di Pietro Nenni – «Mondoperaio», a. XXXIII, n. 2, gennaio 1980, pp. 81-87.



Pubblichiamo il primo capitolo di un libro di memorie che Nenni prospettava di scrivere sotto il titolo Un uomo nelle tempeste del secolo. Il progetto è rimasto purtroppo interrotto dalla sua morte. Il testo, che pubblichiamo per gentile concessione di Giuliana Nenni, è inedito.



Era il 1898. Una giornata di fine aprile a Faenza. Un momento critico per la povera gente e per la vita civile della nazione. Soffiava dal Sud al Nord un vento di rivolta. La miseria toccava le sue punte più alte. Mancava letteralmente il pane. Un dramma quotidiano che migliaia di famiglie vivevano e la mia come tante altre.
Scolaretto tornavo dalla scuola di cui avevo trovato sbarrate le porte. «Sciopero» aveva detto con accento di paura il bidello. Nella bella piazza cittadina, ad attirare la mia curiosità, non era, come d’abitudine, la gioiosa baraonda del mercato, ma uno spettacolo insolito e pauroso che mi teneva inchiodato all’ombra del colonnato. Da un lato della piazza una folla di operai scamiciati e di donne discinte che recavano sulle vesti da lavoro i segni del saccheggio di un forno. Dall’altro lato, ai piedi della scalinata della cattedrale, un battaglione del reggimento di cavalleria, orgoglio della nobiltà cittadina.
Poi lo scontro ineguale tra lo scalpitìo dei cavalli ed il balenìo delle sciabole che si abbattevano sulla folla, le urla d’ira o di dolore dei manifestanti e infine il silenzio greve dell’ordine ristabilito.
Ragazzetto, io non sapevo collocare la manifestazione in un ordine logico di pensieri e di prospettive ma soltanto di sentimenti. E tuttavia, se c’è nella fanciullezza un momento in cui abbiamo quasi la prescienza di ciò che saremo quando fatti uomini assumeremo le responsabilità della vita, io seppi allora che sarei stato con quegli operai, con quelle donne; in un comune impegno di lotta per fare diversa la società, più giusta, più eguale, più umana.
Nei giorni seguenti la rivolta popolare doveva guadagnare Milano e politicizzarsi più di quanto già non lo fosse.


La strage di Milano



Milano era allora all’avanguardia della nazione. In febbraio era morto Felice Cavallotti, la gola trapassata in un duello dalla spada del monarchico Ferruccio Macola; i funerali del fiero avversario della monarchia umbertina s’erano risolti in apoteosi, schernita dalla regina Margherita come «uno degli spettacoli più schifosi».
«È morto – aveva invece detto Filippo Turati sulla tomba -. È morto ed è l’ultimo… Qui non a un uomo diciamo addio ma a una generazione di uomini e a quanto fu in essa di bello, di alto, di fiero».
Milano, a due mesi dalla morte di Cavallotti, ne raccoglieva l’estremo appello quando, presago dei rischi incombenti sulla nazione, aveva chiesto di fare fronte comune contro gli «inquinamenti» moderati e le provocazioni reazionarie.
Il 3 maggio a Pavia era caduto sotto il piombo dell’Ordine Regio lo studente repubblicano Muzio Mussi, figlio del deputato radicale, vice presidente della Camera.
Fu per Milano il segnale della rivolta. I primi morti caddero a San Fedele per liberare un detenuto. I cadaveri vennero portati a braccia dagli scioperanti attraverso la città. A Porta Garibaldi e Porta Piccinni sorsero le prime barricate. Il governo (presidente del Consiglio il marchese Di Rudinì, successore di Crispi, e ministro degli Interni il generale Pelloux) rispose con lo stato d’assedio ed affidando i pieni poteri al generale Bava Beccaris, un fedele della Corte.
Stato di assedio anche a Napoli coi cannoni puntati sulla città. Il generale Beccaris i cannoni non solo li puntava su Milano ma dava l’ordine di aprire il fuoco, in un episodio in sé e per sé quasi comico, giacché il convento di Porta Monforte, sul quale si sparava come sulla presunta sede di un presunto comitato rivoluzionari, ospitava invece pochi mendicanti abituali clienti della «sbobba» dei preti.
Tirate le somme i morti a Milano furono 81, di cui uno solo tra le forze dell’ordine, i feriti poco meno di 500, centinaia gli arrestati e tra di loro Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Costantino Lazzari che erano stati tra i fondatori del Partito socialista nel 1892; Bissolati allora direttore dell’«Avanti!» e Oddino Morgari che erano accorsi a Roma; il repubblicano Luigi De Andreis; Paolo Valera che dirigeva il settimanale più originale e più combattivo dell’epoca, «La folla»; Carlo Romussi direttore del «Secolo» e financo il sacerdote don Albertario che sull’«Osservatore cattolico» aveva scritto: «ah canaglie! voi date piombo ai meseri che avete affamato e poi vi lanciate contro i clericali».
Le condanne dei tribunali militari furono severe: dodici anni di reclusione a Filippo Turati, dodici a De Andreis, quattro e mezzo a Romussi, tre a don Albertario, uno ad Anna Kuliscioff, uno a Costantino Lazzari. In tutto centoventidue processi davanti ai tribunali militari e milletrecentonovanta anni di reclusione, novantotto di detenzione, trecentosette di sorveglianza speciale per un totale di seicentottantotto imputati.
Re Umberto esprimeva la sua soddisfazione nel telegramma del 6 giugno al generale Bava Beccaris: «ho preso in esame la proposta delle ricompense presentatemi dal ministro della Guerra a favore delle truppe da Lei dipendenti, e nel darvi la mia approvazione fui lieto ed orgoglioso di onorare le virtù di disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A Lei personalmente volli conferire motu proprio la croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia per rimeritare al servizio che Ella rese alle istituzioni e alla civiltà e perché ne attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della Patria. f.to Umberto.
Firmando quel telegramma il re firmava la sua condanna a morte. Fu infatti l’apologia regia del massacro di Milano ad armare la mano del giovane anarchico pratese Gaetano Bresci, emigrato a Paterson in America, e a ricondurlo in patria fino a Monza il 29 luglio 1900, dove con tre revolverate uccise il sovrano.
Fra lo stato d’assedio di Milano e il regicidio si era svolta intanto l’ultima grande battaglia politica dell’Ottocento per la democrazia. In Parlamento essa culminò nell’ostruzionismo della sinistra contro il duplice tentativo della destra di fare approvare i decreti liberticidi del generale Pelloux (che dopo la strage di Milano era divenuto presidente del Consiglio) e di modificare il regolamento della Camera dei deputati, mettendo ad un tempo la museruola all’azione popolare di massa ed alla sinistra parlamentare.
Nei due casi si stabilì tra Parlamento e popolo un rapporto di fiducia che ricacciò indietro la minaccia autoritaria. Il grido nell’aula di Montecitorio «parli Ferri», «parli Pantano», i maggiori protagonisti dell’ostruzionismo, quello di Bissolati «viva la Repubblica», il gesto di Prampolini che durante una votazione rovesciò le urne, trovarono eco in ogni angolo del paese. Perfino Gabriele D’Annunzio, che gli elettori abruzzesi avevano mandato alla Camera, abbandonò i banchi della destra per quelli di sinistra. «Oggi so – disse – che da una parte sono molti morti che urlano, e dall’altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo d’intelletto vado verso la vita».
Il governo dovette capitolare. Quando volle imporre per decreto le sue leggi liberticide, la maggioranza si sgretolò col passaggio all’opposizione della sinistra costituzionale di Zanardelli e di Giolitti. La stessa Cassazione negò validità e forza di legge ai decreti governativi. Il regolamento capestro che si voleva imporre alla Camera non superò la barriera dell’ostruzionismo. In definitiva non rimase al governo altra via di uscita se non lo scioglimento della Camera e la convocazione di nuove elezioni.
Venne battuto come era stato precedentemente battuto nelle elezioni amministrative, che avevano valso successi notevoli alle sinistre unite nei blocchi popolari, in primo luogo a Milano con la conquista di Palazzo Marino. Nelle elezioni politiche i socialisti che erano 16 tornarono alla Camera in 44, i repubblicani in 30 e in 30 i radicali. Sulle liste dell’estrema sinistra si contarono 345 mila voti, mentre 340 mila andavano alla sinistra costituzionale lasciando in minoranza le liste governative con 611 mila voti.
Pelloux non osò affrontare la nuova Camera e si ritirò dando luogo a una confusa crisi ministeriale, tamponata provvisoriamente con la formazione nel giugno 1900 di un governo presieduto dal moderato Saracco che anch’esso ebbe vita breve e tribolata, rovesciato, come doveva essere, nel gennaio del 1901 dallo sciopero ad oltranza dei portuali di Genova contro lo scioglimento di quella Camera del lavoro.
Le cose erano a quel punto quando il 29 luglio 1900 Gaetano Bresci uccise il re. Disse Giovanni Bovio che il regicidio aveva tolto vent’anni di vita al sovrano ma ne aveva aggiunto duecento alla monarchia.
Non fu esattamente così anche se la crisi del sistema e la crisi della società che aveva riproposto la questione istituzionale venne dirottata da Giolitti verso un’esperienza paternalista che di liberale aveva soltanto l’etichetta.
Tuttavia il regicidio poneva fine all’epoca umbertina caratterizzata dalla prevalenza della Corte sul Parlamento, dei militari sui civili, degli interessi borghesi i più chiusi e i più retrivi sulle tendenze nuove del moderno capitalismo industriale.


Fine di un regno e fine di un secolo



Finiva un regno e finiva un secolo. Un grande secolo per l’Europa. Il secolo del crollo delle due avventure bonapartiste; del fallimento della Santa Alleanza e delle restaurazioni; della fine della teocrazia papale. Il secolo della seconda rivoluzione industriale con prodigioso sviluppo della scienza e della tecnica, l’accresciuto potere dell’uomo sulla natura, la scoperta dell’elettricità e del motore a scoppio; il secolo del Manifesto di Marx e delle prime affermazioni del socialismo proletario e internazionalista e della organizzazione autonoma dei lavoratori. Un grande secolo anche per l’Italia sorta col risorgimento a nazione se non libera.
L’Italia si affacciava al ‘900 con grossi ritardi: di secoli rispetto alla fondazione dei grandi Stati nazionali; di più di un secolo nei confronti della rivoluzione industriale; di decenni nell’organizzazione dei lavoratori.
Il nostro era ancora un paese agricolo ed artigianale con poche province in via di industrializzazione: il triangolo Milano – Torino – Genova più Terni centro della siderurgia, che in regime di protezionismo e di monopolio sarebbe poi stata per molti anni uno dei cancri della nazione.
Profondo era il disagio tributario coi balzelli odiosi che colpivano la povera gente nel pane quotidiano, sproporzionate ed in continuo aumento le spese militari imposte dalla Corte. Enorme il prezzo che il lavoro pagava al processo produttivo con rapporti sociali che nelle campagne meridionali e nel latifondo erano poco meno di quelli dei servi della gleba prima della rivoluzione francese, e con gli operai nelle fabbriche dominati dai «padroni delle ferriere» con salari e cottimi di fame e orari da ergastolani.
E tuttavia lo sviluppo dell’industria tessile, il nascere di quella meccanica e la costruzione dei primi impianti idro – elettrici aprivano una via di soluzione alla modernizzazione del paese e alla mancanza di fonti di energia che aveva concorso a ritardare il decollo industriale.
Sorgevano le dinastie degli Agnelli (la prima automobile Fiat è del 1900), dei Pirelli, dei Bianchi, degli Olivetti, dei Marzotto, dei Motta, ecc..
Ma con l’industria, che concentrava nelle mani della borghesia capitalistica mezzi enormi di potere, anche il proletariato cresceva di peso sociale e politico. Progresso tecnico e progresso sociale si sospingevano l’un l’altro verso forme più alte di vita civile. Con le grandi lotte contadine ed operaie dell’ultimo decennio dell’Ottocento, dai fasci siciliani del 1893 ai moti del 1898, era venuta alla ribalta la moderna lotta di classe.
Con la fondazione nel 1892 a Genova del Partito socialista su una piattaforma ideologica che accoglieva del marxismo la coscienza della missione storica del proletariato e dall’umanesimo il senso profondo della libertà, della democrazia e dell’egualitarismo, la lotta per il potere operaio entrava in una fase nuova con l’organizzazione al posto della spontaneità.
Il motto di Turati al Congresso di fondazione del partito a Genova: «la libertà per riempirla di riforme», aveva dato un significato particolare alla grande battaglia contro la dittatura della sciabola condotta vittoriosamente dai socialisti assieme alla sinistra radicale e repubblicana.
La Chiesa stessa, con l’enciclica di papa Leone XIII Rerum Novarum del 1891, aveva avvertito la necessità di darsi una dottrina sociale. Essa non abbandonava ancora l’opposizione intransigente allo Stato unitario e liberale e men che mai l’opposizione ai socialisti. Anzi era proprio per meglio combattere il socialismo che riconosceva a sua volta una funzione economica e sociale allo Stato e che sollecitava l’organizzazione autonoma dei lavoratori cattolici pur nell’ambito del suo corporativismo interclassista. La giornata lavorativa delle otto ore e il salario minimo entravano tra le sue rivendicazioni. In questo senso la Rerum Novarum, pur senza volerlo espressamente, metteva in movimento idee e forze che alla lunga erano destinate, nei loro sviluppi, a far cadere lo steccato tra lavoratori socialisti e lavoratori di ispirazione cristiana.
Tutto ciò concorreva a una svolta politica almeno in senso liberale – costituzionale, di cui l’esigenza era emersa clamorosamente con gli eventi del trapasso del secolo.
Fu quindi relativamente agevole respingere le ostinate sollecitazioni dei circoli di corte e degli agrari che, nella scia dell’emozione suscitata dall’eliminazione del re, chiedevano a gran voce un colpo decisivo alle pubbliche libertà ed al movimento operaio e socialista.
Il re stesso Vittorio Emanuele III, che saliva al trono senza avere niente della iattanza da caserma del nonno, della fatuità del padre, degli odii teologici della madre, poco si prestava – almeno in quel momento – a scelte bellicose.


La svolta di Zanardelli



Era l’ora della svolta liberale – costituzionale che trovava espressione nel primo governo del nuovo secolo, il ministero Zanardelli – Giolitti in cui il vecchio garibaldino bresciano assicurava la continuità storica ed ideale col risorgimento, mentre Giolitti agli Interni, e poi alla presidenza del Consiglio, rappresentava il nuovo apparato amministrativo dello Stato cresciuto intanto in potenza e la nuova borghesia degli affari interessata a un rapporto con i lavoratori che non fosse soltanto di permanente scontro sotto il segno della violenza e della repressione.
Giolitti era già stato presidente del Consiglio nel 1892-93 su una vaga qualificazione di sinistra costituzionale ma era caduto, si sarebbe detto per sempre, sullo scandalo della Banca Romana. Senonché ciò gli era in definitiva giovato, nella misura in cui gli aveva consentito di rimanere fuori dalle avventure crispine culminate in politica interna negli stati d’assedio contro i fasci siciliani e contro i moti anarchici in Lunigiana (1894) e in politica militare e coloniale nel disastro di Adua (5 marzo 1896), il colpo di grazia per Francesco Crispi.
Nell’89, separandosi con Zanardelli dalla destra e dal generale Pelloux, Giolitti aveva creato le condizioni del suo ritorno al potere per la lunga dittatura amministrativa che doveva durare fino al 1914. All’indomani del drammatico decennio 1891-1900 ciò che egli offriva pareva addirittura una piccola rivoluzione, e come tale sollevava il furore della destra.
Senonché il giolittismo non poggiava su un sistema organico di idee ma su un metodo, quello del paternalismo e della corruzione amministrativa. A Giolitti fu estranea l’intenzione di dare vita a un grande e moderno partito liberale, pago, come fu, di creare attorno a sé una maggioranza di ascari a cui elargiva protezioni amministrative e di affari, quindi una maggioranza senz’anima che, sopraggiunta la dura prova della guerra e poi quella degli anni venti, seppe soltanto capitolare ed arrendersi alle sempre risorgenti forze reazionarie.
La piattaforma politica sulla quale Giolitti tornava al governo era considerevole, giacché andava dalla consapevolezza del valore civile e sociale del movimento dei lavoratori come uno dei fattori del progresso e della civiltà, al riconoscimento del diritto di organizzazione e di sciopero nell’ambito di una specie di neutralità dello Stato nei confronti della lotta tra gli interessi di classe.
C’era in queste enunciazioni una carica esplosiva che Giolitti stesso non aveva previsto. Nel solo 1901, in coincidenza con l’avvento del ministero Zanardelli – Giolitti, gli scioperi, soprattutto di contadini della Valle Padana, furono 1400 mentre erano stati 1680 in tutto il decennio precedente. Al furore degli agrari Giolitti rispondeva che «il governo non deve parteggiare per l’una o per l’altra parte delle classi sociali che dissentono tra loro per ragioni di interessi economici». E Zanardelli diceva in maniera più incisiva: «I signori della destra e del centro vogliono un sistema che condurrebbe allo spargimento di sangue. Il governo non può scegliere questa via».
In tali condizioni i socialisti per la prima volta votarono il 22 giugno 1901 la fiducia al governo. Scrisse allora Claudio Treves in «Critica sociale»: «C’è sull’altra riva un uomo che ci ha capiti». Più perentorio, Filippo Turati affermava che la rivoluzione parlamentare del 1901 superava in importanza un qualsivoglia cambiamento della forma di governo.
Sfuggiva ai riformisti che il disegno di Giolitti rimaneva al livello di un tentativo paternalistico e burocratico di cattura del nascente movimento operaio e socialista o di una parte di esso nel sistema monarchico e borghese? Per certo questo aspetto delle cose non sfuggiva ai dirigenti socialisti. Si spiega così il rifiuto di Turati di entrare nel 1903 nel ministero Giolitti dove rischiava di diventare un ostaggio, perdendo il vantaggio del dialogo aperto in Parlamento e nel paese su reciproche posizioni di indipendenza. Riserva tanto più naturale in quanto non ci sarebbe voluto molto tempo perché emergessero in pieno i limiti entro i quali Giolitti si faceva garante della libertà di sciopero in correlazione alla libertà di lavoro.
Nessuna obiezione, in linea di principio, alla libertà di lavoro. Ma cos’era questa libertà nell’Italia dei primi anni del secolo? Chi garantiva? Chi tutelava? All’inizio del secolo, e per molti anni ancora, la libertà di lavoro offriva agli agrari e al padronato l’arma più efficiente contro l’esercizio del diritto di sciopero; e l’arma era il crumiraggio. La miseria era tale da rendere sempre possibile reclutare contro i braccianti in sciopero altri braccianti che per un tozzo di pane erano disponibili per sostituire sull’aia, nel campo, nei lavori stradali i loro compagni. L’agraria emiliana e pugliese avevano organizzato il crumiraggio in maniera razionale, reclutando una specie di esercito della fame pronto ad entrare in azione contro l’altro e più cosciente esercito, quello dei lavoratori sensibili all’appello delle leghe e delle Camera del lavoro.
Ogni sciopero dava luogo così ad un urto fratricida offrendo un’occasione, anzi un pretesto all’intervento della forza pubblica. Da ciò la tragica sequenza degli eccidi proletari che in una scia di sangue da Berra Ferrarese (ottobre 1901), Candela, Cerignola a Giarratana, a dieci, venti altre località divennero il motivo ricorrente di una delle più aspre battaglie politiche e di classe e furono intanto il movente del primo sciopero generale in Italia del 1904, anch’esso partito da Milano.


Nell’umanesimo la legge morale



Mentre questi eventi si snodavano, cos’era divenuto il ragazzetto che io ero e che abbiamo intravisto sulla piazza maggiore di Faenza impietrito di orrore dinnanzi al primo scontro a cui assisteva tra popolo e forza pubblica?
Il ragazzo cresceva, ed affrontava ormai le prove già ardue della adolescenza, dietro le sbarre dell’orfanotrofio cittadino nel quale era stato accolto dalla carità pubblica.
Sua madre e suo padre erano contadini che avevano ceduto all’attrazione della città, guadagnandosi una vita stentata a prezzo di duro lavoro. La morte del padre, magazziniere nel palazzo dei conti Ginnasi, aveva comportato la miseria della famiglia.
Il ragazzo era tutto preso dal desiderio, dal bisogno di sapere, di studiare, di capire, un’aspirazione difficile da soddisfare nell’ambito familiare dove l’analfabetismo era generale, ma difficile da secondare anche nell’orfanotrofio dove la possibilità, alla quale fu ammesso, di frequentare la scuola elementare e quella tecnica (gli otto anni dell’attuale scuola dell’obbligo, allora un privilegio piuttosto raro per un figlio di contadini poveri) trovava un limite in una formazione educativa tutta ispirata al concetto servile dell’obbedienza, della rassegnazione, dell’accettazione della società quale era.
Il ragazzo combatteva allora dentro di sé la prima e la più difficile delle battaglie dei diseredati: quella per non soccombere ai pregiudizi dei dogmi delle verità rivelate, della società che è sempre stata così e sempre lo sarà, di una gerarchia di valori che non erano quelli del sapere, della cultura, del merito, ma quelli del censo.
Ne derivava il rifiuto di tutto quanto lo circondava; il bisogno di rispondere no ai tanti sì che gli venivano richiesti o imposti.
La lettura era la sua difesa e il suo rifugio. Consumava gli occhi al lume di candela su ogni libro, opuscolo, giornaletto che gli capitasse tra le mani. Leggeva di preferenza Mazzini (a cominciare dalle lettere alla madre), Garibaldi e tutto quanto lo concerneva, il risorgimento, la rivoluzione francese, il quarantotto. Divorava gli opuscoli repubblicani, anarchici, sindacalisti, socialisti. I Miserabili di Victor Hugo, I misteri di Parigi di Eugène Sue o Germinal di Zola erano per lui ciò che Cuore di De Amicis o Ventimila leghe sotto i mari di Verne erano per i suoi coetanei.
Cresceva anticlericale repubblicano libertario. Poco a poco scopriva nell’umanesimo la legge morale che l’avrebbe poi guidato nella vita e che altri cercano nella religione.
Carducci era il suo poeta, anche se non gli perdonava l’ode alla regina «fulgida e bionda» e se volentieri l’avrebbe apostrofato coi versi vendicativi di Mario Rapisardi: «Or cerbero che i re squarta e ingozza / or di donne regali umil lecchino». Una volta intravide il cantore di Vincenzo Caldesi «leon di Romagna» al caffè dei Signori nella compagnia della «Dama bianca», la contessa Pasolini, e del gruppo dei suoi fedeli.
Esprimeva le sue rivolte come poteva scrivendo sul muro della scuola «Viva Bresci» all’annunzio del regicidio di Monza, o «Viva la Repubblica» il giorno dello Statuto.
Finiva per sentirsi nemico a quanto lo circondava, perfino i suoi compagni che, fatte poche eccezioni, avevano altri interessi o non ne avevano alcuno che andasse al di là del tran tran quotidiano. Pagava a tutto questo il prezzo di una solitudine e di un continuo piegamento di sé medesimo di cui avrebbe poi avvertito il peso per tutta la vita.
Avrebbe voluto diventare operaio ceramista e doveva intanto accontentarsi di un posticino di scrivanetto alle «Ceramiche riunite».
La vita decise diversamente. Restituito nel 1908 a 17 anni (invece che a 18) alla libertà, si trovò immediatamente preso dalla lotta politica e di classe senza uscirne più[1].


Schedato come sovversivo



L’anno 1908 mi mise di fronte a nuove e più precise difficoltà e a un evento felice. L’evento felice fu l’incontro con Carmen (Emiliani) che doveva di lì a pochi anni diventare mia moglie, che è stata la sola donna della mia vita con un debito di riconoscimento da parte mia per il tranquillo coraggio con cui fino alla morte ha accettato le prove difficili che dovevano contrassegnare il nostro comune destino.
Carmen era operaia alla filanda con un salario di settantacinque centesimi al giorno per dieci ore di duro lavoro e già segnata nel fisico con due pleuriti, dalla minaccia della tubercolosi che sovrastava su tutte le filandiere e che sotto i nostri occhi esterrefatti si portò via in poche settimane una sua sorella, creatura magnifica di una bellezza aggressiva quant’altre mai.
Eravamo poveri entrambi e alle prese con lo stesso problema di non soggiacere all’ambiente, alla rassegnazione, alla povertà non solo materiale ma morale. Univamo due speranze nella volontà di concorrere a creare un mondo migliore.
Faenza era già allora una città attorno ai 36 mila abitanti. Politicamente era pressoché la sola città di Romagna con una compatta maggioranza clericale – la «squacerela» in un moto dialettale spregiativo – vicino a Forlì repubblicana, a Ravenna dove prendeva rapido sviluppo, attorno a Nullo Baldini, il socialismo delle leghe e delle cooperative, a Imola socialista nella scia del romanticismo di Andrea Costa che nel 1881 aveva rotto con l’anarchia ma per immettere l’umanesimo libertario e popolaresco nella più ampia corrente del moderno movimento operaio. L’economia cittadina era agricola per l’80% sulla base della piccola proprietà e della mezzadria e nella quasi totale assenza del bracciantato. Niente industrie anche se l’artigianato nei campi delle ceramiche (vanto della città), della filatura della seta, della ebanisteria andava poco alla volta assumendo un tipo di gestione capitalistica.
La cultura prevalentemente umanistica rimaneva privilegio di pochi con alcune finestre aperte da coraggiose avanguardie laiche ed anche democratiche alla maniera di Romolo Murri, il prete radicale entrato in quegli anni in Parlamento. L’analfabetismo toccava punte assai alte, sul finire del secolo ancora superiore al 60%. La Diocesi vi era potente con 123 parrocchie. Scarse ancora le gerarchie professionali liberali e radicali e quindi forte il peso di una nobiltà cittadina taccagna, anzi avara, estranea alla cultura salve poche eccezioni – aveva dato al risorgimento Vincenzo Caldesi, il «leon di Romagna» cantato da Carducci.
La città risentiva ancora all’inizio del XX secolo delle lotte tra giacobini e papalini, facile ancora alla rissa e al coltello. La forza politica più rappresentativa degli interessi e dell’umore popolaresco era il Partito repubblicano anche se troppo chiuso in se stesso e nel rituale delle celebrazioni e delle commemorazioni al quale noi giovani cercavamo di sottrarlo e di sottrarci.
Grosse comunque le difficoltà, anche in questa regione di avanguardia, per chi rifiutava un certo ordine di valori e di responsabilità. Grosse le mie difficoltà a cominciare da quella del diritto al lavoro. Licenziato per aver partecipato a una manifestazione e ad uno sciopero di solidarietà col grande sciopero agrario di Parma, trovavo chiuse tutte le porte.
Un ente comunale come mi accolse mi restituì alla strada. L’assunzione provvisoria al Catasto mi portò a Santa Sofia per concludersi bruscamente, preso come fui in una chiassata anticlericale che mi condusse al Commissariato di polizia.
Non c’era che cambiare aria. Ormai ero schedato sovversivo e per ciò solo esposto ad ogni arbitrio. La prima annotazione della mia «scheda biografica» diceva: «licenziato da un orfanotrofio perché faceva propaganda dei principi repubblicani tra i suoi compagni, si iscrisse al partito e si fece promotore dell’Associazione anti – militarista di Faenza.
Non ricordo cosa fosse questa associazione, ma l’anti – militarismo era, all’inizio del secolo, uno dei grandi temi della lotta politica in connessione con la denuncia degli eccidi proletari.
Non è senza significato che uno dei primi articoli da me firmato sul locale settimanale repubblicano «Il Popolo» fosse di indignazione e protesta per un eccidio a Faenza il 21 luglio 1908 nel quale era stato ucciso un bracciante. Ed è indicativo di quello che divenne un dato costante della mia milizia politica l’appello che rivolgevo alla maggior possibile unità nell’azione, espressamente riferendomi all’esempio di un moto recente a piazza del Gesù a Roma e all’impronta unitaria che Andrea Costa aveva dato a un suo diretto intervento.
Vennero in breve la prima denuncia e la prima condanna. «Contro di lui – si legge nella ‘scheda’ della polizia – venne iniziato procedimento penale dal Procuratore del Re (di Faenza) per un articolo contenente offese per la monarchia sabauda comparso nel numero 36 del ‘Popolo’ del 6 settembre 1908; tale procedimento non ebbe più seguito per mancata autorizzazione ministeriale». La prima condanna fu a 3 lire di ammenda per affissione e distribuzione di stampa non autorizzata.
Piccole cose che mi indussero a tentare la prova di Milano. Ci andai con un peculio di 6 scudi di argento che mia madre mi consegnò in lacrime alla stazione. Erano gli scudi che la sua padrona mi aveva regalato quando dal collegio andavo in occasione del suo onomastico a farle gli auguri. Avevo una presentazione per l’onorevole Eugenio Chiesa, il focoso deputato repubblicano erede del radicalismo lombardo, che mi accolse con simpatia senza avere però una soluzione da offrirmi. Invece si interessò a me Alessandrina Ravizza, una socialista russa innamorata dell’Italia che dirigeva l’«Umanitaria» e che attorno a sé profondeva il tesoro della sua bontà pari alla sua bellezza nella cornice dei candidi capelli. Mi dette da riordinare una raccolta di ceramiche che mi lasciava tutto il tempo per frequentare la biblioteca dell’ente che era notevole e la Brera, pinacoteca e biblioteca, il primo approccio col mondo dell’arte e della cultura ed anche il primo approccio, nelle mie letture, col Marx del Manifesto e dei saggi sulla lotta politica e di classe in Francia, nell’interpretazione di Antonio Labriola, la più valida giacché colloca il proletariato come soggetto concreto e forza positiva dalla cui azione, inevitabilmente rivoluzionaria, il socialismo doveva inevitabilmente risollevare.
Ma lavoro non ne trovavo e fu quindi giocoforza ritornare a casa dove, a Bagnacavallo, feci il primo ingresso nel movimento operaio come segretario di una lega e di una cooperativa di birocciai finché l’on. Chiesa si ricordò di me e mi chiamò a Carrara, la città che rappresentava in Parlamento.


Pietro Nenni

https://musicaestoria.wordpress.com/...-un-militante/


[1] Il regolamento dell’orfanotrofio prevedeva l’uscita a 18 anni. Avendo Nenni già conseguito la licenza tecnica e trovato lavoro presso le «Ceramiche riunite», l’orfanotrofio decise di dimetterlo accordandogli un sussidio giornaliero di lire 0.50 fino al compimento del 18° anno.