di Adolfo Battaglia – In “Né un soldo né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica”, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 221-240.
Almeno per quanto riguarda la vita politica Giovanni Spadolini era un uomo nato fortunato. Col Partito repubblicano fu eletto senatore per la prima volta nel 1972; e due anni dopo, nel 1974, era già diventato ministro. Lo divenne una seconda volta, sempre per il Partito repubblicano, nel 1979. Poi, nel 1981, divenne presidente del Consiglio dei ministri. Quindi tornò ministro, sempre per il Pri, dal 1984 al 1987. In quell’anno cambiò ruolo solo per diventare presidente del Senato, sempre rimanendo iscritto al Pri. Nel quale – a dirla tutta intera – era entrato per un caso fortuito che fu la sua fortuna, sebbene autorevolmente Machiavelli abbia sostenuto che la fortuna è la virtù (Spadolini, in verità, ne possedeva).
La cosa, contrariamente a quello che ha scritto Indro Montanelli[1], andò così. Una sera in vista delle elezioni del 1972, La Malfa e io eravamo andati a Grosseto per un comizio e la mattina successiva ripartimmo presto per Roma. Erano le 7:00 e scorrevo in auto i quotidiani appena comprati quando rimasi folgorato dalla notizia delle dimissioni di Spadolini dal «Corriere della Sera». Pure La Malfa non ne sapeva niente. Almanaccammo un po’ e mi venne l’idea: «Perché non lo candidiamo a Milano?». La Malfa esitò. A Milano avevamo già impegnato Pietro Bucalossi, il famoso oncologo che era stato sindaco della città. Facemmo dunque alcuni chilometri in silenzio, poi La Malfa decise di telefonargli. Così alle 7:20 del mattino ci fermammo sulla strada statale Aurelia, poco prima di Talamone, a una stazione di servizio che aveva un telefono fisso collocato quasi sulla strada. E in quel posto, in piedi, nel rumore delle auto che passavano, La Malfa ebbe da Spadolini l’accettazione della candidatura per il Senato. Poi si seppe che Saragat più educatamente aveva chiamato Spadolini verso le 8:00, e gli aveva offerto la candidatura per il Partito socialdemocratico. Una telefonata tempestiva salva la vita, come si dice.
Quando si iscrisse al Pri, Spadolini non apparteneva ad alcuno dei due filoni costitutivi del partito. Non era un repubblicano «storico», sebbene avesse scritto molto sul repubblicanesimo post-risorgimentale; e non apparteneva all’azionismo lamalfiano, che aveva dominato il partito più recentemente. Neppure era iscritto alla massoneria, sebbene si dicesse largamente il contrario. Appena eletto, convocò il segretario del gruppo parlamentare, Giuseppe Candidori, perché voleva avere notizie attendibili sui molti dirigenti repubblicani che non conosceva. E domandava sempre, alla fine di ogni singola informativa: «È anche massone?». Candidori, che conosceva tutto e tutti, rispose parecchie volte di sì. Così successe che al termine della ricognizione Spadolini concludesse: «Caro Peppino, grazie di tutto, ma se le cose stanno come dici allora mi conviene continuare a far credere che sono massone anch’io!».
I repubblicani lo elessero segretario del partito, nel 1979, in luogo di quella persona assai perbene che era Oddo Biasini, considerato debole senza La Malfa alle spalle. In contrapposizione a Spadolini avevo fatto anch’io un pensiero per la segreteria; e Giovanni non era persona incline a dimenticare, sebbene qualche anno prima, a Milano, con lui, Bucalossi e Antonio Del Pennino avessimo condotto insieme una bella campagna elettorale che portò alla elezione di tutti e quattro. Quando il presidente della Repubblica, Pertini, gli diede l’incarico di costituire il governo, nel 1981, mi domandò che cosa pensassi dell’ingresso dei liberali nel governo, ricordando probabilmente i problemi che avevo creato anni prima sulla stessa questione. Ero il presidente del gruppo parlamentare e gli dissi onestamente che se voleva fare il governo non esitasse a inserirvi i liberali: altrimenti il suo rifiuto del Pli sarebbe stato anzitutto utilizzato come pretesto per farlo cadere. Era un buon consiglio e anche questo non lo dimenticò, credo.
Quando il nuovo capo del governo apparve in tv per la prima volta, gli italiani si accorsero che la sua figura era del tutto diversa dalle solite. Appariva sugli schermi un omone un po’ grasso, buono, iracondo, vanitoso, coltissimo, integerrimo; un professore universitario autore di apprezzati volumi di storia, editorialista di grandi giornali, direttore di una storica rivista della cultura italiana[2] e del maggiore quotidiano del paese. Una persona «diversa», che piaceva anche perché non veniva dalla routine partitica. Rappresentò un valore aggiunto e costituì una vera fortuna per i repubblicani, i quali alle elezioni del 1983, dopo il suo Governo, quasi raddoppiarono i voti ottenendo il maggiore successo elettorale della loro storia.
Nella vulgata di Montecitorio è passato spesso come un uomo vicino ai socialisti. Nei diari di un protagonista cattolico, lo storico Gabriele De Rosa[3], è considerato invece un liberale neogiolittiano. Era in realtà non un neogiolittiano ma una personalità molto complessa: un uomo tanto difficile alla confidenza quanto restio alla discussione dei suoi progetti. Attentissimo a tutti gli elementi e le pieghe dei processi politici; e apparecchiato a portare avanti il proprio disegno «inclusivo» di consolidamento della democrazia. Con intelligenza, con astuzia, con energia, e sempre nel rispetto dei principi e del valore delle istituzioni. Un uomo politico che andrebbe ormai studiato senza impressionismi, come figura rilevante della nostra vita pubblica. Il suo governo, per il tipo di direzione politica e di contenuti programmatici, rappresentò un momento di ripresa di fiducia nella politica da parte dell’opinione pubblica. Lo fecero cadere partiti preoccupati soprattutto del loro potere. E si perse così l’occasione, che quel governo rappresentava, di consolidare il passo indietro rispetto al precipizio verso cui il paese marciava.
Il fallimento della «solidarietà nazionale» aveva aperto nel 1979 una nuova fase politica che divenne inevitabilmente dominata dall’indirizzo del segretario del Psi Bettino Craxi. Al suo inizio, quella stagione aveva visto il duro contrasto tra lui e La Malfa, poi tra lui e Berlinguer, mentre ulteriori differenze di orientamento si manifestavano entro la Dc e il Pci. La tesi del leader repubblicano era, in breve, che l’indirizzo politico di Craxi non solo non avrebbe contribuito a sanare la crisi della Repubblica ma ne avrebbe anzi accelerata la caduta. Ed era un giudizio indubbiamente esatto, che gli esegeti contemporanei del leader socialista dovrebbero forse tenere in maggior conto. In un paese fragile come l’Italia la strategia della rottura, come antitetica a quella «inclusiva», non poteva che portare rovine, quale che fosse la sua iniziale lucentezza. Furono anni controversi, in cui naturalmente si fecero anche cose buone. Ma era scritto che l’opera dei governi investisse soltanto singoli problemi e non potesse modificare l’andamento della condizione italiana. Era il sistema politico nel suo insieme a non reggere. Era la crisi di sistema su cui la sinistra laica da gran tempo batteva.
Riuscirono solo ad appesantire la situazione, tra il 1979 e il 1981, il ministero Cossiga e quello Forlani, entrambi frutto di alchimie poco decifrabili[4]. Nell’imperversare del terrorismo, degli assassini delle stragi, nella crisi della legalità, negli sconvolgimenti generati da un’inflazione altissima, nelle crisi di impotenza dei partiti, esplose infine anche la crisi morale, quando la magistratura sequestrò a un gran maestro della massoneria, Licio Gelli, la lista degli iscritti alla Loggia segreta P2. Venne così alla luce uno degli aspetti più oscuri del groviglio che stava stremando il paese. Nella gravità dei tradimenti dimostrati dai nomi di quella lista sembrò che l’Italia fosse arrivata al fondo. Seguì una crisi caotica, connotata dal drammatico senso di disfacimento che risulta anche dal diario del segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico[5]. E quando il vecchio socialista galantuomo che era divenuto presidente della Repubblica, Sandro Pertini, chiamò a raccolta quanto rimaneva delle forze politiche, anche la Dc non poté avere obiezioni ad affidare il governo al segretario del Pri, il laico Spadolini.
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[1] I. Montanelli, I conti con me stesso 1957-1978, a cura di S. Romano, Milano, Rizzoli, 2009.
[2] La fiorentina «Nuova Antologia», divenuta bimestrale e poi trimestrale, e dopo Spadolini passata sotto l’oculata direzione di Cosimo Ceccuti.
[3] G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico 1990-96, Roma-Bari, Laterza, 1997.
[4] Francesco Cossiga fu peraltro fondamentale nella scelta della politica estera che consentì di controbilanciare la minaccia dei missili sovietici SS20 con la installazione sul territorio italiano di missili Nato, decisione che fu poi seguita dalla Germania e costituì ragione non secondaria del nuovo equilibrio internazionale che porterà alla caduta del comunismo mondiale. Dovevo recarmi negli Stati Uniti per ragioni personali e Cossiga mi chiese di andare al Dipartimento di Stato per confermare di persona, a suo nome, quanto aveva fatto sapere attraverso l’Ambasciata americana a Roma: l’Italia avrebbe accolto l’installazione dei missili americani.
[5] A. Maccanico, Con Pertini al Quirinale. Diari 1978-1985, a cura di P. Soddu, Bologna, Il Mulino, 2014.