di Gaetano Cingari – «Mondoperaio», a. XXXIV, n. 4, aprile 1981, pp. 101-107.


Gaetano Salvemini morì, ottantaquattrenne, il 6 settembre 1957. Era nato a Molfetta l’8 settembre 1873 da una famiglia piccolo-borghese e già a ventitré anni, nel 1896, aveva scritto il saggio rivelatore Un Comune dell’Italia meridionale: Molfetta, pubblicato nella «Critica sociale» di Turati. La sua vita s’intrecciò così con le vicende decisive della nostra storia contemporanea, dalla reazione crispina al giolittismo alle due guerre, dal fascismo all’egemonia cattolica sul sistema democratico.
L’uomo era parecchio spigoloso, attivissimo e quasi dominato da «eroico furore» contro i mali e le ingiustizie del mondo: e fu spesso accusato di moralismo, di utopismo e perfino di reazionarismo per una sua presunta sordità alla «coscienza di classe». E, tuttavia, anche coloro che lo hanno spesso definito uno «sconfitto», non sono mai riusciti a spiegarsi (e a spiegare) la sua enorme influenza sui capi e ufficiali dei partiti di massa e la durata dei temi di fondo della sua «predicazione» In realtà, se da un lato lo si definisce «sconfitto», dall’altro si è costretti, in tutto o in parte, ad appropriarsene. Tra Marx, Cattaneo e Mazzini, tra socialismo e democrazia radicale, egli ha tracciato un fitto reticolo, lasciando il Partito socialista e ponendosi come guida intellettuale quasi in dispregio dei partiti o come loro frusta. Questi e altri dati hanno sollevato legittimi dubbi sulla sua reale collocazione ideologica. Ma, di contro, anche se un iniquo biografo ha scritto che con lui spariva un esemplare di specie estinta, quella dei maestri, di cui ormai non si aveva più bisogno[1], c’è il dato dei dati, che alla sua «predicazione» si rifacevano Dorso, Fiore, Gobetti, Rosselli, Gramsci in una proiezione non genericamente democratica o radicale ma, come si diceva allora, «rivoluzionaria».
Ora, perfino un uomo di finissimo ingegno come Eugenio Garin, che lo riconosceva «maestro», nella sua prolusione a un convegno su Salvemini nel 1975, finiva per porre più il problema dei limiti di quel pensiero che quello del suo ruolo. L’intenzione era buona perché si voleva evitare la retorica edificante sull’«uomo buono e retto», sul «Socrate di Molfetta», sul «santo laico», ma la fonte dell’equivoco stava nel metro adottato per giudicarlo: che era non tanto di misurare come e perché si era verificato il suo isolamento «dalle classe e gruppi per cui si era tanto battuto», quanto di affermare il suo autonomo distacco dalle masse[2]. In quel modo giungeva a maturazione una lunga interpretazione critica, nata nel momento stesso dell’affermazione del «gramscismo», secondo la quale tutto e ogni cosa doveva ad esso rapportarsi per definirne il reale valore. Salvemini aveva, sì, fornito l’intuizione chiave al meridionalismo di Gramsci e svolto un’importante critica al «compromesso giolittiano» e alle debolezze del socialismo riformista, ma era rimasto a mezza strada come un qualunque intellettuale piccolo-borghese. Così, nel furore post-sessantottesco, un equivoco tendenziale finì per produrre l’immagine di un Salvemini, oltre che «sopravvissuto», «reazionario».

Tra Marx e Cattaneo

Salvemini stesso, riandando al suo primo saggio del 1896, ha spiegato la sua posizione ideologica originaria: quel giovane di ventitré anni – scriveva nel 1955 – «nei due anni precedenti aveva divorato il Manifesto dei comunisti e gli scritti di Marx sulle lotte di classe in Francia nel 1848, sul colpo di stato del 1851 e sulla “Comune”, aveva scoperto il suo vangelo nel Materialismo storico di Antonio Labriola, e aspettava con impazienza ogni due settimane la “Critica Sociale” di Turati». L’altro suo scritto, ancora più notevole, fu composto alla fine del 1898, dopo quel maggio di tumulti annonari a Milano, di stato d’assedio e di repressione che portarono all’arresto, tra gli altri, di «Anna Kuliscioff e Filippo Turati, la mamma e il papà della “Critica Sociale”». Il «socialista, repubblicano, federalista» venne fuori l’anno dopo, quando il giovanissimo professore al liceo di Lodi lesse gli scrittori politici lombardi del Settecento e dell’Ottocento, e Carlo Cattaneo, «che sopra tutti com’aquila vola»[3].
In tutt’e tre quei saggi il tema era la condizione del Mezzogiorno o, meglio, la «questione meridionale». Nel giro di quattro anni, in prospettiva nazionale unitaria, Salvemini identificava socialismo e meridionalismo e introduceva nel dibattito politico la formula, divenuta classica, dell’alleanza tra proletariato industriale del Nord e contadini del Sud come condizione e strumento della trasformazione. «Finché nell’Italia meridionale la legalità sarà nelle mani dei latifondisti e della piccola borghesia – scriveva nel saggio La questione meridionale del 1898 – qualunque riforma sarà impossibile in tutta Italia: solo la forza dei contadini potrà rompere la forza degli altri; ma finché i contadini saranno dai settentrionali disprezzati e abbandonati a se stessi, non potranno mai far nulla, oppure si lasceranno sfruttare politicamente dagl’imbroglioni, mentre sono sfruttati economicamente dai padroni». E ancora: «Negli altri paesi il proletariato industriale ha capito che non può far nulla senza l’aiuto del proletariato rurale; e il Partito socialista lavora ovunque per conquistarlo. In Italia la differenza fra proletariato industriale e proletariato rurale è anche, sotto parecchi riguardi, differenza fra proletariato settentrionale e meridionale. Bisogna che il primo si ricordi che non potrà far mai nulla senza dell’altro».

Tra riforme e rivoluzione

Il salto era notevole, non solo rispetto al meridionalismo conservatore e democratico, ma nei confronti delle stesse posizioni socialiste, talora pervase da spiegazioni pseudo-scientifiche sull’inferiorità del Mezzogiorno. In poche pagine penetranti Salvemini aveva saldato l’analisi delle tre classi meridionali (latifondisti, piccola-borghesia, contadini) e del blocco di potere politico e sociale in cui si era risolta l’unità nazionale. E, rovesciando la tendenza socialista prevalente, anche nel Sud, di una quasi messianica attesa del tramonto del capitalismo sotto i colpi del proletariato del Nord, aveva posto il problema politico delle forze, al Nord e al Sud, che avrebbero dovuto battersi per cambiare i dati del sistema. Il blocco di potere, dominato da una duplice subordinazione, del Sud al Nord e dei contadini ai latifondisti tramite la piccola borghesia, funzionava nel reciproco interesse delle forze che nelle due grandi aree del paese impedivano ogni sviluppo coerentemente democratico. Come egli scriveva con pungente immagine: «I moderati del Nord hanno bisogno dei camorristi del Sud per opprimere i partiti democratici del Nord, i camorristi del Sud hanno bisogno dei moderati del Nord per opprimere le plebi del Sud». Allora – si chiedeva – c’è nel Mezzogiorno un «punto d’appoggio» su cui far leva per «sollevare il mondo sociale»? «O, in altre parole, c’è nell’Italia meridionale un partito riformista? e se non c’è, è possibile che sorga? e quali sono le persone che lo comporranno?» E poiché «non saranno dunque né i latifondisti né i piccolo borghesi quelli da cui partirà il movimento di riforma – rispondeva – il punto d’appoggio bisogna cercarlo altrove. E quest’altrove sta nel proletariato rurale»[4].
La carica «rivoluzionaria» di questa interpretazione era nutrita e spinta dalle dure esperienze del «decennio reazionario» dai Fasci siciliani ai moti di Milano, passando per altri episodi di rivolta popolare indotti dalla grave crisi economico-sociale e dalla repressione. Proprio quando il giovanissimo Salvemini scriveva il suo saggio sulla «questione meridionale», il maggiore dei meridionalisti borghesi, Giustino Fortunato, bollava con forza quella cieca politica repressiva: «La minaccia non è ne’ rivoluzionari di professione. I veri rivoluzionari siamo noi, classi dirigenti, che persistiamo, dinnanzi alla triste situazione dell’Italia, a invocare in cuor nostro l’assolutismo…»[5]. I fatti certo, più che le importanti letture degli scritti storici di Marx, spingevano il giovane Salvemini a pervenire d’emblée, come dice Giuseppe Galasso, a quell’importante intuizione destinata a nutrire il «meridionalismo rivoluzionario» successivo[6]. Così come quei fatti stessi lo collocavano, come scrive Massimo L. Salvadori, in una posizione intransigente, quasi rivoluzionaria, all’interno del Partito socialista[7]. Ma, in entrambi i casi, la linea salveminiana s’inquadrava nel socialismo riformista. Da un lato, è vero che egli non era Antonio Labriola, non aveva cioè attitudini teoriche e anzi le disdegnava, né pensava a una fuoriuscita dal regime rappresentativo liberal-democratico. Ma è indubbio che la centralità da lui attribuita alla lotta di classe lo distingueva nettamente dall’area democratico-radicale e lo collocava in quella socialista, beninteso del socialismo (e marxismo) allora in circolazione. Dall’altro, è vero che egli chiedeva un «altro Stato» e non faceva questione se esso sarebbe nato «con o senza violenza» e che si opponeva in quegli anni al «legalitarismo» della Direzione socialista. Ma, pur rifiutando l’antitesi tra riforme e rivoluzione e tra evoluzione e rivoluzione perché la «rivoluzione sta alle riforme come la specie sta al genere», in concreto egli domandava per il Sud un movimento riformista fondato sul risveglio contadino e che, in lotta unitaria e nazionale con gli operai del Nord, imponesse la trasformazione. Delle tante possibili definizioni di rivoluzione appare più aderente anche alla sua posizione iniziale quella da lui racchiusa nella formula «rinnovamento profondo di una situazione tradizionale» nel che stava il nesso strettissimo da lui vissuto come centrale tra socialismo e democrazia.
All’interno di questa proposta vanno inserite la sua battaglia per il suffragio universale e la proiezione federalista e autonomista dell’auspicata trasformazione istituzionale dello Stato. Cattaneo, ma anche qualche elemento del socialismo proudhoniano, gli fornivano un modello di trasformazione dello Stato accentratore, camicia necessaria, quest’ultimo, in quanto violenta compressione delle energie economiche civili e morali di base, del blocco di potere. A parte l’astrattezza dello schema, più volte rilevata e talora giustamente, si può dire che egli proponesse un programma di riformismo strutturale, non un riformismo omeopàtico ma un movimento socialista nazionale nel quale i tre momenti di riforma (economico, sociale, politico) si tenessero assieme, senza che nessuno prevalesse sugli altri o, peggio, li subordinasse come secondari. Il suo rifiuto netto era per il «socialista che si contenta», come dirà poi a Bonomi, e per i socialisti rivoluzionari acchiappanuvole. Progressivamente egli definiva così uno dei suoi pensieri fondamentali e iniziava la sua battaglia all’interno del riformismo socialista messo alla prova dalla svolta giolittiana degl’inizi del secolo.

Socialismo e meridionalismo

Dal punto di vista del Mezzogiorno, il corso giolittiano, mentre spostava l’equilibrio tradizionale, non intaccava il blocco di potere nazionale denunziato da Salvemini. Le lotte operaie e contadine del Nord non rompevano che pochi pezzi del meccanismo economico-sociale che dominava i contadini del Sud. E il Partito socialista, determinante in alcune fasi seppure fuori dal governo, compiva le scelte che erano sospinte, in primo luogo, dal peso della parte più consistente degl’interessi operai rappresentati. Salvemini si avvedeva di questa contraddizione e, denunziando i fattori di corporativismo proletario che deviavano la linea riformista, insisteva fino all’invettiva sulla necessità di accoppiare le riforme sociali, più utili al Nord, a quelle politiche, indispensabili al Sud. Tutta la sua appassionata opera del primo decennio del secolo, partendo appunto dalle intuizioni precedenti e analizzando via via la lotta politica e la produzione legislativa, è incentrata su questo nodo prioritario. Del resto, come scriveva nel 1954, a Gaetano Arfè, che collaborava con lui alla raccolta degli scritti sul Mezzogiorno, «il socialismo della Cina, dell’India, del pianeta Marte, mi hanno sempre interessato poco. Mi ha interessato solamente il socialismo italiano in funzione di quello meridionale e viceversa»[8].
Beninteso, egli non avanzava una proposta «piagnona» o «regionalista», ma nazionale, e il suo obiettivo era di spingere la lotta socialista in senso meridionalista, muovendo insieme dal Nord e dal Sud. L’espansione proletaria settentrionale era per lui un dato di enorme valore, e per questo criticava quei socialisti meridionali che non ne vedevano il ruolo positivo anche per il Sud. Ciò che contestava era, per così dire, l’idea e la pratica dei due tempi: prima le riforme sociali, poi quelle politiche, prima il Nord, poi il Sud. E in ciò egli si differenziava nettamente da altri socialisti meridionalisti, concordi su singoli punti ma diversi e opposti nell’ispirazione fondamentale. Ettore Ciccotti, riformista, aveva compiuto importanti passi nell’individuazione del rapporto capitalismo–arretratezza meridionale; aveva detto che «il Mezzogiorno, più che il resto d’Italia, soffre, ad un tempo, dello sviluppo dell’economia capitalistica e dell’insufficienza di questo sviluppo» e, con frase allora efficace ma non esaustiva dei processi reali, che esso «ha la condizione che l’economia capitalistica fa a’ vinti nella lotta della concorrenza». Arturo Labriola, sindacalista rivoluzionario, aveva individuato i meccanismi che, a fronte della disgregazione sociale meridionale, consentivano al sistema capitalistico nazionale di penetrare e subordinare nella fitta rete del clientelismo e del trasformismo i ceti dirigenti del Sud. Ma le loro proposte politiche puntavano a soluzioni inaccettabili per Salvemini, oltre che nel metodo, soprattutto per la sfiducia che vi era implicita sulla possibilità d’iniziativa del proletariato rurale meridionale nella lotta trasformatrice. Il primo, difatti, si chiudeva nella constatazione che il «destino del Mezzogiorno» si decideva al Nord («dove si combatte la grande battaglia pel capitalismo») e che, comunque, i caratteri degenerativi del Mezzogiorno sarebbero scomparsi col «tramonto dell’éra capitalistica». Il secondo sboccava nella domanda rivoluzionaria, respingendo sia il modello riformista sia quello democratico-radicale; così faceva notare al Nitti, che puntava sull’industrializzazione e sulla legislazione speciale, che era illusoria la pretesa di «spostare» o di «emulare» il «grande centro produttore e commerciale» radicato al Nord[9].
Salvemini pensava invece, testardamente, alla funzione che il Partito socialista poteva assolvere per estendere su tutto il paese l’area della lotta politica moderna, per porre la questione agraria meridionale, per imporre le riforme istituzionali. Nel Sud era isolato e la definizione del suo piano di riforme si scontrava con la linea nazionale, nella quale peraltro Turati doveva fronteggiare le spinte corporative della destra riformista e l’attacco dell’estrema sindacalista. Da un lato, egli trovava in Turati e nel metodo riformista i punti di riferimento essenziali; dall’altro era quasi obbligato a contestare che la pratica politica e legislativa rispondesse alle finalità del movimento e del metodo. Ribadiva, ancora più chiaramente, il suo rifiuto del rivoluzionarismo ma indicava la debolezza di un riformismo, se non spicciolo, comunque vincolato ai miglioramenti salariali e alla legislazione sociale, cioè al terreno che consentiva una più agevole mediazione con la linea giolittiana senza strapparle il nocciolo delle riforme politiche. Quanto egli scriveva, a commento della sconfitta dei riformisti nel Congresso di Bologna del 1904 ad opera della coalizione sinistra ferriana–sindacalismo rivoluzionario, spiega bene lo spazio che egli cercava di coprire: «… se i riformisti non si fossero cacciati in testa il chiodo esclusivo delle riforme sociali, e se avessero dedicato parte della loro attività all’agitazione per le riforme tributarie, militari, doganali, scolastiche, ecc., moltissimi di quelli, che oggi si dicono rivoluzionari per reazione contro il riformismo semplicemente sociale, sarebbero riformisti della più bell’acqua. E Arturo Labriola rimarrebbe solitario a dire che le riforme non intaccano il meccanismo fondamentale della produzione capitalistica»[10].

Il contrasto con Turati

Ma riforme politiche più riforme sociali voleva dire, essenzialmente, rapporto strettissimo tra socialismo e meridionalismo: e di più, come s’è detto, opposizione ai due tempi. In realtà, il nodo posto da Salvemini era poco inteso dal socialismo settentrionale, di estrema destra e di estrema sinistra. Turati ne avvertiva l’importanza, ma non era convinto della sua centralità in quel momento e, di fronte al piglio giacobino del professore di Molfetta, invitava a non caricare le chieste riforme politiche di significati impraticabili.
La linea di Turati è fissata in un noto suo articolo del 1903: «Fate che consolidata la libertà e rinvigorite le organizzazioni dei lavoratori nel Centro e nel Nord, che danno i due terzi dei deputati italiani, si riesca, con due o tre legislature, a una Camera in cui l’elemento socialista radicale, o anche soltanto democratico sia raddoppiato. Allora a un governo liberale – ma allora soltanto – riuscirà di emanciparsi dai deputati del Sud, che oggi, congiurati alle consorterie del Centro e del Nord, lo tengono prigione ed inerto. E allora potrà cominciare – senza pericolosi dispotismi giacobini, con le riforme proposte da Rerum Scriptor o con altre migliori – la redenzione reale del Mezzodì». Rerum Scriptor, era appunto, Salvemini, al quale replicava e del quale mostrava di cogliere la reale direzione di marcia. E poiché questi aveva insistito nel ricordare ai «Socialisti del Nord» che, se le loro regioni avevano guadagnato «qualcosa» negli ultimi due anni, «un’altra Italia – con rispetto parlando – meridionale» era rimasta «a denti asciutti», Turati gli replicava che il suo avvertimento poteva essere rovesciato, dicendo ai socialisti del Sud: «Badate che lo sviluppo della libertà del Nord è questione vostra ancor più che nostra; de re vestra agitur»[11].
Entrambe le linee nascevano nell’ambito della medesima concezione del socialismo gradualistico, ma racchiudevano due tattiche e, alla fine, due strategie diverse. Anche quando la proposta salveminiana del suffragio universale si rafforzò fino a prendere il primo posto nella mozione Turati al Congresso di Milano del 1910, quel contrasto non fu sanato. Ribadendo il concetto che il Partito socialista non doveva fermarsi alle sole riforme utili ai «gruppi organizzati della classe lavoratrice», Salvemini riproponeva il tema della «grande massa» colpita dalla evoluzione in atto e rimasta esclusa dalla testa del movimento. La sua polemica era diretta, in particolare, alla destra riformista che, difendendo le posizioni corporative, spezzava l’avanguardia dal grosso esercito. Ma, nel contempo, fissava la sua estraneità dai socialisti rivoluzionari, dai quali – diceva – «ci divide la nostra ferma convinzione che la trasformazione sociale, anche se in qualche momento può essere accompagnata da moti rivoluzionari, in realtà risulta dalla accumulazione delle riforme…». E il suo ordine del giorno, minoritario ma sul quale convergeva il consistente gruppo facente capo a Modigliani, ne definiva la linea in due punti: che la «rivoluzione sociale non sarebbe che un nome senza contenuto, quando non propugnasse le successive conquiste da parte del proletariato e tutte quelle riforme che, pure essendo compatibili col presente assetto economico, ne spostino gradualmente l’asse»; e che «l’azione per la conquista delle riforme in tanto ha carattere socialista, in quanto tiene presenti i diritti della intera classe lavoratrice, e in tanto ha vera funzione rivoluzionaria, in quanto suscita per l’opera di conquista lo sforzo cosciente dell’intero proletariato organizzato in partito di classe»[12].

Il distacco dal partito

La sua uscita dal partito l’anno dopo avveniva, come si vede, da sinistra del riformismo e, in sostanza, su una linea strategica che non aveva punti di appoggio fuori dal socialismo organizzato e che egli stesso non poté praticare in alcun modo. Il danno fu, se si può dire, reciproco, perché egli abbandonava la forza senza la quale non era possibile, pur nel contrasto, l’attuazione di quella linea e perché il gruppo riformista perdeva una proposta strategica meridionalista originale e di lunga durata. Forse le condizioni oggettive della lotta politica pesavano più di quanto si ritiene, quando si parla del cosiddetto «compromesso giolittiano» sul duplice divario Nord-Sud e socialismo-riforme; e certo l’evoluzione di una democrazia industriale zoppa non poteva non influire sulla praticabilità stessa di una lotta generalizzata nelle grandi città e nelle campagne, ivi compresa – come chiedeva Salvemini – l’intera area rurale meridionale. Ma Salvemini coglieva un dato di fatto incontrovertibile, sia pure portato avanti con esclusivismo giacobino e con un piglio dissacrante, che irritava perfino Turati che gli voleva bene e, tutto sommato, lo aveva influenzato nel periodo formativo e anche sostenuto in momenti difficili di contrasto.
Nelle lettere di Anna Kuliscioff a Turati di quegli anni decisivi ci sono molti accenni a Salvemini e alla sua proposta meridionalista. In due, in particolare, la Kuliscioff comunicava a Turati pensieri ancora più accesi su quanto, a suo giudizio, accadeva. Precisava in una che, per necessità, dovevano sussistere «due anime diverse nei socialisti del Nord ed in quelle del Sud» perché «voi siete già degli arrivati ad una certa tappa della vita civile, là la vita civile non fece ancora nessun capolino» e che perciò c’era da augurarsi che, a scuotere la «burocrazia socialista» si determinasse «un partito socialista rivoluzionario dell’Italia meridionale». E nell’altra, in riferimento all’antigiolittismo di Salvemini, affermava che «il vero marasma non è tanto nel giolittismo, quanto nel quietismo dei partiti avanzati»[13]. Ora, mentre non era congeniale a Salvemini, decisamente unitario, la prospettiva di un partito socialista meridionale, combaciava perfettamente con la sua linea l’affermazione che il giolittismo si rafforzava col riformismo spicciolo e che, per quella via, dopo gli anni già perduti, il divario Nord-Sud si sarebbe insieme consolidato ed esaltato. Di fatto, però l’impetuoso sviluppo del periodo, che aveva da un lato condizionato la stessa lotta socialista, dall’altro aveva tanto forzato i dati complessivi da collocare lo stesso Salvemini, da quel momento in poi, più nella destra che sulla sinistra. E tutto ciò induce a ripensare storicamente età giolittiana e ruolo del Partito socialista (anche nel Mezzogiorno), sgomberando il campo dei tanti equivoci e forzature che tuttora seminano la storiografia di sinistra.

Una polemica su due fronti

Da riconsiderare è anche la troppo insistita idea della frattura tra le varie e diverse fasi dell’impegno politico salveminiano. L’immagine negativa di un Salvemini che da marxista si muove verso Mazzini, mentre Gobetti da mazziniano si muoveva verso Marx, non è che una formula e spezza la sostanziale continuità della sua ispirazione ideale; così come è troppo scopertamente politica, nella estemporanea versione di Giorgio Amendola, l’accusa di una «eredità avvelenata» che egli avrebbe lasciato ai suoi seguaci, cioè la sfiducia nella capacità creativa delle masse, elemento essenziale del socialismo[14]. Le molte facce del socialismo e le revisioni, che investono proprio quelle certezze ideologiche contro le quali batteva Salvemini nel primo dopoguerra, smentiscono tali forzature e, al di là delle molte contraddizioni presenti in scritti di epoche diverse e lontane, ne rivalutano l’intera coerenza. Il salto dal 1911 al 1921 e al 1926, quando Gramsci scriveva le sue famose tesi sulla questione meridionale, e anzi al secondo dopoguerra, quando la formula operai del Nord-contadini del Sud apparve praticabile, quel salto è troppo grande perché non se ne tenga il dovuto conto. All’interno ci sono fatti risolutivi, la conquista del suffragio universale (grande merito storico di Salvemini e del Partito socialista, anche se dato da Giolitti in modo inatteso, come «un pranzo alle otto di mattina»), la guerra, la rivoluzione d’ottobre, l’occupazione delle fabbriche, il fascismo. Il leninismo e la più fortemente ribadita incapacità di decidersi tra rivoluzione e riforme non stanno fuori dal quadro e nemmeno le ragioni che, dopo l’iniziale sbandamento e durante la crisi aventiniana, spingeranno Salvemini ad aderire al Partito socialista unitario di Turati e Matteotti.
È indiscussa, comunque, la grande influenza di Salvemini sulla cultura politica e sulle tendenze meridionaliste forzate dallo stesso avvento del fascismo e destinate a maturare nel secondo dopoguerra. Dalla sua polemica antigiolittiana e dalla sua insistenza sul tema meridionale come questione nazionale si irradiavano forti suggestioni sulle nuove leve intellettuali e politiche, e in una direzione soprattutto di sinistra. L’Unità da lui fondata e diretta dal 1911 al 1920, se può essere letta anche come critica ai partiti e, in particolare, al Partito socialista, presenta tuttavia una dimensione più significante in direzione dell’insufficienza dello sviluppo e della debolezza della democrazia industriale; e in ciò risiedeva la sua carica innovativa e la sua forte capacità stimolatrice. Lo conferma l’episodio narrato da Gramsci nelle ricordate sue tesi meridionaliste, smentito nella parte anti-Salvemini da Angelo Tasca. Nel 1914 i giovani socialisti torinesi, appunto Tasca, Gramsci e Ottavio Pastore, offersero la candidatura a Salvemini in quanto «esponente più avanzato in senso radicale della massa contadina del Mezzogiorno». Volevano affermare l’unità tra operai del Nord e contadini del Sud e mostravano così di aver colto il punto centrale della proposta salveminiana. Politicamente era un gesto importante e non solo per il ruolo che si doveva dare in funzione anti-riformista. Ma, in punto di fatto, essi erano militanti socialisti e Salvemini non più. Così quell’invito cadde, come era caduta due anni prima l’offerta della direzione dell’Avanti! fatta a Salvemini da Costantino Lazzari a nome della corrente di sinistra vincitrice al Congresso di Reggio Emilia. In realtà, quelle proposte si spiegavano con la particolare qualità del riformismo salveminiano e, meglio, con le motivazioni che egli aveva dato al suo dissenso sulla pratica riformista; ma, nel contempo, mostravano la durata della sua presenza nel dibattito socialista e un certo grado di confusione, atteso che lo stesso Salvemini si era accostato a Bissolati nel 1912. Ricordando quei due episodi, egli dirà del primo: «Ero un libero tiratore, che ci teneva a dirsi socialista riformista, gradualista, dissidente dai riformisti ufficiali, tutto quello che si vuole, meno che “avanzato in senso radicale”; mi divideva dagli altri riformisti la loro indifferenza per le sorti dei contadini meridionali, ma non avevo niente assolutamente in comune coi socialisti cosiddetti “rivoluzionari” tanto del Nord quanto del Sud». E del secondo, cioè del ritiro della proposta di assumere la direzione dell’Avanti!: «Mi bastò dire a Lazzari che io non solo ero un riformista, ma un riformista di destra e avevo criticato Turati perché non lo ritenevo abbastanza riformista, e non perché io fossi rivoluzionario»[15].
Ciò che appare altresì indubbio, specie dopo l’avvento del fascismo, è la sua più pressante insistenza sul primo dei due termini democrazia-socialismo. Il disprezzo verso la democrazia, da destra ma anche da sinistra, lo spingeva a ripensare quel rapporto, soprattutto in contrapposizione alle varie forme di dittatura. E perciò investiva il problema stesso del socialismo possibile e il problema delle garanzie perché tutto non si risolvesse in strutture oppressive. Se da un lato, dunque, l’influsso del suo pensiero meridionalista si esercitava in tutte le interpretazioni tese a rompere le basi dello Stato storico, da Gramsci che lo inseriva in uno schema leninista al gruppo de «La Rivoluzione liberale» di Gobetti e a quello del «Quarto Stato» di Rosselli e Nenni; dall’altro, le sue tesi sulla reale essenza di un regime democratico toccavano la varia gamma dei revisionismi che si producevano sia in riscontro alla trasformazione sociale sia agli esiti pericolosi che essa aveva in opposte latitudini.

Dopo il fascismo

Il secondo dopoguerra, con la caduta del fascismo, la Resistenza (sulla quale il pessimismo salveminiano andò oltre il segno) e la ripresa democratica, ha in parte chiarito i torti e le ragioni delle travagliate vicende e polemiche che accompagnarono l’età giolittiana e la sua irreversibile crisi. Per un verso si è affermata, in sede storica, la tendenza a una valutazione del riformismo socialista meno acrimoniosa di quella a suo tempo proposta da Salvemini in rapporto al giolittismo. E per l’altro verso si è chiarito, dopo il «compromesso istituzionale», che la polemica salveminiana, sacrosanta nelle sue motivazioni di fondo, si scontra con meccanismi di sviluppo dualistico che raffrenavano oggettivamente il processo di riforma; e quei vincoli non venivano intaccati da altre, più forti, cariche «rivoluzionarie». L’ottica di Togliatti, sulla situazione post-fascismo e, per essa, sul precedente giolittiano, non era per nulla la stessa che Gramsci aveva applicato alla prima formazione della democrazia industriale. Le ragioni politiche di questo spostamento ottico sono evidenti, ma nel giudizio storico e, al fondo, anche in quello politico non si possono salvare capre e cavoli: e, nel nostro caso, non è possibile contestare Salvemini e insieme il riformismo socialista in nome di un superamento che, quando si è verificato, è andato proprio nella direzione contestata.
In realtà, pur nelle mutate condizioni del secondo dopoguerra, quando ai fattori preesistenti si erano sommati gli effetti della politica fascista, le «idee fisse» di Salvemini non passavano nel libro dell’utopia. L’espansione democratica conosceva una accelerazione molto importante e nel Sud le lotte contadine aprivano spazi nuovi a quel risveglio dal basso cui Salvemini aveva puntato fin dai suoi primi scritti e nell’azione politica, anche se esse si sprigionavano in un momento di riflusso del movimento operaio del Nord, comunque non in sintonia e nemmeno calate in una prospettiva unitaria. Ma d’altra parte, essa s’incrociava con una congiuntura politica in cui lo schema leninista, tuttora forte nel Partito comunista, e la scissione tra Nord e Sud drammatizzavano il divario tra meridionalismo di sinistra e meridionalismo democratico. Così Salvemini, fuori dai partiti e ormai alla fine della sua vita, poteva scrivere della rivista «Cronache meridionali» che essa sarebbe stata impensabile prima del 1920, e dei comunisti che essi non correggevano, ma secondavano lo squilibrio distruttivo, praticando una politica, appunto, di tipo «corporativo».
La ragione stava nel fatto che, pur nell’immenso progresso compiuto («se chiudo gli occhi – diceva – per rievocare le condizioni di sessant’anni or sono, e le confronto con quelle di oggi, mi sembra di vivere in un mondo nuovo»), la questione meridionale restava in piedi e perduravano soprattutto i dati dello sviluppo dualistico e la debolezza della sinistra nel correggerlo. D’altra parte, pesavano tutti i fattori ideologici e politici, che avevano impedito la formazione di un fronte riformatore, capace di analisi corrette sulle stesse qualità del capitalismo e dei fenomeni nuovi che, soprattutto al Sud, cambiavano la natura del trasformismo tanto combattuto da Salvemini e lo collocavano in un nuovo, più ramificato e più «moderno» sistema di potere.

Un riformista impenitente

Complessivamente, nei limiti propri di una «predicazione» politico-culturale, non mutava il senso dell’impegno salveminiano. Le condizioni della ripresa post-fascista – «compromesso istituzionale» e, dopo la rottura del ’47, frontismo – impedirono di fatto un suo inserimento più diretto nella lotta politica, per la quale peraltro era poco tagliato. Ma non si deve scambiare questa sua posizione come impotenza e tanto meno come disprezzo o come sfiducia nelle masse. Leo Valiani, per chiarire appunto tale questione, ha opportunamente riferito il contenuto della sua corrispondenza con Salvemini dal 1943 al 1946. Valiani era allora impegnato nel CLN in rappresentanza del Partito d’azione, che aveva alle sue spalle «Giustizia e libertà», una forza importante della Resistenza. Ma Salvemini gli consigliava «insistentemente» di lasciare gli azionisti e di entrare nel Partito socialista «perché lì ci sono le masse». E quel consiglio non mutò al momento della formazione del Partito radicale ad opera di Ernesto Rossi e di Mario Pannunzio: lo incitava a non aderirvi e, ancora una volta, di andare nel Partito socialista, partito di massa[16].
Il socialismo cui egli pensava era sempre quello «gradualista», «energico a volere le cose che deve volere»: un socialismo liberale alla Rosselli, impreciso quanto si vuole, ma radicato su principî che fino a pochi anni fa sembravano blasfemi e oggi improntano molte, anche se ancora nebulose, ipotesi di «terza via».

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[1] De Caro, Gaetano Salvemini, Torino, 1971.
[2] E. Garin, Prolusione, in Atti del Convegno su Gaetano Salvemini, Milano, 1977, pp. 26-43.
[3] G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino, 1955, prefazione. Gli altri due scritti fondamentali La questione meridionale e La questione meridionale e il federalismo apparvero, rispettivamente, in «Educazione Politica» (dal 25 dicembre 1898 al 14 marzo 1899) e nella «Critica Sociale» (dal 14 luglio al 16 settembre 1900).
[4] Scritti…, cit. pp. 32-54.
[5] G. Fortunato, Mezzogiorno e Stato italiano, Firenze, 1973 (ed. Rossi-Doria), II, p. 408.
[6] G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo, Napoli, 1978, p. 185.
[7] M. L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, 1960, pp. 300 sgg.
[8] G. Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, Milano, p. IX (prefazione di G. Arfè).
[9] E. Ciccotti, Sulla questione meridionale, Milano, 1904, p. 70; Mezzogiorno e Settentrione d’Italia, Milano, 1898, p. 98; A. Labriola, Storia dei dieci anni. 1899-1909, a cura di N. Tranfaglia, Milano, 1975, pp. 101-113.
[10] G. Salvemini, Scritti…, cit., p. 209.
[11] Scritti…, cit., pp. 159-165.
[12] Scritti…, cit., pp. 337-349.
[13] Lettere del 26 maggio e del 6 giugno 1909, in F. Turati – A. Kuliscioff, Carteggio, Torino, 1977, II, 1900-1909, Le speranze dell’età giolittiana, Tomo secondo, pp. 1096-1123.
[14] Atti del Convegno…, cit., p. 331.
[15] Scritti, cit., pp. XXIII-XXVI.
[16] Atti del Convegno…, cit., pp. 353-54.