Intervista con Norberto Bobbio, a cura di Mario Baccianini – «Mondoperaio», a. XXXIV, n. 3, marzo 1981, pp. 85-88.



La tua storia della cultura a Torino finisce col 1950. Distacco crociano dal presente? Allusione a una decadenza?


È un’opera in gran parte autobiografica. Né cronaca, né storia. Finisce, intenzionalmente, con la morte di Pavese. E con la fine di una stagione culturale: gli anni mirabili della resistenza, intellettuale e politica, al fascismo. Una cultura legata alla tradizione gobettiana e alle varie iniziative di quel periodo. Come la fondazione della casa editrice Einaudi. Un capitolo chiave di quella vicenda storica, e del mio libro.

Dopo Pavese, il buio?


Si spezzano dei fili. Non altro. La mia indagine si arresta quando questo patrimonio diventa meno compatto, cessa di perpetuarsi ed arricchirsi nel tempo.

La cultura torinese non ha più valore di paradigma?


Pensa all’importanza che ha avuto dopo la prima guerra mondiale, con l’Ordine Nuovo di Gramsci e le iniziative gobettiane. Nel volume di Asor Rosa sulla storia della cultura italiana del ‘900, c’è un intero capitolo dedicato a Torino.

Nell’età giolittiana le principali riviste stavano a Firenze. Poi c’è un primato torinese. E dopo?


Dopo Torino si appiattisce. Non è più la Pietroburgo d’Italia. Anche se c’è stato un periodo in cui non si può fare la storia della cultura nazionale, senza passare di qui. Nelle riviste torinesi, Ordine Nuovo o Rivoluzione liberale, il nesso tra politica e cultura era indissolubile, evidente. Sono le matrici culturali di due movimenti politici, il Partito comunista e il Partito d’azione.

Anche nel secondo dopoguerra, tuttavia, alcuni dei più grandi scrittori nuovi sono torinesi. Non c’è solo Pavese.


Ci sono anche Carlo e Primo Levi, Beppe Fenoglio. Cristo si è fermato a Eboli, Se questo è un uomo, Il partigiano Johnny. Nessun’altra città, è vero, ha dato in pochissimi anni, nel periodo della ripresa culturale e politica, tre autori così significativi, tre libri che segnano un’epoca. Ma c’è ancora una continuità con la cultura precedente. Dopo, Torino conta assai meno. Per trovare riviste non accademiche, ma di cultura militante, bisogna arrivare ai Quaderni rossi di Foa e Panzieri.

Subito dopo Trento, Torino è la città dove la rivoluzione culturale del ’68 fa le sue prove, e trova le sue teste pensanti.


C’è un evidente legame tra questo evento e i Quaderni Rossi di Panzieri. Il quale, però, non era un torinese. Veniva da fuori. Aveva sposato una piemontese ed era venuto a lavorare alla Einaudi. Anche Gramsci, a rigore, era un trapiantato. Ma il suo orizzonte, politico e intellettuale, non si spiegherebbe al di fuori di Torino. Panzieri invece si è sempre sentito estraneo alla città.

Non amava il carattere piemontese?


Lo considerava un po’ opaco. Condivideva lo stereotipo del bougianen. Che nasce dalla Torino preindustriale. Il torinese un po’ lento, passivo, diffidente verso gli «altri italiani». Lo stereotipo, insomma, del travet, alla Courteline. Una maschera della vecchia capitale, che sopravvive anche nella Torino industriale e della centralità operaia. I Quaderni Rossi rimangono comunque la prima rivista torinese di rottura della tradizione politico-culturale nata dalla resistenza. Di quella cultura che aveva dato i suoi migliori prodotti in un giornale come Il Mondo


Torino è anche la città di questa curiosa compresenza di operaismo e rivoluzione liberaldemocratica. Che tracce rimangono in queste due culture? Non si sono rivelate, in fondo, entrambe inadeguate?


Della tradizione liberaldemocratica resta ben poco. Mentre la sorte dell’operaismo è sotto i nostri occhi. Ma non è un fenomeno soltanto torinese. L’Italia intera attraversa una crisi culturale.

Ma qui è molto più avvertibile che altrove.


Perché esiste un termine di comparazione: la grandezza di entrambe le tradizioni che abbiamo detto. Se i partiti sono portatori di cultura, oggi bisogna dire che a Torino rappresentano poco, da questo punto di vista. L’unica rivista, fatta bene, che esce con regolarità, è Nuova Società, fondata da Diego Novelli. Vi scriveva assiduamente un intellettuale che ha rappresentato molto bene la continuità di una tradizione torinese: Franco Antonicelli. Un gobettiano, che, pur continuando a considerarsi un liberale, era legato politicamente al PCI.

Anche questo intreccio fra le due tradizioni è caratteristica di Torino. C’è già in Gobetti.


Gobetti viene da una cultura liberale, quando non liberista. È allievo di Einaudi e di Salvemini. Considera i socialisti riformisti come il partito dell’invadenza dello Stato. Mentre, curiosamente, vede nel movimento consiliare gramsciano l’antistato, la democrazia che viene dal basso. E nel PCI, almeno in un primo tempo, il nuovo partito liberale. Nel Paradosso dello spirito russo, anche la rivoluzione del ’17 è interpretata come liberatrice. Rivoluzione dal basso, contrapposta a quella dall’alto del nostro Risorgimento.

Un punto di vista piuttosto stravagante, con gli occhi di oggi. Ma già allora i giovani di «Rivoluzione liberale» apparivano slegati dalla politica attiva. Lontani dalle forme come dal contenuto del sistema politico.


Quando il marxismo si eclissa, nell’età fascista, la tradizione liberaldemocratica emerge come la parte più viva della cultura torinese. Un’altra figura che collega questa tradizione con il movimento operaio è Augusto Monti. Piemontesista, collaboratore di Rivoluzione liberale, professore al liceo D’Azeglio, è stato maestro mio, di Mila e di Pavese. Un suo opuscolo, Realtà del Partito d’azione, cui aderì nel ’45, è dedicato a un altro suo allievo: Giancarlo Pajetta… In quelle pagine, Monti definiva il suo partito rivoluzionario e liberale, che vuole attuare il socialismo per motivi liberali, e con metodi liberali.

Ma non è curioso che questa cultura, legata alle tendenze più illuministiche del Risorgimento, avesse bisogno di grucce gramsciane per camminare?


Già Luigi Einaudi scriveva che, sulle colonne di Rivoluzione liberale, i pochi giovani innamorati del liberalismo, per disperazione dell’ambiente sordo in cui vivono, sono ridotti a fare l’amore con i comunisti dell’Ordine Nuovo. Questo è però rimasto un fenomeno intellettualistico. Un rivoluzionarismo astratto, che disdegnava l’esperienza delle socialdemocrazie europee.

Questo strano connubio torinese non è un po’ anche una delle cause dei ritardi e delle anomalie della sinistra italiana?


Una cultura riformista, fondata su basi filosofiche, non ha mai attecchito da noi. I tentativi di rinnovamento hanno sempre avuto scarsi esiti. Prima c’è stato l’idealismo crociano a reagire a questo tipo di cultura, più pragmatica e attenta alla lezione dei fatti. Poi è venuto il marxismo, specie quello dogmatico degli albori, che riconosceva un certo diritto di cittadinanza alla cultura idealistica, ma non a quella neo-empirista. Preferiva un’alleanza storica con l’idealismo, che nasceva dalla tradizione hegeliana. Si stabilì un certo rapporto fra Marx ed Hegel. Il giovane Hegel, di Lukacs, tradotto da Einaudi, ebbe un enorme importanza per la formazione di quello che poi fu definito l’hegelo-marxismo.

Una sorta di compromesso storico filosofico, insomma.


In questi anni si comincia a citare anche Popper. Ma molto in ritardo. Un ritardo che è di tutta la cultura italiana. Ora anche le colonne di Rinascita si sono aperte a questa problematica. Ma non è molto lontano il tempo in cui la cultura marxista ufficiale boicottava le scienze sociali. Le ricerche empiriche, la conoscenza e l’utilizzazione dei dati delle ricerche sul campo, erano liquidate come americanate. Si preferivano i concetti e le teorie astratte, i begriffi Adesso c’è un recupero tardivo.

Da più parti si lamenta la mancanza di un tessuto culturale a Torino.


Non capisco bene che cosa si intenda per tessuto culturale. Ci sono gli istituti culturali tradizionali. C’è l’università. I circoli, come il Gobetti, il Turati, l’Accademia delle scienze, che sono in effetti chiusi in se stessi, non hanno una grande risonanza nella città, sono strumenti alquanto usurati. Ma non bisogna dimenticare centri di cultura come la Fondazione Einaudi che svolge la sua funzione molto degnamente. In questi ultimi anni è sorto l’Istituto Gramsci, forse il solo che sia riuscito a ottenere l’adesione di un pubblico anche popolare alle sue iniziative. Dall’anno scorso, la giunta di sinistra promuove inoltre cicli di lezioni sui più disparati argomenti, col nome di Torino-Enciclopedia. Il successo dell’anno scorso è stato imprevedibile. Quest’anno è presto per dare un giudizio. Ho inaugurato proprio ieri sera il primo ciclo su «morale e politica».

Scorrendo i cataloghi delle case editrici torinesi, vediamo che coprono l’intera cultura italiana. Eppure manca a Torino una rivista di rilievo nazionale.


Questo è vero. C’è ora Laboratorio politico, edita da Einaudi. Ma si tratta di una conventicola romana. Con una redazione nella capitale. Le riviste nascono talvolta con facilità, ma più facilmente affondano. C’è la Rivista storica italiana di Venturi. C’è la Rivista di filosofia, edita da Taylor ed ora da Einaudi, che ne assicura una maggiore diffusione. È la rivista più antica di filosofia italiana. Che ha avuto il suo periodo glorioso con Martinetti, il maestro di Antonio Banfi. Manca però una rivista di cultura militante, nel solco della grande tradizione torinese.

Si dice che Torino produce cultura ma non la consuma. Einaudi presenta la sua «Storia d’Italia» a Oxford. Non c’è un pizzico di snobismo in questo?


Evidentemente Einaudi considera Torino una città provinciale, rispetto alle sue iniziative, che lui ritiene abbiano un valore cosmopolitico. Anche la nuova edizione dei Quaderni di Gramsci, curata da Gerratana, è stata presentata a Parigi. E la relazione principale è stata fatta non da un italiano, ma da un inglese: Eric Hobsbawm. L’Enciclopedia è stata presentata a Varsavia. Metà dei suoi collaboratori sono italiani, l’altra metà polacchi e francesi. Ruggero Romano, del resto, il suo direttore, è professore a Parigi, allievo di Braudel.

I punti di forza dell’Università, come il Politecnico, scricchiolano. Possiamo parlare di una decadenza anche in questo campo?


Se c’è, non è proporzionalmente maggiore che in altri atenei. Per anni il Politecnico era, per antonomasia, quello di Torino o di Milano. Ma il passaggio critico, per l’intera università italiana, è stato quello da una scuola di élite a una di massa. Se poi ci muoviamo su un piano di giudizi relativi, non si vede quali siano le alternative in meglio. Mentre, se parliamo di edilizia universitaria, la prima grande innovazione è stata quella del Politecnico di Torino.

Pavese diceva che le civiltà si propagano per invasioni, ma vengono anche travolte. L’immigrazione meridionale ha avuto un impatto che non è stato mai assorbito.


Tutte le città hanno perso le loro caratteristiche storiche. Si sa che si è a Bologna o a Milano se si è al centro storico. L’afflusso meridionale, tuttavia, è stato, a Torino, più forte che altrove. Ma più che la città, riguarda la cintura esterna. Comuni come Nichelino, sono passati da 3.000 a 40.000 abitanti in pochi anni. Quanto agli atteggiamenti xenofobi si è spesso calcato troppo la mano nel descriverli. Anche gli algerini, in Sicilia, vengono guardati come esseri inferiori. Si è sempre gli indiani di qualcuno. È la diffidenza, la paura per il diverso che arriva e ti invade, e ti turba.

La città ha fatto poco per loro. C’è un’elevata percentuale di analfabeti meridionali fra gli operai Fiat in cassa integrazione. Cosa che invece non si riscontra, per esempio, fra i dipendenti della Olivetti. In queste condizioni parlare di mobilità può essere un «flatus vocis».


Già nel 1961, nella introduzione a una ricerca sociologica pubblicata da Comunità, sull’immigrazione a Torino, rilevavo la totale inadeguatezza degli strumenti politici, amministrativi, culturali per far fronte a un fenomeno che non ha avuto riscontro in nessun’altra città italiana. Nell’ultimo scorcio degli anni ’50 la popolazione di Torino è aumentata del 40%. Se avesse avuto amministrazioni più illuminate, Torino avrebbe potuto diventare il grande melting pot, il crogiuolo delle due Italie, divise da vecchi rancori politici e incomprensioni psicologiche. È diventata, invece, quello che sappiamo; una città ghetto, come cento altre, dove il vecchio quartiere va in rovina e il nuovo nasce già morto.

Questo rapporto difficile città-immigrati lo ritroviamo anche in fabbrica e nella cultura sindacale.


Abbiamo ascoltato molti discorsi sul ribellismo dell’operaio-massa, di estrazione meridionale, in contrapposizione al solidarismo delle vecchie organizzazioni operaie. Restano notazioni impressionistiche, anche se verosimili, in mancanza di indagini sociologiche empiriche.

Le recenti vicende politico-sindacali sembrano segnare il definitivo tramonto della centralità operaia. Resta però la presenza enigmatica della classe operaia.


Non è una vicenda soltanto torinese. È un enigma che riguarda tutto il paese.

Nel caso torinese c’è però una perdita di esemplarità: Torino/Manchester non anticipa più il futuro.


Questo è vero. A Torino questa cultura operaia ha lunghe radici, che partono dall’Ordine Nuovo. Anche se poi la cultura sindacale ha finito col prevalere. La cultura «sindacale»: non quella della conquista della fabbrica, ma del conflitto permanente. Senza soluzioni escatologiche. Emergono oggi, irrisolti, i problemi della democrazia industriale, che il sindacato non ha mai impostato in modo molto impegnativo. Mentre la rottura della tradizione che va dall’Ordine Nuovo ai Quaderni Rossi è definitivamente segnata.

Da Pietroburgo a Detroit: nella vicenda torinese si intravede in filigrana l’autobiografia della nazione.


Se non proprio della nazione, certo molti elementi dell’autobiografia della sinistra.


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