di Giovanni Spadolini – «La Voce Repubblicana», 4-5 luglio 1983

La polemica sui poli, sul duopolio «cattolici-comunisti» e sulla funzione della terza forza, ha riproposto non solo i nodi delle relazioni fra società civile e società religiosa, ma anche e soprattutto quelli del rapporto fra partiti cattolici e partiti laici nella complessa dialettica della vita italiana. Chi ha avuto l’egemonia in questo trenta cinquennio di Repubblica? E l’egemonia politica ha coinciso con l’egemonia culturale?
La mia memoria ritorna all’agosto 1979. Erano venticinque anni dalla morte di De Gasperi. Guido Gonella, che nella democrazia cristiana di quegli anni, pur privo di ogni potere, rimaneva uno degli uomini di maggiore spessore culturale ed umano, mi rimproverò, a proposito di un mio articolo sulla «Stampa», l’uso del termine «egemonia» cui ero ricorso in vista di sottolineare la funzione centrale e di guida conservata dalla democrazia cristiana per oltre tre decenni della vita italiana: forse per il sottinteso gramsciano che quella parola evocava, filtrata com’era nel linguaggio politico italiano attraverso la sottile e consumata mediazione del pensatore comunista sardo.
Eppure, ripensando a quello che aveva rappresentato la DC in Italia in questo dopoguerra, non riuscii allora, e non riuscirei oggi, a trovare un’espressione più aderente alla realtà che era tutta in movimento, rispetto ai codificati equilibri dei primi decenni di storia repubblicana, tutti dominati e influenzati dall’ombra degasperiana.
Quale fu la mia tesi di allora, più che mai attuale oggi? De Gasperi ha fondato insieme, nella storia dell’Italia contemporanea, la «centralità» e l’«egemonia» democristiana (due dati che sarebbe impossibile ancora oggi separare). Da solo, o con l’aiuto di pochi amici, quasi tutti provenienti dal partito popolare, interprete di un partito invisibile che faceva fatica a ricostruire nella realtà della vita italiana, lontano, nella Roma occupata dai nazisti, dal moto rinnovatore e sconvolgente della resistenza del nord (rinnovatore anche per talune ali del mondo cattolico), De Gasperi riuscì in primo luogo a contenere le tendenze salazariane di una vasta parte dell’episcopato e del clero, a fissare l’innesto fra democrazia e cattolicesimo politico: riprendendo la trama spezzata dell’antico partito di Sturzo, ma su una base allargata agli sviluppi di una società che in vent’anni, in parte a causa del fascismo e in parte malgrado il fascismo, si era profondamente trasformata, e non solo nei rapporti tra Chiesa e Italia.
All’indomani del 25 luglio Gedda offrì l’intero appoggio dell’Azione Cattolica al maresciallo Badoglio. Dietro Gedda, c’era una larga parte dei sacri palazzi, inclini ad un passaggio indolore dal fascismo al post-fascismo, decisi a puntare sulla Monarchia, in senso conservatore e vorrei dire di restaurazione prefascista. Pio XII non era lontano da quell’impostazione. Nei documenti diplomatici vaticani, Sforza era giudicato quasi un «sovversivo», comunque un «indesiderabile» (proprio lui, il ministro degli Esteri che qualche anno dopo avrebbe perorato presso Papa Pacelli la causa dell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, di cui si diffidava in tutti quegli ambienti cattolici che lo giudicavano una «rivincita protestante»).
Il ruolo di De Gasperi nello spezzare i piani di una specie di «clerico-fascismo» mascherato o surrettizio fu decisivo. La ricostruzione della DC (la vecchia insegna di Romolo Murri, meno sgradita oltre Tevere della testata del «partito popolare», legata all’immolazione di Sturzo da parte di Pio XI) costituì lo strumento necessario per fissare un confine fra Chiesa e Stato, per rianimare l’azione autonoma dei cattolici politici, svincolati da ogni suggestione di destra e collocati saldamente sull’area centrale della risorgente vita italiana.
Come nessun altro De Gasperi difese la presenza e l’influenza della DC nei comitati di liberazione nazionale, che pur riflettevano – almeno come echi della resistenza al nord – una presenza molto più massiccia e incisiva della sinistra laica, sia comunista sia socialista sia azionista. Ministro degli Esteri nel governo Parri, De Gasperi pose la naturale candidatura alla guida del governo successivo. Per un anno e mezzo a partire dalla fine del ’45, e nonostante gli stimoli alla rottura che giungevano da settori cattolici e democristiani ben precisi, difese la collaborazione con le grandi forze popolari, socialisti e comunisti, non ruppe e neanche incrinò il patto del CLN, che poi anticipava lo stesso patto costituzionale.
Il capolavoro politico di De Gasperi fu l’articolo 7, l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione repubblicana con l’aiuto determinante del partito comunista (ma non dei socialisti né dei repubblicani). Era quello il prezzo obbligatorio per sconfiggere le tendenze integraliste fermentanti nel mondo cattolico, per garantire il lealismo della Chiesa alla Repubblica. De Gasperi pagò quel prezzo, che non parve caro neanche a Togliatti, fautore convinto e coerente di un minimo di colloquio fra masse comuniste e masse cattoliche al di là delle fluttuazioni governative. La stessa strategia che ha portato trent’anno dopo i suoi successori alla linea del compromesso storico.
La difesa puntigliosa e aggressiva della «centralità» democristiana, rispetto alla sinistra marxista non meno che alla destra qualunquista o nostalgica, consentì a De Gasperi di gettare le basi per un lungo periodo di leadership o di «egemonia» del suo partito. È la parabola che comincia con l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo nel maggio 1947, che tocca il suo apice con la vittoria elettorale del 18 aprile 1948, che si traduce nella complessa e ricca esperienza del centrismo, cioè nella stretta alleanza cono la forze di democrazia laica, repubblicani, socialdemocratici e liberali, sul terreno della lotta su due fronti, contro la minaccia eversiva di destra e contro le ombre del predominio sovietico a sinistra (con lo stalinismo imperante ad oriente e Togliatti immobilizzato nella linea cominformista, e per di più un partito socialista che ha commesso lo storico errore del «fronte popolare» del ’48 e della lista unica, invano contrastata da Pertini e perdente in partenza nonostante la testa di Garibaldi).
Il mancato scatto della legge maggioritaria, nel giugno 1953, segna la fine dell’epoca centrista e anticipa l’agonia politica di De Gasperi, tornato eroicamente alla segreteria del partito dopo sette anni di presidenza del Consiglio (quasi a ricominciare da capo). Il 19 agosto 1954, col governo Scelba-Saragat in carica, la morte di De Gasperi accentua i fermenti di insofferenza e di impazienza della DC. Si inizia d’allora la ricerca di una formula sostitutiva al centrismo, ma sempre in funzione dell’egemonia democristiana, in qualche modo anticipata dall’ultimo De Gasperi, l’alleanza di centro-sinistra, l’apertura ai socialisti (vivo De Gasperi, si sarebbe chiamata l’operazione Nenni).
Il centrosinistra trionferà solo dieci anni dopo la morte di De Gasperi, grazie alla sagace mediazione di Moro. L’unificazione socialista, per un momento, a metà degli anni Sessanta, sembrerà porre in pericolo l’egemonia democristiana, e la correlativa «centralità»: presidente della Repubblica Saragat, vicepresidente del Consiglio Nenni, consegretari De Martino e Tanassi, si delineava una forza socialista autonomista e occidentale capace di richiamare una parte dei consensi moderati sempre affluiti al partito democristiano, in funzione di diga al partito comunista, e quasi in un dialettico rapporto sotterraneo con l’antagonista PCI. Ricordo, prima delle elezioni del maggio ’68, una seria preoccupazione, nella dirigenza democristiana del tempo, di uno «scavalcamento» in prospettiva, da parte dei socialisti unificati.
Nel ’69, la sciagurata scissione socialista restituì tutte le carte alla DC, quindici anni dopo la morte di De Gasperi. Come la DC, ormai privata della guida di Moro, abbia utilizzate quelle carte fra il ’69 e il ’74, cioè il referendum sul divorzio, è storia che non appartiene più alla prospettiva degasperiana. È storia che ci porta direttamente alle tensioni e alle contraddizioni di oggi, a tutte le incertezze e a tutti gli interrogativi sulla centralità e sull’egemonia di domani.
E l’ultimo capitolo è quello accidentato e indecifrabile, che parte dall’assassinino di Aldo Moro e arriva alla crisi attuale. In questo momento ripenso a quanto Moro scriveva in occasione del ventitreesimo anniversario della scomparsa dello statista trentino: «nessuno potrebbe chiedere al De Gasperi del biennio ’45-’47 di darci consigli per il difficile presente». Il presente è ancora oggi insondabile. Il presente e il futuro.
Dall’agosto al settembre 1979, Gonella non era l’uomo da desistere nella polemica. La lunga abitudine ai corsivi battaglieri e infuocati dell’«Osservatore Romano» lo aveva persuaso a non rinunciare mai all’ultimo colpo. Allo scritto di argomento degasperiano ribatté, all’inizio del settembre dello stesso anno, con un articolo in cui respinse l’uso del termine «egemonia» per la democrazia cristiana del secondo dopoguerra e mi accusò di aver mutuato la stessa parola da Bettino Craxi, «il vero inventore del recente uso di questa parola».
Dovetti deludere subito l’amico Gonella. È vero, avevo conosciuto Bettino Craxi dagli anni in cui ero direttore del «Corriere» e l’attuale «leader» socialista non era neppure deputato: dominatore della federazione provinciale del PSI con quel piglio e con quella grinta che lo porteranno dieci anni dopo alla guida del partito, ma cui mi rivolgevo soltanto nelle occasioni in cui veniva a Milano Pietro Nenni, col quale amavo incontrarmi, per la vecchia amicizia mai smentita nata negli anni Cinquanta, cioè negli anni degasperiani in cui si cominciava a parlare, con vena fra ammiccante e malizioso, di «operazione Nenni» (e ricordo una lucidissima, penetrante previsione di Nenni, vicepresidente del governo Moro, incontrato con Craxi all’albergo Cavour di Milano, la vigilia delle elezioni, 19 maggio 1968: «Come socialisti unificati avremo fra novanta e novantacinque deputati: se scatterà la prima cifra saremo alla fine del centro-sinistra e al disimpegno; sulla seconda si salveranno formula e governo attuale». E scattò la prima).
Dovetti quindi chiarire a Gonella che Craxi, nonostante il nostro lontano rapporto, non mi aveva affatto insegnato l’uso dell’«egemonia» nel senso, storiografico e scientifico, in cui l’avevo usato io due volte, al di fuori di sottintesi polemici, che il mio interlocutore continuava ostinatamente ad attribuirmi.
E feci una rivelazione che adesso completerò. L’espressione «egemonia democristiana» l’avevo mutuata, tale e quale, dal maggior statista democristiano dopo De Gasperi, cioè Aldo Moro.
È contenuta esattamente in quel tormentato e profetico discorso ai gruppi parlamentari democristiani del 28 febbraio 1978, quindici giorni prima del terribile rapimento, il discorso che doveva autorizzare, senza lacerazioni e spaccature nel partito di maggioranza, la fase sperimentale del governo a direzione democristiana fondato sulla maggioranza di solidarietà nazionale (un’occasione che è stata sprecata o compromessa per errori di tutte le parti, e non solo del partito comunista, pur responsabile del catastrofico sbaglio delle elezioni anticipate del ’79).
Ebbene: in quell’occasione Moro tracciava il quadro dei rapporti di forze scaturiti dalle elezioni del 20 giugno 1976, quelle elezioni che comandavano una forma di «coesistenza competitiva» fra i due «grandi» della politica italiana, DC e PCI, entrambi in qualche misura vincitori della prova. «Noi abbiamo avuto una vittoria» parole testuali di Moro «ma non siamo stati soli. Anche altri hanno avuto una vittoria; siamo in due vincitori, e due vincitori in una battaglia creano certamente dei problemi».
Moro rievocava in quel discorso, l’ultimo della sua milizia politica, le condizioni di isolamento in cui la DC si era trovata dopo le regionali del ’75, il tentativo di deporla dal «trono» in cui l’elettorato l’aveva collocata come primo partito italiano, il piano ostinato di coinvolgerla in una questione morale, in una specie di processo di piazza, da cui l’altero sdegnato intervento dello stesso Moro alla Camera sul «caso Lockheed» l’aveva salvata.
«Ci siamo comunque trovati» incalzava il presidente del Consiglio nazionale della DC, l’uomo che aveva accettato quella carica senza alcun entusiasmo, che aveva voluto la ripetizione dell’incerto e stentato moto iniziale «ci siamo trovati relativamente isolati: dico relativamente perché non abbiamo un fronte di partiti ostili contro di noi, ma, fatto davvero nuovo, fra questi partiti non c’è il partito comunista». Di qui la necessità di un dialogo con tutte le forze costituzionali, di qui l’esigenza di un «disgelo» fra le formazioni su cui si fondava la legittimità della Repubblica (dialogo, aggiungeva Moro, «cui era giunto un po’ tardi il partito liberale, mentre se ci fosse arrivato prima le cose forse sarebbero state migliori»).
«Non abbiamo perduto in senso proprio l’egemonia» ecco la conclusione che traeva Moro nel suo discorso «ma certamente la nostra egemonia è attenuata» (cfr. la raccolta dei discorsi Nella società che cambia, curata da Giovanni Di Capua, Roma, 1978, p. 319, ma il discorso è stato riprodotto in numerosi altri testi e commentato, sotto il titolo La crisi di un’egemonia, un ritratto di Moro raccolto nella seconda edizione di un mio volume cui il senatore Gonella si richiamava in quei giorni, L’Italia della ragione).

Gli anni di De Gasperi

Escluso che Moro, democristiano coerente e intransigente qual era, difensore orgoglioso del proprio partito nella buona e nell’avversa fortuna, calcolatore attento e quasi spietato delle parole, o meglio delle sfumature e delle gradazioni delle parole, abbia usato il termine «egemonia» nel senso riduttivo o tradizionale di supremazia esclusivista e mortificante che gli attribuiva il senatore Gonella, riecheggiando indirettamente la versione marxista e leninista della parola, che non è la sola. Ed è così poco la sola che un autore caro alla tradizione cattolico-liberale dell’Ottocento, proprio Gioberti, svincola la parola «egemonia» dal suo significato prevalente di supremazia politico-militare per spostarla piuttosto su quello di primato morale e civile, fondato non più sul possesso della forza delle armi quanto piuttosto sulla tradizione e sulla civiltà.
«Egemonia», a questo punto, si identifica con «guida politica», un termine che pure risuonava nello stesso discorso testamentario dell’on. Moro; e nessuno potrà disconoscere che i primi trent’anni della Repubblica si siano svolti sotto governi a guida democratica cristiana.
Cosa c’entra il partito popolare? E come potrebbe reggere il confronto fra le due diverse esperienze? Il partito popolare conquistò il venti per cento dei suffragi nella prima prova elettorale del ’19, non avendo alle spalle un retroterra di partito vero e proprio ma solo una tradizione di laicato cattolico quasi sempre inquadrato negli organi diretti o sorvegliati dal clero. Puntò a certe alleanze, sperò in un’intesa coi socialisti, mandò al governo ministri, anche alla Pubblica Istruzione, come Antonio Anile (dove sta l’intolleranza dell’Italia laica?), ma non guardò mai all’egemonia politica. Il suo massimo obiettivo era di portare i cattolici fuori dal ghetto, di colmare un vuoto, di ristabilire un equilibrio.
La democrazia cristiana, venticinque anni dopo, non solo conquistò immediatamente oltre il trenta per cento dei suffragi, ma si candidò subito a una funzione centrale e di guida della politica italiana, attraverso un’accorata mediazione fra ceti medi di ispirazione liberale e la compatta riserva delle masse cattoliche, non senza la svolta del voto universale femminile. Leo Valiani raccontò una volta che, subito dopo l’incontro con De Gasperi all’indomani della liberazione di Roma, disse: «questo uomo governerà l’Italia per cinque anni». Aggiunse: «Avevo sbagliato di due anni: la governò per sette».
Siamo nel luglio 1979, press’a poco nei giorni in cui Pertini ha conferito il secondo incarico ad un laico nella storia del suo settennato, quello a Bettino Craxi. Si sviluppa una polemica fra Ardigò e Lietta Tornabuoni, circa la crisi della democrazia cristiana e la possibilità di un secondo partito cattolico. Arturo Carlo Jemolo traccia un suggestivo parallelo fra la democrazia cristiana nel trentennio repubblicano e il liberalismo cavouriano nella prima fase post-unitaria. Non manco di osservare al mio grande amico che sarebbe più giusto parlare di liberalismo giolittiano. E spiego il perché.
La Destra storica, erede del Conte di Cavour, obbedì a una missione ascetica del potere e interpretò un settore preciso della società italiana: fu l’età dei notabili, la classe politica degli ottimati, la «République des Ducs» per mutuare a Daniel Halévy l’immagine adatta ai primi anni della terza Repubblica francese. L’allargamento delle basi dello Stato seguì con Giolitti, e su direttrici di «conservatorismo illuminato» o, se preferiamo, di «progressismo moderato»: con un rimescolamento di ceti che, nelle proporzioni oligarchiche della vecchia società liberale, ha qualcosa di simile alle profonde trasformazioni delle fondamenta sociali di questa Repubblica, su una piattaforma di democrazia estranea all’epoca prefascista.
La discussione in corso da anni, ogni giorno arricchita da nuovi apporti, sull’identità della democrazia cristiana, sue prospettive e suo futuro, non può prescindere da questa considerazione di fondo.
La DC di De Gasperi, non meno di quelli di Moro, si collocò al centro della vita italiana, così come il sistema di coalizioni promesse da Giolitti. Rifiutò ogni etichetta di destra o di blocco conservatore, anche quando le pressioni del Vaticano pacelliano – gli anni fra ’50 e ’53 in particolare – rischiavano di annullare le tenaci resistenze di De Gasperi.
Non si piegò alle seduzioni utopiche della sinistra cattolica, anche quando quelle posizioni erano sostenute con l’altezza intellettuale e con la tensione morale di un Dossetti. Respinse la funzione di fronte clerico-moderato non meno delle tentazioni di una sinistra immacolata, alla Cottolengo, per usare ancora le belle immagini di Jemolo, «santuario dove si scorge chi prega con fervore».
Quella DC fu capace di realizzare una mediazione, anche di interessi e di posizioni sociali, cui non poté o non seppe assolvere, alla vigilia del fascismo, il troppo acerbo, troppo puntuto partito popolare, tanto più ideologizzato della DC. Il capolavoro di De Gasperi si identificò nel rifiuto fermissimo di qualunque suggestione salazariana (il mondo cattolico ne era piano, Gedda guardava in quelle direzione, i gesuiti, così diversi da quelli di oggi, premevano per la rottura dell’unità dei cattolici con sbocchi a destra), non meno che nell’«alt» all’ipotesi di un partito sociale-cristiano, proiettato oltre la tutela di un interclassismo vastissimo, abbracciante nella realtà quasi tutti gli strati della società italiana, capace di far convivere le vibrazioni messaniche e millenaristiche delle ACLI con le ansie d’ordine dei ceti moderati e conservatori, parte dei quali attratti, nell’immediato dopoguerra, dal miraggio qualunquista.
Centrismo e centrosinistra si inquadrano, coerentemente, in questa prospettiva. Realizzando il centrosinistra, Moro non rifiutò mai l’eredità centrista. «Un partito di centro che guarda verso sinistra»: la formula tante volte rimproverata a De Gasperi dalla cecità della polemica di destra (che fu furiosa e iniqua contro lo statista trentino) nasceva da una riflessione profonda e adeguata della realtà italiana, a una realtà che escludeva un partito cattolico identificato col polo conservatore non meno che una forma di «socialismo cristiano» subalterno al socialismo laico.
Il «caso italiano» è per tanta parte, in questo trentennio, il caso della DC: un fenomeno peculiare all’Italia, con pochi tratti di somiglianza sia con la DC francese, che si dissolse nell’impatto col gollismo, sia con la DC tedesca, che ha resistito su diverse posizioni ideologiche e su un più compatto tessuto sociale.
L’egemonia democristiana subì in Italia il primo colpo della sciagurata vicenda del referendum sul divorzio. Non a caso la prima «diaspora» cattolica, di qualche importanza e di qualche suggestione nel mondo dei credenti, parte di lì.
I dissidenti iniziano la loro battaglia in quei giorni, in una posizione di estraneità allo scudo crociato che non è scissionismo ma non è neanche rassegnazione (ci vorrà la formula degli «esterni» per riassorbirli). La mediazione di Moro placa quella protesta, che trova radici nelle strutture di base del partito cattolico, soprattutto in certe città del nord, molto maggiori di quanto i diagrammi degli apparati riescano a registrare.
Moro, che non si impegna nel referendum divorzista, che si attiene a una linea di silenziosa e rigorosa neutralità, ha tutte le carte in regola per convogliare quei fermenti nell’alveo, se non nella disciplina di partito, cui sono costituzionalmente refrattari, almeno di una sostanziale convergenza ideologica.
La segreteria Zaccagnini rappresenta un punto di riferimento per l’intero dissenso cattolico. Guardata con fiducia all’inizio, è appoggiata costantemente nel tentativo dell’unità nazionale, che Moro, poi presidente della DC, pagherà con la vita. Il processo di isolamento della DC, di «detronizzazione», come diceva Moro, è interrotto fra il 1976 e il 1977.

Nessuna egemonia culturale

Il bicolore Moro-La Malfa aveva rappresentato la prima accorta mossa di interdizione di un fronte anti-democristiano, che il verdetto referendario aveva messo in moto, quasi identificandolo con l’intero fronte laico (il solo MSI a fianco della DC!); la formula della solidarietà nazionale, sia pure attraverso i passaggi e le gradazioni delle astensioni occasionali e poi contrattate, fino allo sbocco della maggioranza parlamentare, segnò il momento più avanzato della ripresa di iniziativa e di mediazione della DC, in un filo sottile che legava l’intuizione degasperiana a quella morotea.
Con l’emergenza, la DC si ricollocava al centro, come nei comitati di liberazione. Rivendicava la sua «centralità», presupposto di tutti i consensi del passato e del futuro. Logorate tutte le vecchie alleanze, si proponeva come il partito-leader di una formula di salute pubblica, che trovava taluni limiti obiettivi e insuperabili (insuperabili anche per Moro, almeno in questa fase), come la partecipazione diretta dei comunisti al governo.
Il resto è storia vivente: fino alla polemica sui «poli». Occorre però una precisazione finale: l’egemonia politica della democrazia cristiana non coincise mai con un’egemonia culturale. Tale egemonia non si esercitò da parte della DC rispetto ai partiti laici né per il periodo centrista, succeduto al 18 aprile 1948, né per quello del centro-sinistra, che per mille vincoli, di ispirazione ideale, di impostazione pluralista, di mediazione «coalizionista», si collega al centrismo.
Dirò qualcosa di più. Nei governi a prevalente impronta democristiana, non ci fu mai una traduzione delle regole della maggioranza politica in termini, o in sforzi, di maggioranza culturale. Il tentativo di contrapporre una cultura cattolica a una cultura laica durò poco e si limitò, fra il ’47 e il ’50, all’ambiente ecclesiastico, alle punte integraliste dell’Azione cattolica, a qualche filone clericale, molto più che ai nuclei di credenti riuniti all’ombra dello scudo crociato, nel clima dell’arbitrato degasperiano.
È sempre stato difficile parlare in Italia di una cultura cattolica; ma quella che emergeva, all’indomani della liberazione, dal naufragio della guerra e dell’occupazione nazista era troppo legata agli schemi concordatari, alle conclusioni o alle complicità col fascismo, ai crismi e alle benedizioni dell’Accademia d’Italia per potersi affermare con qualche diritto di cittadinanza nel gran travaglio e tormento di revisione che seguì alla Resistenza.
La cultura di Sturzo esule era più vicina a quella dell’antifascismo laico che non alle fonti del cattolicesimo indigeno: non a caso Pannunzio invitò Sturzo a collaborare al «Mondo» e Pio XII si rifiutò sempre di riceverlo. I fermenti, autentici, del cattolicesimo sociale di Dossetti e del gruppo di «Cronache sociali» restarono limitati a settori minoritari di credenti, apparvero quasi una forma di eresia: rispetto alla cultura cattolica ufficiale, quella consegnata nei seminari, nelle case editrici ortodosse, in un mondo dove, con l’eccezione della «Morcelliana», tutto ristagnava in una ripetizione di schemi devozionali alternati a stanchi e logori schemi di potere.
Durante gli anni centristi, non ci fu neanche un serio confronto fra la cultura laica e la cultura cattolica. Fu la prima nelle sue due versioni, la crociana e la gramsciana, che tenne il campo, che dominò la ripresa degli studi, nelle università e non solo in quelle. Nessuna casa editrice importante era cattolica; non ci fu un grande giornale indipendente che avesse un direttore «cattolico» almeno in senso democristiano. Perfino la «filosofia» del centrismo fu più laica che cattolica: talvolta la DC appariva come la maggioranza degli «ascari» giolittiani (e anche il rinnovato mito di Giolitti, fiorente negli anni Cinquanta, ebbe matrici laiche, con avalli pure comunisti). Negli atenei solo i cattolici liberali – variante risorgimentale – erano rappresentativi e operanti: scarse, e quasi segnate a dito, le eccezioni «integriste».
Il partito democristiano avvertì una certa insoddisfazione per una situazione che aveva radici lontane; lo scoppio della collera si tradusse nell’espressione scelbiana del «culturame». Qualcuno segnò di ricostruire l’Accademia d’Italia (ricordo una polemica, asperrima da parte laica, sulle colonne del «Mondo»); qualche altro vagheggiò fondazioni mai nate o si chiuse in isolati fortilizi para-accademici, tipo la «Pro Deo». Di fatto il potere politico, immenso, tentacolare, della DC centrista non si tradusse né in un conforme potere culturale né in uno scontro, diciamo ad armi pari, con la cultura laica (rigurgiti clericali a parte).
La grande svolta, per la cultura cattolica, coincise col Concilio. Non a caso gli anni del Concilio sono gli stessi del centrosinistra. Il dialogo fra laici e cattolici, esaurita l’esperienza centrista, riprese su nuove e più larghe basi. La cultura cattolica cominciò a secolarizzarsi; quella laica acquistò una nuova e più sottile comprensione delle esigenze del mondo della fede.
Solo dopo il ’60 si può parlare di un confronto fra le tre culture, la laica, o democratico-liberale, la marxista e la cattolica (che esce dalla retorica dei seminari o dei Comitati civici, che entra in un tentativo di revisione, con moltissime prevalenti influenze straniere ma anche con qualche apporto originale di casa nostra). Fino e oltre la contestazione.
Il valore della cultura laica, del filone culturale laico, rimane decisivo per la DC come lo fu per il PCI. Non esiste soluzione dei problemi italiani al di fuori di quell’essenziale punto di riferimento. Le tattiche politiche – ognuna legittima – non hanno alcun diritto di cambiare le carte in tavola.
E la disputa sull’egemonia politica potrà continuare all’infinito, senza mai dimenticare che senza il pungolo del fermento critico inseparabile dal laicismo moderno non avremmo avuto né il revisionismo cattolico né il revisionismo comunista, nell’Italia di questi decenni.
Forse il «perché non possiamo non dirci cristiani» di Benedetto Croce potrebbe essere oggi letto, senza forzature e senza stravolgimenti, nel suo apparente contrario: «perché non possiamo non dirci laici». A cominciare dai credenti.


Giovanni Spadolini


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