di Giuseppe Galasso – In “Mazzini e il mazzinianesimo”, atti del XIV Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Genova, 24-28 settembre 1972), Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma 1974, pp. 241-278.
Nelle Note autobiografiche Mazzini ricordava, nelle pagine premesse al I volume dell’edizione daelliana dei suoi scritti politici, apparso nel 1861, che a spingerlo a porre come scopo della Giovine Italia – mentre la ideava – l’unità e la repubblica erano stati «gli istinti e le tendenze d’Italia, quali gli apparivano attraverso la storia e nell’intima costituzione sociale del paese»[1]. Vero è che nelle stesse pagine egli ricordava pure che il lavoro politico a cui aveva pensato, durante i mesi della sua prima prigione, di dedicarsi per il futuro avrebbe dovuto essere fondato «su principii non su teoriche d’interesse, sul dovere non sul benessere»; e che, se «la scuola straniera del materialismo» gli aveva «sfiorato l’anima… per alcuni mesi di vita universitaria», ben presto «la Storia e l’intuizione della coscienza, soli criterii di verità», lo avevano «ricondotto rapidamente all’idealismo de’ nostri padri»[2]. Non si esagera, se si afferma che in queste poche righe, scritte a distanza di trent’anni dagli avvenimenti a cui accennano, ma assolutamente attendibili, sono contenuti alcuni elementi essenziali per l’interpretazione del pensiero, e quindi anche dell’azione politica, di Mazzini.
Per quanto riguarda, tuttavia, in maniera più specifica il nostro argomento, quel che appare subito da sottolineare è l’affermazione mazziniana, secondo la quale i grandi obiettivi dell’unità italiana e della repubblica emersero, fra l’altro, da un’analisi dell’«intima costituzione sociale del paese». Si tratta di un’affermazione che – generalmente trascurata, se non erro – è, però, da meditare. Non è che negli scritti di Mazzini nei primi anni della sua attività politica personale, una volta uscito dalla Carboneria, si incontri effettivamente un’analisi dettagliata della struttura sociale dell’Italia. Già il fatto che si parli sempre d’Italia in generale mette in guardia contro la possibilità di un’analisi di tal genere, ché altrimenti le differenze profonde tra parte e parte del paese, e non soltanto fra Nord e Sud, avrebbero dovuto dissolvere l’immagine e il termine unitari, sempre presenti negli scritti mazziniani, anche a riguardo dell’«intima costituzione» della società italiana. In realtà, ciò in cui per il Mazzini si concreta l’«intima costituzione sociale del paese» è la distinzione che egli opera fra il popolo e le altre classi dal punto di vista della potenzialità rivoluzionaria che si può fondare su questa distinzione d’interessi.
Negli scritti degli anni fra il 1830 e il 1833 questo è, effettivamente, il motivo conduttore più rilevante sotto il profilo della formazione di un pensiero sociale che possa dirsi proprio di Mazzini. Lo scritto del 1832 su Alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia, ad esempio, è dedicato a dimostrare che «gli elementi di rivoluzione non mancano all’Italia»[3]. Ora, fra questi elementi figura, come soggetto autonomo di bisogni, il popolo. «Quand’altro non fosse – scrive Mazzini -, le moltitudini soffrono: le moltitudini sono oppresse, conculcate dall’aristocrazia, immiserite da’ dazi, dalle imposte e dalle dogane, dissanguate da’ frati, a’ quali l’altre classi son già sottratte». Il popolo, aggiunge più avanti, sta oggi davanti a noi «nella divisa della miseria e dell’ilotismo politico, lacero, affamato, stentando a raccogliere dal sudore della sua fronte un pane che la opulenza gli getta innanzi insultandolo»[4]. Poi Mazzini trova accenti che non torneranno più tanto facilmente e frequentemente sotto la sua penna. «Il barbaro – egli scrive – per l’uomo del popolo è l’esattore che gl’impone un tributo sulla luce ch’egli saluta, sull’aura ch’egli respira; il barbaro è il doganiere che gl’inceppa il traffico; il barbaro è l’uomo che viola, insultando, la sua libertà individuale; il barbaro è la spia che lo veglia ne’ luoghi dov’ei tenta obbliare l’alta miseria che lo circonda. Là, nelle mille angherie, nelle vessazioni infinite, nell’insulto perenne d’un insolente potere, d’una esosa aristocrazia stanno i guai delle moltitudini: di là avete a trarre quel grido che può farla sorgere. Gridate all’orecchio del popolo: la tassa prediale v’assorbe la sesta parte o la quinta dell’entrata; le gabelle imposte alle polveri, a’ tabacchi, allo zucchero, ad altri generi coloniali agguagliano la metà del valore; il prezzo del sale, genere di prima necessità, v’è rincarito di tanto che né potete distribuirne al bestiame, né talora potete usarne per voi medesimi; la necessità d’adoprare pe’ menomi atti, per le menome contrattazioni la carta soggetta al bollo v’è sorgente continua di spesa; i vostri figli sono strappati alle madri, e cacciati ne’ ranghi di soldati che v’appunteranno al petto le baionette, sol che il vostro gemito si faccia potente per salire al trono del tiranno che vi sta sopra»[5]. Si ricorderà – leggendo una pagina come questa – che Carlo Cattaneo, meno di venti anni dopo, avrebbe scritto che la Giovine Italia «non era popolare: non penetrava addentro nella carne del popolo, come la coscrizione e il bastone tedesco e la legge del bollo e l’esattore e il circondario confinante»[6]. Ma su questo punto bisognerà tornare. Mette conto, intanto, sottolineare ancora una volta gli accenti di Mazzini nell’analisi delle condizioni del popolo. Bisogna, anzi, aggiungere che, nell’ambito del popolo genericamente inteso, egli – quando parla della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia – sembra guardare, come ad un elemento più specifico, «alla miseria immensa che preme la popolazione delle campagne e la tien disposta a’ tentativi i più disperati, sol che si voglia confortarla e guidarla».[7]
Certo, l’angolo visuale sotto cui Mazzini conduce la sua analisi dell’«intima costituzione sociale del paese» è sempre quello di ciò che da essa si può dedurre per la rivoluzione nazionale italiana e per le caratteristiche che si annunciano come proprie di una nuova epoca della storia europea. Merita, tuttavia, di essere messo in evidenza, anche qui, quanto conti il motivo sociale nello sviluppo della dottrina rivoluzionaria e, più in generale, del pensiero politico di Mazzini.
Nell’analizzare i motivi per cui i moti nazionali in Italia, fino a quelli del 1831, erano falliti dopo inizi «brillanti, unanimi, confidenti», Mazzini sottolinea, così, due elementi: da un lato, la mancanza di capi adeguati al compito di una leadership rivoluzionaria; dall’altro, la incapacità di intendere, da parte dei rivoltosi, i «mezzi» e l’«intento d’una rivoluzione». Ora, su questo secondo punto, Mazzini osserva che «ai popoli si parla efficacemente in due modi: colla virtù dell’esempio e colla utilità del fine proposto; trascinandoli coll’entusiasmo o seducendoli con l’avvenire». Si sarebbe dovuto gridare «alle moltitudini: siate con noi, però che noi veniamo a togliervi allo stento ed alla miseria». C’era «una parola, che proferita al popolo potea suscitarlo all’opre del braccio», e cioè la «parola d’eguaglianza». Inutile il parlare di libertà o di patria; si tratterebbe, osserva Mazzini, di vuoti nomi e «ai nomi il popolo è muto», «la idea è nulla…, dove non sia scesa all’applicazione»[8]. Né egli limita il suo sguardo ai soli moti italiani del suo tempo. La sua considerazione critica investe, sotto questo profilo, il più vasto ambito di tutta l’epoca rivoluzionaria apertasi in Francia nel 1789. I capi rivoluzionari son d’accordo, egli dice, nella parte negativa ed eversiva del loro programma. «Distruggere, rovesciare il vecchio edificio sociale, sperdere le reliquie del feudalesimo, rompere i ceppi agli uomini d’una nazione: in questo concordano. Più oltre s’arrestano incerti, come se a quel termine avesse fine la loro missione»[9]. Questa mutilazione del compito rivoluzionario aveva fatto sì che il popolo trovasse sopra di sé «una nuova aristocrazia al luogo della rovesciata, il privilegio dell’oro sottentrato a quello del sangue»[10]. Si era assistito, in effetti, al trionfo della borghesia, ma poteva trattarsi di un trionfo effimero. «Prima legge d’ogni rivoluzione – scrive ancora Mazzini – è quella di non creare la necessità d’una seconda rivoluzione»[11]. L’appello al popolo per l’affermazione degli interessi della borghesia aveva messo in moto forze che non si potevano ormai più trascurare. La passività delle masse negli ultimi moti rivoluzionari dipendeva appunto dal fatto che essi erano apparsi come «retaggio e monopolio d’una sola classe sociale» e tali da non poter portare ad altro che «alla sostitudizione d’un’aristocrazia ad un’altra»[12]. E Mazzini incalza ancora: «le rivoluzioni, a questi ultimi tempi, sorsero inaspettate, non preparate, artificialmente connesse; furono dirette al trionfo d’una classe sovra un’altra, d’una aristocrazia nuova sovra una vecchia, e del popolo non si fece pensiero». Le stesse rivoluzioni borghesi avevano, tuttavia, fatto del popolo un soggetto attivo di storia. «Un tempo il popolo non vivea d’una vita propria, ma dell’altrui. Era elemento di civiltà, quindi di rivoluzione, ma come stromento che aspettava chi l’adoprasse… Mancava al popolo la coscienza de’ suoi diritti». Ma bastava dare uno sguardo sommario alla «storia dello sviluppo progressivo dell’elemento popolare attraverso diciotto secoli di vicende e di guerra» per capire, dice Mazzini, che «oggi l’elemento popolare è comparso: il popolo ha innalzato la sua bandiera»; ossia, appunto, è apparso un nuovo protagonista storico, dal quale è ormai impossibile prescindere, anche perché esso aveva «trovato un simbolo n ella Convenzione»[13]. L’ascesa dell’elemento popolare e la sua lotta contro il privilegio di volta in volta rappresentato da elementi storici e sociali diversi costituiscono per Mazzini «la formula della storia di diciotto secoli» e spiegano la successiva opposizione tra «dominio e servaggio, patriziato e plebeianismo, aristocrazia e popolo, feudalesimo e cattolicesimo ne’ primi tempi della Chiesa, cattolicesimo e protestantesimo negli ultimi, dispotismo e liberalismo»[14]. In sostanza, quindi, la lotta fra i principii è vista da Mazzini anche come opposizione di classi diverse, portatrici ciascuna di un principio. Giunti al punto che il grado più basso della scala sociale era diventato a sua volta protagonista consapevole della vicenda storica, nessuna rivoluzione aveva più prospettive di successo, qualora non si fosse riusciti a contemperare e a portare avanti simultaneamente «tutti gli elementi politici, che stanno in una nazione»[15]. Perciò «una riforma sociale è viziata ne’ suoi principii, se non comprenda e non rappresenti gl’interessi e i bisogni di tutte le classi»[16]. Escludere il popolo dal partecipare alla rivoluzione significa condannare la rivoluzione all’insuccesso; tentare di strumentalizzarlo ai fini rivoluzionari di altre classi significa, nella migliore delle ipotesi, porre le condizioni inevitabili di una successiva rivoluzione. La vittoria della rivoluzione e la stabilità del regime che ne uscirà saranno, invece, assicurate dalla partecipazione del popolo come soggetto autonomo e consapevole, i cui diritti e il cui miglioramento facciano parte integrante e specifica dei fini della rivoluzione.
(...)
[1] G. MAZZINI, Note autobiografiche, a cura di M. MENGHINI, Firenze, 1943, p. 26. Sul lavoro del Menghini intorno alle Note cfr. la recente edizione delle Note autobiografiche, a cura del Centro napoletano di studi mazziniani, Napoli, 1972. Nel seguito si continuerà a citare dall’edizione del 1943.
[2] Ivi, p. 28. Su questa concezione dell’«idealismo» come filosofia propria della tradizione italiana cfr. R. MONDOLFO, Il pensiero politico nel Risorgimento italiano, Roma, 1959, p. 20 sgg.; e più largamente G. GENTILE, Storia della filosofia italiana, a cura di E. GARIN, Firenze, 1969, vol. I, pp. 705-726.
[3] Cfr. Giuseppe Mazzini e i democratici (Scrittori politici dell’Ottocento, t. I, nella collezione «Lettura Italiana Storia e Testi», a cura di F. DELLA PERUTA, Milano-Napoli, 1969, p. 364 (d’ora in poi citato come Mazzini e i democratici).
[4] Ivi, pp. 365 e 392.
[5] Ivi, p. 401.
[6] Cfr. C. CATTANEO, L’insurrection de Milan e le Considerazioni sul 1848, a cura di C. SPELLANZON, Torino, 1949, pp. 19-20.
[7] Mazzini e i democratici cit., p. 440.
[8] Ivi, pp. 366-367, 372, 392, 374. Per gli scritti di questi primissimi anni dell’esilio converrà sempre ricordare le osservazioni di A. GALANTE GARRONE, Filippo Buonarroti e rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837), Torino, 1972², p. 339 sgg., circa la necessità che il «precoce cristallizzarsi del pensiero politico mazziniano in formule di origine sansimoniana» non induca a trascurare «la prima fase della formazione di quel pensiero: una fase ancora incerta e confusa, di grande recettività, non esente da una certa superficiale improvvisazione e prontezza di assimilazione, che gli toglievano di cogliere la contraddittorietà di taluni atteggiamenti dottrinali». Peraltro il Galante Garrone stesso limita temporalmente questo periodo a meno di un anno fra il marzo 1831 e gli inizi del 1832; ma la sua osservazione ha valore al di là degli stretti limiti cronologici ai quali è riferita. Per quanto riguarda più in generale la posizione di Mazzini rispetto alla cultura del suo tempo negli stessi primissimi anni dell’esilio cfr. S. MASTELLONE, Mazzini e la «Giovine Italia» (1831-1834), Pisa, 1960, vol. I, p. 133 sgg.
[9] Mazzini e i democratici cit., p. 387.
[10] Ivi, p. 398. Si può osservare nelle frasi qui riportate, quanto articolata sia pure nella sua finale unitarietà, sia stata la formazione dell’atteggiamento mazziniano rispetto alla rivoluzione francese e ai regimi ad essa seguiti.
[11] Ivi, p. 397. La frase contiene, implicitamente, tutta la filosofia del riformismo come metodo normale dell’azione politica, anche se prevale, nel contesto dello scritto mazziniano esaminato, il riferimento storico puntuale alla rivoluzione francese.
[12] Ivi, p. 374.
[13] Ivi, pp. 356, 393, 394, 395.
[14] Ivi, p. 395. Le frasi citate appaiono ora confermare il giudizio di N. BADALONI, in Storia d’Italia, ed. Einaudi, vol. III, Torino, 1973, p. 312, secondo cui «il punto centrale del pensiero mazziniano, quello che collega la sua filosofia etico-religiosa della storia alla realizzazione della rivoluzione italiana, è l’analisi dei compiti del ‘popolo’».
[15] Mazzini e i democratici cit., p. 392.
[16] Ivi, p. 374.