenta agli anni brillanti di Craxi ma distratta rispetto all’opera del primo governo a direzione laica; ed è passato così nella vulgata giornalistica un giudizio approssimativo della sua importanza.
    È possibile che abbia in ciò giocato l’insuccesso elettorale dei repubblicani e dei liberali, nel 1984, quando presentarono una lista comune alle elezioni europee. Un anno prima i due partiti avevano guadagnato buone posizioni alle elezioni politiche del 1983. Separati, raggiunsero l’8%; invece nel 1984, uniti, scesero al 6%. La loro improvvisa unione era inevitabile che comportasse perdite di consensi su un versante e sull’altro. E fallì ancora nel 1989 quando il nuovo segretario del Pri, La Malfa jr., tentò l’accordo oltre che con i liberali anche con i radicali di Pannella.
    Una strategia seria implicava altro.
    A carico del Psi – a parte la corruzione usualmente addebitatagli[2] - sta la complessiva carenza di analisi e di strategia che marcò la posizione del suo segretario, pur notoriamente dotato di non poco fiuto politico. In questo senso può dirsi laicamente che occorre dimensionare con correttezza la figura di Bettino Craxi, prima gettata nella polvere da molti, e da alcuni un po’ selvaggiamente calpestata; poi da altri rimessa su altari eretti troppo in fretta[3].
    Anzitutto, per quanto lo conobbi, Craxi ebbe scarsa attenzione per il problema che ha costituito uno dei fili segreti della politica italiana: il rapporto tra forze laiche e forze socialiste. Fu questa l’intesa determinante per l’esito della battaglia istituzionale nel 1943-46: la lotta per la Repubblica fu impostata e condotta non da Togliatti ma dai leader socialisti azionisti e repubblicani, Nenni, Pertini, Silone, La Malfa, Pacciardi, Conti. Nel 1947, invece, la scelta di Nenni di fare blocco col Pci portò alla scissione di Saragat e al Fronte popolare del 1948. La collaborazione tornò con il centrosinistra. Poi vi fu incomprensione sul terreno economico e disaccordo sull’unità nazionale. Sono vicende che si collocarono sempre al confine di sinistra del centro: il confine appunto dove cominciava il territorio dei repubblicani, dei liberaldemocratici, dei socialdemocratici, dei socialisti, dei radicali. In effetti, il partito unitario dei cattolici non poteva che essere un partito moderato: e la famosa definizione di De Gasperi, «un partito di centro che cammina verso sinistra»[4], spiega alla perfezione perché la Dc, impadronendosi del centro e togliendo ai liberali il loro spazio tradizionale, abbia tenuto costantemente presenti le posizioni della sinistra laica e socialista per orientare e qualificare la sua posizione.
    L’analisi di Craxi non tenne conto di questo aspetto. Egli ebbe il supporto del gruppo di intellettuali, capeggiati da Giuliano Amato, raccoltisi intorno a «Mondo Operaio». Ma pur aprendosi al rapporto con forze culturalmente europee Craxi rimase fermo su una visione tradizionale del socialismo riformista. Ricorse a Proudhon per fornire un’immagine nuova. Badava «alla governabilità più che ai processi riformatori»[5]; e gli aspetti programmatici di un rapporto non strumentale con i laici, più che interessarlo, lo infastidivano. L’intesa con il Partito liberale di Valerio Zanone (il «lib-lab») non ebbe alcuno sbocco. I due governi laici del periodo non furono affatto ispirati dallo stesso disegno. Spadolini riprese la visione inclusiva; ma il sostegno dei socialisti a Spadolini era diretto ad aprire la porta alla prospettiva vera e orgogliosa con cui il leader del Psi rimobilitò il suo partito: un assetto politico, in rottura a sinistra, basato sull’egemonia della forte personalità craxiana.
    Anche la cultura economica del leader socialista era limitata. Percepì esattamente la portata degli spiriti liberisti di quegli anni reaganiani e thatcheriani e puntò a trasferirli in qualche modo in Italia. Il ribasso del dollaro e la caduta dei prezzi petroliferi, cui si accompagnarono due riduzioni del tasso di sconto, contribuirono a una ripresa della crescita economica, determinando anzi una certa euforia delle forze produttive («la nave va»). Ma l’economia non era il suo terreno. Non vide la politica dei redditi come arma della riforma della società, trascurò la questione meridionale, non affrontò lo squilibrio che costituiva la vera palla al piede dell’economia italiana: la condizione della finanza pubblica. Nei felici anni craxiani il debito consolidato continuò a crescere e arrivò quasi al 100% del Pil per proseguire poi la sua inesorabile corsa. L’amministrazione pubblica produceva ogni anno sbilanci crescenti tra spese ed entrate, sbilanci che in pochi anni aumentarono del 50% fino a raggiungere il 12,5% nel 1985[6].
    Craxi non considerava di primaria importanza la dinamica della condizione economica; per lui contava molto di più l’obbligo in cui avrebbe posto la Dc di affidargli la premiership. Non utilizzò la fase di ripresa dell’economia per riassettare gli squilibri che continuavano a minacciare l’Italia: e sprecò la grande occasione che gli si presentava. Essenzialmente, credo, perché considerava che la politica prevalesse su tutto e aveva scarsa consapevolezza della rilevanza di quegli equilibri.
    Era senza dubbio un uomo intelligente, pronto, di abilità tattica inconsueta, capace di dominare situazioni difficili; ebbe alcuni rilevanti successi (dalla vittoria del referendum sulla scala mobile alla firma dell’atto unico europeo e a quella del concordato con la Santa Sede, cui pensò più di tutti il suo braccio destro, Gennaro Acquaviva). Fece l’errore di imitare la Dc proprio sul terreno su cui essa aveva perso forza, qualità e prestigio: le nomine, il clientelismo, il potere per il potere. Pensò, in sostanza, che l’affermazione di un potere socialista, con la riduzione dell’influenza democristiana e del peso politico dei comunisti, sarebbe stata sufficiente per arrestare la crisi del paese. Il suo pensiero strategico non andava al di là del binomio Psi-Dc (e della proposta di una riforma costituzionale che mai neppure si iniziò). L’insufficienza di questa visione diventò drammatica quando il comunismo mondiale esplose, determinando in Italia la crisi del Pci. Adesso, diretti da Achille Occhetto, i comunisti italiani lasciavano la casa-madre, aggiravano il Psi, e avanzavano verso il Partito democratico della sinistra, rudimentale antesignano dell’odierno Partito democratico e primo elemento del bipolarismo post-socialista. Così, in definitiva, la visione politica sostanzialmente miope di Craxi finì per portare in pochi anni alla scomparsa stessa del Partito socialista di cui egli fu l’ultimo leader.

    (...)



    [1] Stefano Folli, il quale ne fu anche un ascoltato consigliere politico, Ugo Magri, Sandro Bonella, Fabrizio Tomada, Davide Giacalone, Antonio Del Pennino, Maurizio Ambrogi, Giuliano Torlontano, più tardi Claudio Lodici. Dal canto suo, Francesco Compagna accettò di passare dalla posizione di ministro a quella di sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Dopo la sua scomparsa lo sostituì Vittorio Olcese, deputato repubblicano di Milano. Ministro del governo Spadolini era, al Bilancio, Giorgio La Malfa.
    [2] La pratica corruttiva della partitocrazia è in sé antitetica, è stato osservato, alla capacità di iniziativa politica: «man mano che è aumentato il coinvolgimento negli scambi corrotti i partiti si sono interessati sempre meno alle scelte politiche e sempre più all’arricchimento dei leader»: cfr. D. Della Porta, Partiti politici, Bologna, Il Mulino, 2009. A sua volta, P. Craveri (in La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino, Utet, 1995) ha parlato per il Psi di «un eccesso di rozza confidenza e cupidigia col gioco del potere in cui aveva preso a tenere banco».
    [3] Una equilibrata visione dell’opera di Craxi, che non contraddice il giudizio complessivo espresso in queste pagine, è quella di un attento studioso del movimento socialista come G. Sabbatucci, I socialisti e la solidarietà nazionale, in S. De Rosa e G. Monina (a cura di), Sistema politico e Istituzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003. Ampio e dettagliato è il saggio di P. Mieli, La crisi del centrosinistra l’alternativa e il nuovo corso socialista, in Storia del socialismo italiano, vol. VI: Dal 1956 a oggi, Roma, il Poligono, 1981.
    [4] La definizione data a De Gasperi alla vigilia delle elezioni del 1948 è riportata da P. Scoppola, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico dell’Italia unita, a cura di G. Tognon, Roma-Bari, Laterza, 2005.
    [5] M. Degli Innocenti, Storia del Psi dal dopoguerra ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 1993.
    [6] S. Rossi, La politica economica italiana 1968-2000, Roma-Bari, Laterza, 2000.
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    Predefinito Re: Laici al governo: Spadolini, Craxi, Visentini

    Curiosamente, la visione del leader socialista non differiva troppo da quella nutrita dal partito democristiano che egli intendeva scalzare. La dirigenza Dc era preoccupata non solo dalla popolarità della figura di Spadolini ma dal consenso al centro che egli stava acquisendo (alle elezioni del 1983 il Pri guadagnò due punti, passando al Senato dal 3,4% al 5,7%, e alla Camera dal 3% al 5,1%). Un pericolo, dunque. Un pericolo grave per un partito la cui volontà dominante era sempre stata, anche in periodi di fioritura culturale, quella di preservare un potere egemone sotto il manto di un pluralismo obbligato. Ed era un pericolo che tanto più assillava al Dc in quegli anni in cui si trovava indebolita, dissecata, piagata.
    Così, la Democrazia cristiana non solo subì la cosiddetta «crisi delle comari» (l’aspro litigio tra il ministro del Tesoro Dc, Andreatta, e il ministro socialista delle Finanze, Formica) ma la considerò utile per abbattere il governo a direzione laica. E subì poi passivamente l’iniziativa socialista nei tre principali episodi che avvalorarono Craxi nel paese: il referendum sulla scala mobile, il concordato tra Italia e Santa Sede, il rigurgito nazionalista che si scatenò con la cosiddetta vicenda di Sigonella.
    A questa, in particolare, seguì un’impetuosa crescita della popolarità di Craxi, fondata sul suo rifiuto di estradare negli Stati Uniti i terroristi che avevano sequestrato nel Mediterraneo una nave da crociera italiana, ed erano responsabili dell’assassinio di un cittadino americano, un ebreo costretto su una sedia a rotelle che fu buttato in mare. Era un episodio mostruoso, e implicava una modifica rilevante della posizione italiana sul terrorismo e sul conflitto arabo-israeliano. Spadolini, ministro della Difesa, reagì con le sue dimissioni, accompagnate da quelle di Visentini e Mammì. Era un modo per rifiutare l’inizio di indirizzi pericolosi. Tuttavia non c’erano alternative di governo che, in quella situazione, potessero concretizzarsi. Dunque l’esecutivo repubblicano si riunì una sera dell’ottobre 1983 – con la significativa assenza di Visentini e La Malfa jr., entrambi favorevoli a mettere in crisi il governo – cenando malinconicamente al ristorante «da Mario» in attesa del documento che Spadolini portò verso le undici di sera, al termine di un colloquio con Craxi durato alcune ore. Chiudeva la crisi di governo riaffermando i principi cui ispirarsi nella questione mediorientale, e insieme costituiva un aggiornamento del programma di governo sul terreno delle riforme istituzionali. Non era molto: ma la Dc, che condivideva le riserve repubblicane, non aveva avuto alcuna reale presenza nella crisi.
    La Democrazia cristiana oscillava in effetti tra posizioni opposte: da quella della segreteria di De Mita, fondata sulla sinistra, a quella dell’accordo tra Forlani, Piccoli e Donat-Cattin, che ancorava il partito a posizioni di centrodestra e lo consegnava di fatto all’empirismo spregiudicato di Andreotti. In questa situazione, come avviene, alcuni provvedimenti utili furono pur sempre approvati dai governi. Così come alcune riforme furono fatte più avanti. Ma la breve ripresa economica non poteva compensare l’aggravamento della condizione viziosa della politica, e del resto non investiva le questioni di fondo del paese. Con sicura mancanza di consapevolezza della realtà della situazione, i leader cattolici tentarono nei secondi anni Ottanta un impossibile ritorno al «primato della Dc». E anche questo anacronismo, accanto agli errori socialisti e al nullismo subentrato nel Pci con la segreteria Natta, accelerò la conclusione della lunga crisi italiana: la rapidissima fine della Prima Repubblica, quando la magistratura iniziò la distruttiva Tangentopoli degli anni 1992-94.
    Su Bruno Visentini il giudizio più sbagliato, fra i molti circolati su di lui, fu probabilmente quello del presidente della commissione Finanze e Tesoro della Camera, l’onorevole Giuseppe D’Alema, il quale sostenne che egli era un uomo simpaticissimo e che però di finanze non capiva quasi nulla. Ora, quanto alla simpatia, Visentini era un uomo aspro di carattere e di volto, i cui tratti potevano spesso risultare non affabili a chi non ne conoscesse da vicino le virtù e i tranquilli vizi, dall’amore per la musica a quello per la gastronomia, dalla guida sportiva alla biblioteca trevigiana. Ma quanto alla scienza delle finanze non solo la insegnava all’università e la utilizzava nella professione, ma la praticava energicamente nella vita politica entro e fuori il governo. «Ogni ministro delle Finanze che si rispetti – diceva – ha sempre nella manica cento miliardi da tirar fuori in caso di necessità».
    La sua passione più vera, però, era la politica, nella quale compì non pochi errori. Fra le ragioni di essi si può mettere senz’altro il rapporto tutt’affatto speciale che lo legava e lo separava da Ugo La Malfa, quasi un fratello maggiore per età, di identica impronta azionista, ma differente per formazione e attitudini. Un rapporto, come dire, di odi et amo, nella esigenza di essere riconosciuto e di affermarsi; e peraltro basato su una stima reciproca. Ma c’era fra essi un dissenso frequente, che i forti caratteri di entrambi portavano talvolta a punte vicine alla rottura, sempre evitata, fino all’ultimo episodio, nella convinzione di provenire entrambi dalla identica radice.
    Visentini, così, fu contrario alla politica di unità nazionale dell’ultimo La Malfa ed espresse non pochi dubbi sulla capacità del Pci di essere pari alle responsabilità cui lo si voleva chiamare. Ma appena un anno e mezzo dopo la scomparsa di La Malfa, nel dicembre 1980, ne riprese la sostanza del disegno politico, fondandolo esplicitamente sul timore di un orribile crollo finanziario non dissimile da quello della Germania di Weimar. Il presidente del Pri propose così un «governo di capaci», «non schiavo dei partiti», che per la novità dell’assunto venne immediatamente scambiato, con qualche equivoco talora voluto, per una cosa del tutto diversa, il «governo dei tecnici». A sua volta Berlinguer lo identificò nel «governo degli onesti» proposto dal Pci, anche se non si trattava esattamente della stessa cosa: essendo il disegno di Visentini quello di una rivoluzionaria modifica della dipendenza delle istituzioni dalla partitocrazia come condizione per risanare lo stato della finanza pubblica.
    La sostanziale adesione di Berlinguer alla proposta del presidente del Pri dava a essa una certa pregnanza politica. Che cosa la bloccò? Da una parte, forte fu la resistenza dei due partiti che più beneficiavano del regime partitocratico a livello nazionale, regionale e locale: non solo il Psi, ma anche, e forse soprattutto, la Dc. Dall’altra parte non si può escludere che la drasticità delle proposte finanziarie che Visentini aveva in animo, e che rifiutava di rendere pubbliche, trovasse perplessità più ampie nei due principali partiti di governo. Una sera dell’inverno 1980 Giorgio Bogi e io ci trovammo a una cena riservata in casa di Olga Visentini, la musicologa che era la figlia minore del presidente del Pri. Oltre a Visentini, c’erano l’anziano leader del liberalismo conservatore, Giovanni Malagodi, un esponente comunista e il direttore di «Repubblica», Eugenio Scalfari. Il tema era appunto quello della formazione del «governo diverso»: e i convenuti convenivano tutti che la proposta di Visentini era sacrosanta, l’unica possibilità di uscire dal malgoverno finanziario, dalla corruzione, ecc. L’unità nazionale, a quel pranzo, andava dal Partito liberale a quello comunista. Ma che cosa si prevedeva in Parlamento? Lo domandò a un certo momento Bogi, gelando quella calda atmosfera. Chi avrebbe formato la maggioranza parlamentare e dato la fiducia al governo? La serata, bene o male, finì lì. Craxi vedeva esattamente il taglio politico del disegno repubblicano e lo avversava decisamente. La Dc di Piccoli, invece, era più semplicistica: avversava Visentini sul terreno personale, ritenendo che esprimesse la perfida anima di un nemico del valore sociale dei partiti di massa, un tecnocrate, un grande borghese, un laico[1].
    L’opera di governo di Visentini fu concentrata sul funzionamento del sistema tributario. La sua convinzione profonda era che in una società moderna il fisco rappresenti la spina dorsale del buon andamento dell’economia e insieme sia fondamentale per la tenuta democratica di un paese. Distribuire con equità il carico fiscale e fare il possibile perché tutti paghino le imposte fu sempre l’obiettivo della sua azione: e si comprende bene come, in un paese come il nostro, questa posizione facesse spesso di lui il bersaglio di attacchi e malevolenze.
    Aveva contribuito alla definizione di una seria politica fiscale, come anche di un più moderno diritto societario, già prima di diventare ministro delle Finanze[2]. Era frutto anche del suo impegno – e di quello di un’altra dimenticata importante figura, Cesare Cosciani – la riforma che Ezio Vanoni varò nel 1951. Ma fu con il governo Moro-La Malfa tra il 1974-76, e con i governi Craxi tra il 1983-87, che Visentini dimostrò per intero la sua capacità riformatrice. Col governo Moro trasformò il sistema tributario attraverso un provvedimento la cui carta vincente – osservò Pandolfi, allora suo sottosegretario alle Finanze - «fu il rilievo dato al momento amministrativo, non fermandosi alla pura configurazione dei tributi ma incidendo sulla realtà delle procedure e la gestione dell’operatività ed efficacia finale dell’apparato pubblico». Una vera e propria battaglia contro la doppiezza di chi tendeva a far camminare i nuovi tributi sulle vecchie strade.

    (...)



    [1] Visentini ricordò, in una intervista al «Correre della Sera» del 23 dicembre 1980, che il ministro del Tesoro Filippo Maria Pandolfi aveva già «configurato un governo che escludeva tutti i grandi capi delle correnti democristiane e comprendeva persone, parlamentari e non parlamentari, non appartenenti ai partiti ma (tranne alcuni pochi e non in posizioni rilevanti) non in funzione di partito, né di esclusiva legittimazione partitica, e anche persone politicamente qualificate ma estranee ai partiti». Osservava ancora Visentini che con Pandolfi si era di fronte a «un cauto e limitato inizio di comportamenti diversi. Ma Pandolfi fu bloccato all’ultimo momento. Egli fu bloccato dai socialisti […]. Un governo svincolato dalle correnti democristiane e collocato in più diretto rapporto col Parlamento e con l’opinione pubblica, sarebbe stato certamente più forte e forse più stabile. Al momento della conclusione esso fu impedito dai capi corrente della Democrazia cristiana con l’alibi del richiamo alle dichiarazioni dei socialisti»: in B. Visentini, Governo, Parlamento e partiti, testi di una discussione, Roma, edizione fuori commercio, 1981.
    [2] Si vedano i saggi di F. M. Pandolfi, L’azione di Governo e di G. Rossi, Bruno Visentini un giurista moderno entrambi in C. Toria e R. Zorzi (a cura di), Per Bruno Visentini, Venezia, Marsilio, 2001. Sulla «battaglia per la riforma fiscale di Visentini» cfr. M. Degli Innocenti, Storia del Psi, cit.
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    Predefinito Re: Laici al governo: Spadolini, Craxi, Visentini

    Uno scontro politico vero fu, nel primo governo Craxi, quello che ebbe con la intera Democrazia cristiana sul cumulo dei redditi familiari. Aveva presentato un disegno di legge che prevedeva la determinazione di un limite al di sopra del quale non era possibile il ricorso alla tassazione separata del reddito dei coniugi. Si minava così – secondo i parlamentari Dc – l’unità della famiglia. La contrapposizione diventò aspra e soltanto elevando il limite della tassazione separata Visentini riuscì con un piccolo compromesso a fare passare il disegno di legge. In un quadro di finanza pubblica dissestata tentò poi l’inizio di un risanamento del bilancio attraverso un incremento delle entrate. Fu perseguito, oltre che con misure intese a realizzare maggiore efficienza amministrativa, con l’accorpamento delle aliquote Iva e col provvedimento legislativo che mirava a ridurre drasticamente l’evasione del lavoro autonomo. Esso comportava obblighi di registrazione contabile e regime di determinazione forfettaria del reddito, sulla base di valutazioni induttive.
    Anche se questo regime veniva considerato temporaneo (triennale) scatenò reazioni violente da parte delle categorie maggiormente interessate, che rappresentavano per buona parte il retroterra elettorale della Democrazia cristiana. La pubblica dichiarazione di Visentini che l’evasione fiscale in quei settori rappresentava «uno schifo», accentuò l’asprezza della contrapposizione: e nell’aula del Senato il provvedimento, in pratica, fu bloccato. Sicché Visentini, stanco delle opposizioni che incontrava, decise infine di rassegnare le dimissioni. Casualmente, uscendo da palazzo Madama incontrò Arnaldo Forlani, allora vicepresidente del Consiglio, che Visentini stimava poco, considerandolo essenzialmente un indolente. «Ma dove vai così in fretta?», gli domandò Forlani. «Vado a palazzo Chigi a dimettermi» fu la fredda risposta. Fulmineamente Forlani prese in mano la situazione. Pregò Visentini di soprassedere qualche ora, si recò a palazzo Chigi, spiegò a Craxi la situazione, fece convocare il Consiglio dei ministri e il governo pose la fiducia sulle norme contestate. Il provvedimento divenne legge, Visentini mutò il giudizio su Forlani e non si dimise.
    «Aveva la passione di lavorare – scrisse di lui un grande amico veneto, il presidente della Commerciale e di Mediobanca Franco Cingano – per vedere come nelle imprese, nelle società, nelle istituzioni, si potesse far meglio, guardando dritto allo scopo senza tanti complimenti o manovre». Le sue alte doti di uomo di economia e di impresa furono ben illustrate, nella commemorazione tenuta in Senato da Carlo De Benedetti[1] di cui fu amico e non di rado consigliere in un rapporto di stima reciproca.
    Il nome di Visentini si inserisce dunque agevolmente in quella linea di altri «grandi borghesi»: uomini fedelissimi allo Stato, che per una lunga stagione hanno reso preziosi servizi al paese operando sulla concretezza dei problemi e sul modo di affrontarli. È una nobile linea che va da Menichella a Mattioli, da Giordani a Sinigaglia a Olivetti, a Cosciani, Cuccia, Saraceno, Baffi, Draghi, a molti altri. Mentre Einaudi, Siglienti, Carli, Ciampi, Monti, Saccomanni, Padoan, che appartengono alla stessa linea, sono stati assai più vicini e partecipi dell’ambiente politico e di governo. Tutti hanno contribuito a modernizzare l’Italia con interventi mirati anche quando la loro opera si è collocata entro assetti politici che poco la consentivano. C’è un grande contributo dato al paese dal mondo dei capaci, del merito, delle scienze sociali, il metodo della prova e dell’errore. La costruzione di una Italia che in vari aspetti ancora si profila viva e capace è molto passata da lì, ed è un gran peccato che i vent’anni della Seconda Repubblica abbiano ulteriormente oscurato quella tradizione.

    (...)



    [1] In Toria e Zorzi (a cura di), Per Bruno Visentini, cit.
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    Predefinito Re: Laici al governo: Spadolini, Craxi, Visentini

    DOCUMENTI

    La crisi del governo Spadolini, note di diario

    La crisi del governo Spadolini fu aperta il 5 agosto 1982 quando la Camera rigettò un decreto fiscale in materia petrolifera presentato dal ministro delle Finanze Rino Formica. Ne seguirono le dimissioni di tutti i ministri socialisti e il 7 agosto Spadolini annunziò le dimissioni del governo: che si concluse poi il 13 agosto con la riconferma del governo dimissionario e l’integrazione del programma di «dieci punti» di riforma istituzionale. Quello che segue sono le note del mio diario relative a quei giorni.

    Martedì 10 agosto

    Con Biasini e Gualtieri 40 minuti al Quirinale, dalle 10:25 alle 11:05. Pertini stupito assenza Visentini. Discorso assai breve politicamente, intramezzato da ricordi, racconti e battute: La Malfa, mio padre, il carcere di Turi e Gramsci, il pranzo con Spadolini all’hotel Laurin, Biasini e la bicicletta, Mammì e la pipa, ecc. Ottimo rapporto con Spadolini, non turbato da ricordi episodio elezione presidenziale (smentito poi da Spadolini a palazzo Chigi). Insomma, è deciso a reincaricare Spadolini domattina, perché faccia un Governo nuovo con uomini anche estranei al Parlamento (fatti nomi di Prodi, Barile, Bo, e M. S. Giannini) (con la teorizzazione costituzionale che i ministri li nomina lui, giurano a lui e lui firma la loro nomina), da mandare addirittura martedì prossimo alle Camere, non necessariamente (a domanda mia) pentapartito, su cui il Parlamento si pronunci con la triplice possibilità che si amplino i consensi (Pci), che regga per la partecipazione socialista o che cada per l’assenza [dei] socialisti: in questo caso, sembra di capire implicitamente, è il Parlamento che decide di sciogliere se stesso e Pertini registrerebbe. Ma come posizione iniziale, Pertini adesso, non vuole sciogliere le Camere: «Non voglio, punto e a capo». Atmosfera di grande cordialità e amicizia […].
    Poi a palazzo Chigi Giovanni ancora incerto – realmente – se più utile elezioni o continuare con nuovo governo fino a primavera: dice elezioni, ma pensa a una struttura del tutto nuova per i ministri finanziari (Forte, Marcora, Visentini) (suggerito Reviglio). Comunque, nota che senza i socialisti è impossibile governare. È possibile che Pertini, perciò, immagini uno scambio: governo a quattro con tecnici, voto contrario socialisti, elezioni: scambiando così le elezioni, che Craxi vuole, con l’assenza socialista. Craxi non può evidentemente avere ambedue [elezioni e presenza al Governo]. Spadolini perplesso, e anzi più che perplesso sui nomi di Bo e Giannini.
    Notato con Spadolini il perfetto capovolgimento della posizione di Pertini (di cui ci riferì anche venerdì sera, tornato da Selva). A Selva Pertini accolse Spad. domandandogli quando pensava di convocare le elezioni. E nel corso del colloquio aveva accennato a un piano comprendente come ultimo atto il rinvio di Spadolini alle Camere e comunque l’incarico a due democristiani per primi, esattamente Colombo e Forlani. Spadolini dice oggi che intuì un mutamento della situazione fin da sabato, quando, su richiesta di Formica, interpellò Maccanico per sapere se Pertini intendeva riceverlo al Quirinale come Formica desiderava, e si sentì rispondere che il Pres. della Rep. poteva ricevere solo il Pres. del Cons. La tesi odierna di Pertini, nota Biasini risente molto dell’impostazione comunista. Visentini al telefono nota esattamente che il Pci si è spinto troppo sulla nota tesi [appoggio o astensione del Pci, in Parlamento del nuovo governo Spadolini, senza il Psi] e che l’ha resa più difficile. Ha tagliato rapidamente la conversazione e per intuito credo che veda suo rientro possibile. Spadolini, con noi, non ha fatto mistero della necessità di liquidare dal Governo Giorgio La Malfa.
    Manzella dice che Craxi per la prima volta ha avuto una vera sfida alla sua leadership e che molto della crisi sarà determinato proprio da questo elemento interno al Psi: pare che Craxi abbia subito l’atteggiamento di Formica e «solo alle due di notte» si sia convinto che non poteva fare diversamente da ciò che poi ha fatto: per la prima volta, cioè, la posizione del Psi non è stata voluta dal suo Segretario ma da altri [Formica e De Michelis alleati]. Che Formica fosse ben conscio di quel che sarebbe accaduto è confermato del resto dal retroscena del voto. Ci si riunì come maggioranza alla commissione Finanza e Tesoro, verso le 15:00, e io proposi i modi di superare il voto di costituzionalità [sul decreto Formica] che tutti prevedevano negativo, anche su informazioni comuniste […].
    Ma Formica, secondo Labriola, non accettò nessun compromesso dicendo esplicitamente: o il decreto così com’è o le mie dimissioni. Seppia, vice capogruppo [socialista] mi ha confermato questo, dopo altra sua telefonata. Dunque Formica era ben conscio. Tanto che io mi astenni dal telefonargli a mia volta, pensando: allora ha deciso di dimettersi. Poi i voti negativi (223) sono stati più del previsto: anche di più, perché Bernardini (Pci) mi ha detto confidenzialmente che i membri comunisti della commissione erano stati autorizzati a votare a favore del Decreto, vedendo l’errore di bocciarlo e gli interessi che si muovevano dietro la bocciatura; e Spaventa mi ha confermato il voto comunista e mi disse che d’accordo con Napolitano il gruppo della sinistra indipendente (sei presenti) aveva anch’esso votato a favore. Sicché per arrivare a 223 voti contrari bisogna pensare almeno a 70-80 franchi tiratori.
    A palazzo Chigi telefonate di Forlani e Bianco [Gerardo, presidente del gruppo Dc]. Il primo avrebbe insistito con Spadolini perché formasse il governo solo avendo in tasca il Decreto di scioglimento. Il secondo ha confermato che la delegazione Dc, ieri sera, era stata compatta sul nome di Spad. e che quando Pertini (come scusandosi se poteva sembrare provocatorio quel che diceva e domandando se c’era spazio per Forlani e Andreotti) domandò se c’erano subordinate, la delegazione, Piccoli in testa (con in mente la possibilità di Forlani! dice Bianco) escluse altri nomi e confermò secco Spadolini.
    Raccontato a Spadolini per brevi capi la conversazione che Oddo [Biasini] e io avemmo con Donat-Cattin [Carlo] venerdì. Egli assicurava che la crisi era tanto meno sorprendente in quanto tra Craxi e De Mita, nel loro recente colloquio, si era stretta una rapida intesa: sul presupposto che Spadolini alla Dc portava via consensi moderati, e a Craxi immagine, sicché l’interesse di ambedue era di eliminarlo rapidamente. Donde l’apologo della nota di Donat-Cattin: il gatto e la volpe che bastonano Pinocchio – Spadolini.
    Manzella diceva stamane che il capo del Cesis, cioè del coordinamento dei due servizi segreti, ha pronta la lettera di dimissioni se Spadolini molla. Siete gli unici, avrebbe detto, che mai avete chiesto un soldo sui fondi segreti a disposizione dei servizi. Pare che in passato fosse pratica concreta disporre almeno degli interessi: che ammontano in un anno a non meno di due miliardi e mezzo, del resto neppure tanti.

    Mercoledì 11 agosto

    Giornata nera per Spadolini. Spini, Covatta e Labriola concordi nel dire che entro il Psi c’è molta irritazione contro Spadolini, accusato di esser venuto meno in occasione precedenti a impegni (di fare la crisi) assunti con Craxi. Covatta accenna all’ipotesi che circola nel Psi di un governo a guida Dc contro cui votino i socialisti, che porti alle elezioni. Stasera la dichiarazione di Martelli, che è una specie di campana a morte.
    Con Giovanni a P. Chigi s’era visto stamane come ammorbidire i social. Cercato Martelli ma non trovato. Al dibattito in tv rapidamente poi scomparso. S’era detto in fine che la via maestra era che Pertini parlasse a Craxi; e ha promesso che lo avrebbe fatto in serata. Piccoli ha confermato a Biasini che la Dc non marcia senza i social. Che taglia spazi ulteriori a tentativi a 4 e uccide in culla l’ipotesi in sé remotissima di un governo sostenuto dall’esterno dal Pci.
    Berlinguer ha fatto a Spadolini alcuni nomi di possibili Ministri estranei ai partiti: Baffi, Beria, D’Argentine, Barile, Garin. Due coincidono coi nomi di Pertini, che a Spadolini ha poi allungato la lista, fino a mettere Streheler, Bassani, ecc ecc, tutte cose inesistenti oggi […]. Si sospetta un tentativo soc. di andare su un altro laico, dopo un Dc sbiadito completamente, come potrebbe essere Colombo, cui Pertini continua a pensare.

    Giovedì 12 agosto

    Giornata nata male e finita non c’è male. Episodi determinanti: il colloquio a due Craxi-Spadolini, preceduto da quello breve Spadolini-Formica; il colloquio al Quirinale tra Craxi e Pertini in cui Pertini ha chiarito gli equivoci, che avevano determinato l’attacco di Martelli, in cui erano caduti i socialisti. Infine, in serata, l’intervento televisivo di Spadolini, che ha lanciato un governo politico-istituzionale, tagliando l’erba sotto i piedi di Fanfani. La Dc aveva continuato a sparare sulle elezioni anticipate e sui socialisti come responsabili di esse, lanciando contemporaneamente un ponte al Psi che è sempre più isolato (e assai critico verso noi Pci e Psdi, per esser stato lasciato solo). Così a Montecitorio era già in movimento tutta la lobby giornalistica Dc a favore della ricostituita intesa Dc-Psi, sullo sfascio dell’intesa tra Psi e laici.
    Svanita anche l’illusione di Zanone di poter essere designato (a pranzo, lo ha melanconicamente detto in cifra a Bozzi, che sedeva vicino a me, quasi io non capissi: «Per noi, ogni problema è superato, ti pare?»). In serata Forlani, che con Piccoli aveva dato la notizia al «Corriere» dettami da [Rosario] Manfellotto – s’è incrociato con Craxi, hanno passeggiato al Pincio e Forlani ne ha tratto l’impressione, poi riferita a Spad. a P. Chigi alle ore 23.00 – che Craxi marci: anche perché con Fanfani avrebbe difficoltà entro il partito e nell’opinione pubblica; e, inoltre, Fanfani non passerebbe mai con Pertini e infine, mi pare, non gli [a Craxi] può far piacere l’aggiramento [da parte] di Formica.
    I racconti di Spadolini continuano a sottolineare la mutevolezza di opinione e di atteggiamento di Pertini, vera «variabile indipendente». Intervista a 24ore, «Stampa» e «Mattino». Incontro utile con la delegazione Pci (comunicato), incontro utile e cordiale tra Biasini e Craxi.

    Venerdì 13 agosto

    Marcia, sembra. Colloquio mattinale tra Craxi e Spad. con buoni rapporti (seppure – riferisce Spadolini a palazzo Chigi – Craxi non abbia dato assicurazioni sul tentativo «politico istituzionale»: che ha raccomandato di chiamarlo così e di non usare più il termine «Pentapartito» per la rottura intervenuta col Psdi dopo l’attacco di Saragat). Colloqui confusi Spad.-Pertini, Pertini-Maccanico, Manca-Spad., e Spadolini-Pertini: in sostanza Pertini, di cui Spad. continua a temere la variabilità, seppure i rapporti siano sempre eccellenti, aveva inteso che Spad. sarebbe andato a rinunciare all’incarico!).
    Scarse novità con De Mita: ma Spad. riferisce che hanno cominciato a parlare di una possibile struttura, in particolare della terna economica.
    L’idea di Spad. è fuori tutte e tre gli attuali e Marcora al Tesoro (De Mita non vuole comunque mollare al Psi l’Industria, neppure le PP. SS.) Visentini alle Finanze e Forte («?») al Bilancio. (Mia idea: Formica al Lavoro: mandato un biglietto a Spad.).
    Biasini telefonato a Craxi per fissare un incontro delegazioni. Aperta conversazione dicendo: si marcia? Risposta: mi pare di sì.
    Spad. di buon umore. […] È stato così cortese da dire nell’incontro di ieri sera con Gualtieri e Biasini che era mia l’idea di andare su temi istituzionali. In effetti lo era. Ieri mattina, poi, ne parlai al telefono con Tonino, sollecitandolo a telefonare a Spadolini per rilanciarla nell’incontro delle 9.00 con Craxi. Ma Tonino non fece a tempo e ne parlò a Manzella, che inviò un biglietto di appunti a Spad. Più tardi all’una, nell’incontro con la delegazione nostra, Spad. lo mostrò irritato sottolineando che era una vera sciocchezza, ecc, che Tonino non aveva il senso della situazione e via discorrendo. Ma nel frattempo, come poi ho accertato con Manzella, aveva già messo in moto una piccola staff (Manzella, Tosi e Ungari) per preparare i 10 punti preliminari e aveva cominciato anche a pensare al discorso della serata che ha rovesciato il corso fino allora disastroso della crisi. Dico, che abbia avuto la cortesia di riconoscerlo è un fatto raro. Riferito a Antonio DP [Del Pennino] che ha anche accettato la formula da me scritta che poi Biasini avrebbe letto in tv, dopo l’incontro delle 13:00 di ieri: «Assolutamente inaudito» è il commento di Antonio.


    https://musicaestoria.wordpress.com/...axi-visentini/
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