di Luciano Cafagna – «Mondoperaio», a. XXXI, n. 5, maggio 1978, pp. 71-78.


La crisi del marxismo, di cui oggi si parla, la si può far partire – a mio avviso – tutta da un punto della costruzione teorica di Marx. È un punto essenziale, peraltro, e il più carico di implicazioni pratiche generali. Non è cosa nuova che lo si metta in discussione, e perciò questa crisi crea in taluni uno stato di disorientamento. Bisognerà quindi tentare anche di spiegarsi perché oggi e proprio oggi la lingua torni a battere dove il dente duole. Proverò a farlo a conclusione di queste pagine.
Per esprimersi in termini familiari ai lettori di Marx, si può enunciare il problema in questo modo: l’elemento centrale della crisi è l’idea che la «espropriazione degli espropriatori» comporti anche un fenomeno effettivamente «riappropriativo». Che cosa voglia dire «espropriazione degli espropriatori» tutti i lettori di Marx, o di un qualsiasi compendio del suo pensiero, lo ricorderanno: la borghesia capitalistica è divenuta la classe detentrice dei mezzi di produzione e di scambio attraverso un processo storico di espropriazione di produttori diretti che essa ha così proletarizzato e ha continuato poi, espropriando una gran parte di sé stessa, attraverso la concorrenza e la concentrazione; alla fine il proletariato formatosi da questa espropriazione, ingigantitosi nelle grandi fabbriche, espropria a sua volta nel suo insieme la borghesia capitalistica. Ed è così che gli espropriatori vengono espropriati, per una nemesi dialettica della storia.

Espropriazione e riappropriazioine sociale

Questa previsione-messaggio di Marx, relativa alla nuova espropriazione, si è effettivamente realizzata in una parte del mondo, nella quale la borghesia capitalistica, per quel che ne esisteva, è stata privata delle proprietà dei mezzi di produzione e di scambio e soppressa come classe. Ma nella previsione-messaggio di Marx c’era anche un altro elemento essenziale. Questa nuova espropriazione appariva indissolubilmente legata (benché in modo non troppo chiaro) con una riconquista dei mezzi di produzione da parte dei produttori diretti, ora non più contadini o artigiani come gli espropriati di un tempo, ma operai di fabbrica. Riconquista, dice Marx, con la quale si ristabilisce non la proprietà «privata» del lavoratore ma la sua proprietà «individuale» fondata sulle acquisizioni dell’era capitalistica – la socializzazione generalizzata dei processi produttivi e la concentrazione della proprietà – e quindi sulla cooperazione (nei processi produttivi) e sulla proprietà comune (dei mezzi di produzione).
Marx era stato abbastanza esplicito sul punto della concatenazione di questi due aspetti della rivoluzione proletaria – quello espropriativo e quello riappropriativo – di cui aveva sottolineato la rapidità storica a confronto dei tempi lunghi nei quali si era invece svolta la espropriazione-concentrazione capitalistica. Esplicito, ma, al tempo stesso, contraddittorio e ambiguo nel rapporto fra formule di significato sociale e di significato politico, di significato economico-sociale e di significato economico-tecnico. L’operazione espropriativo-riappropriativa, infatti, è da lui vista come insieme di atti di un potere politico rivoluzionario (una sorta di nuova dittatura giacobina non eroicamente ed illusoriamente prematura come quella del 1793) configurabile come espressione del proletariato, che esproprierebbe non solo in nome ma immediatamente e direttamente a favore di quest’ultimo[1]. Così diventerebbe «sociale» un «modo di produzione» che, come quello su cui si fonda la proprietà capitalistica, in quanto modo di produzione (ma non di appropriazione) è già «collettivo» (Marx usa questa espressione).
Ciò significa che mentre la borghesia capitalistica, nel corso della sua espropriazione, aveva dovuto proprio cambiare il «modo di produzione», il proletariato non deve, invece, cambiarlo. Basta che ne sopprima il carattere proprietario privatistico, rendendolo sociale. Ed è fatta. Ma bisogna, a questo punto, tener conto di una serie di cose. «Sociale», in questo contesto, significa «statale»: tale identità può essere stabilita in quanto lo Stato non è più espressione della borghesia (cioè di una parte) ma del proletariato (cioè, sommariamente, di tutti). Questo stesso Stato proletario è tuttavia un fatto del tutto transitorio. Lo è, però, come fatto «politico sociale», non come fatto tecnico-organizzativo: e qui «politico-sociale» significa sostanzialmente modo di regolazione dei rapporti di classe dove e fin quando questi esistono. Come fatto tecnico-organizzativo, invece, lo Stato non si chiamerà magari più così, ma sopravviverà: continuerà ad esistere, cioè, una struttura organizzativa centrale che dovrà gestire il «modo di produzione collettivo» nella sua nuova versione non più privatistica ma sociale, attraverso una pianificazione.
La riappropriazione «sociale», dunque, avviene per via «politica», ad opera, cioè, di minoranze che si presumono rappresentative, ma sono comunque distinte, in una funzione che concentra un massimo storicamente inedito di poteri. Avviene in due fasi, in ciascuna delle quali – e non solo nella prima – sussiste una struttura centralizzata distinta per la gestione del «modo di produzione collettivo»: in una prima fase con compiti anche «politici», in una seconda solo «tecnico-organizzativi». La natura di tale struttura centralizzata e il rapporto che in essa si può stabilire tra funzioni tecniche, ruoli sociali, status individuali non fu mai oggetto di analisi e di chiarimento da parte di Marx. In realtà, nelle polemiche contro gli anarchici, sia Marx che Engels mostrarono una certa inclinazione a credere nella necessità della persistenza di rapporti autoritario-gerarchico-prescrittivi nella società e nelle sue cellule produttive: in coerenza, del resto, con la loro ipotesi di un futuro sviluppo socialista della produzione e dei rendimenti. Omisero o rifiutarono, tuttavia, di trarre implicazioni di natura «sociale» da siffatta configurazione.

Modo di produzione e rapporti di produzione

La più significativa delle ambiguità terminologiche di Marx riguarda il concetto di «modo di produzione». Egli lo definisce come «le condizioni tecniche e sociali del processo lavorativo», essendo per lui «processo lavorativo» una sorta di formula antropologica generale che descrive il rapporto fra attività lavorativa umana, oggetto sul quale essa agisce e mezzo che essa adopera, cioè «la condizione generale degli scambi materiali tra l’uomo e la natura» comune a tutte le forme sociali, storicamente mutevole, però, nelle sue espressioni concrete. Quindi il «modo di produzione» comprende due tipi di «condizioni» entro cui il processo lavorativo si svolge: quelle «tecniche» e quelle «sociali».
Ma cosa deve intendersi per «condizioni sociali» del processo lavorativo? Marx con ciò sembra alludere a due ordini di relazioni sociali. Da un lato quelle che si stabiliscono all’interno del «processo lavorativo» in senso stretto, come relazione fra i partecipanti a quest’ultimo (e indicante, quindi, il carattere individuale e sociale e il grado di socialità del processo lavorativo). Da un altro lato quelle che si stabiliscono oltre il processo lavorativo in senso stretto, nel «processo di produzione». Quest’ultimo concetto indica per Marx il processo lavorativo non più nella sua astratta purezza ma nel sistema delle relazioni sociali che lo penetrano e lo muovono e finalizzano (alla creazione di valore di scambio, per esempio, o alla «valorizzazione» per conto del capitalista): relazioni che possono essere, quindi, di subordinazione. Sono qui coinvolti, cioè, i «rapporti di produzione»: altra nota categoria del pensiero marxiano, questa pure assoggettata ad una duplicità di usi, uno più ristretto e rigoroso, che è uno «specifico» capitalistico, e uno estensivo, in certo senso analogico, che abbraccia tutti i tipi di società. Anche questa anfibolia interviene a creare quel punto vuoto della costruzione marxiana del quale sto per dire.
Il tipo di esposizione di Marx è prevalentemente morfogenetico: il movimento reale dei fenomeni sociali è rappresentato attraverso l’analisi di mutamenti di «forme» che sono sceneggiati apparentemente alla maniera hegeliana. Per descrivere una data configurazione sociale (in senso lato) egli scompone un assetto antecedente in un sistema di forme semplici e analizza poi le modificazioni subite da queste sotto l’impatto dell’azione di forze storiche reali successive (e qui vi è una differenza rispetto al metodo hegeliano). Si tratta di una tecnica logica molto complessa, in cui non esistono, a stretto rigore, delle meta-nozioni di validità più generale le quali permettano veramente di classificarne altre aventi raggio storico più circoscritto. Quelle stesse categorie che possono, a tutta prima, apparire metanozioni (processo di produzione, modo di produzione, rapporto di produzione) derivano in realtà più dall’incrocio genetico di forme semplici (che sono a loro volta astrazioni «spoglie» che stanno logicamente come lo scheletro all’uomo e non come l’animale all’uomo) e di forme complesse, che non da una generalizzazione di diversi storici aventi proprietà comuni. Un metodo così eroico di astrazioni in definitiva soltanto «storiche» è peraltro difficilissimo da reggere sempre, se non impossibile. E può avvenire così che non solo nella «vulgata» successiva (o nelle esposizioni più «popolari» dell’autore stesso) ma anche nel vivo dei testi più tesi e difficile ci siano dei qui pro quo.
Marx usa spesso, nel Capitale, il concetto di «modo di produzione» sia in un senso che implica i «rapporti di produzione», sia in una accezione che non li implica. La «vulgata» che definisce rigidamente il modo di produzione come l’assieme delle forze produttive dei rapporti di produzione non trova in questi termini riscontro nell’opera di Marx ed è contraddetta dall’uso che di quel concetto egli fa in più luoghi. Ciò avviene in particolare quando egli tratta di situazioni di transizione: (a) il capitalista che subordina a sé il «modo di produzione individuale» (espressione di Marx) dei produttori diretti (come nel rapporto protocapitalistico dei Verlag, dove il mercante capitalista comanda dall’esterno il lavoro di artigiani autonomi), prima ancora di organizzare direttamente la produzione in forme accentrate; (b) il passaggio, cui sopra ho già fatto cenno, del «modo di produzione collettivo», cioè industriale moderno, dalla proprietà e gestione capitalistica a quella socialista. Nel primo dei due casi citati, il «modo di produzione», definito «individuale», non contiene ancora dei «rapporti di produzione»: questi ultimi lo agganciano, per così dire, dall’esterno. Successivamente avverrà la trasformazione completa, e allora Marx parlerà di «modo di produzione capitalistico», in accezione comprensiva, quindi, di «rapporti di produzione».
Ma questo stesso «modo di produzione capitalistico» (e non un altro) può anche essere definito come «collettivo» (cioè industriale, vale a dire fondato sul lavoro associato su larga scala, tipico della industria moderna), cioè mentalmente spogliato dei rapporti di produzione nel cui alveo è sorto, secondo la magistrale descrizione morfogenetica che Marx ne dà, e collegato tal quale in uno scenario nuovo, quello «riappropriativo». Nel secondo dei casi citati, dunque, si parla di «modo di produzione», ancora una volta, in termini che non sono inclusivi di «rapporti di produzione», i quali anzi ne vengono mentalmente espunti. Ed è la volta che più ci interessa, perché stiamo sul nocciolo duro della trasformazione sociale verso cui è intenzionata tutta l’opera di Marx.
Ci sono delle pagine molto efficaci, oltre che nel Capitale stesso, nel materiale inedito e pubblicato postumo, sul primo dei due casi di «transizione» cui mi sono riferito e sulla differenza e passaggio dalla situazione di «sottomissione formale» alla situazione di «sottomissione reale» del produttore diretto al capitalista. Niente di tutto questo esiste, però, per il secondo dei due casi di transizione, per il processo à rebours, quello cioè che dovrebbe restituire al produttore diretto il «modo di produzione collettivo». E non esiste, perché non può esistere, perché, in questo secondo caso, sulla base del materiale logico e di fatto marxiano, la trasformazione non può, puramente e semplicemente, avere il senso di cui Marx parla.

Transizione al socialismo e divisione del lavoro

Per rendercene conto torniamo per un momento a questo uso marxiano del concetto di «modo di produzione» nella accezione non implicante il rapporto di produzione. Si potrebbe pensare che si tratti di una pura ambiguità linguistica, e che Marx intenda talvolta riferirsi al dato strettamente tecnico (qualcosa come «metodo di produzione» nell’accezione usata dagli economisti moderni), a una sola delle due condizioni (le «tecniche» e le «sociali») del processo lavorativo. Ma, come abbiamo visto prima, il «sociale», in questo caso, comprende due ordini di fenomeni: e se uno di questi (quello che si allarga al «rapporto di produzione») entra nell’uno dei due usi ed esce dall’altro, il «sociale» che è invece inerente al processo lavorativo – in quanto questo sia «individuale» o «sociale», cioè «cooperativo», «collettivo» etc. – ci sta dentro sempre, nell’uno uso come nell’altro.
Ora si badi al fatto che mentre quando si parla di condizioni «sociali» del processo lavorativo nel «modo di produzione individuale» (indipendentemente dai rapporti di produzione) si esaurisce il compito alludendo a questa condizione «sociale» di isolamento del processo lavorativo rispetto all’insieme della società, la musica cambia completamente se si passa a parlare delle condizioni sociali del processo lavorativo (sempre nella stessa accezione limitata) per il «modo di produzione collettivo» (o industriale). Come Marx stesso mette in evidenza, lo sviluppo di forme produttive non individuali ma cooperative (nel senso del concorso tecnico necessario e complementare di più lavoratori) comporta una articolazione di funzioni, la enucleazione di «funzioni speciali» (direzione, sorveglianza, collegamento – dice Marx) e, in una parola, una struttura autoritario-gerarchico-prescrittiva, tanto più complessa quanto più sviluppato è il modo di produzione «collettivo». Marx descrive assai bene come questa struttura sia creata di pari passo con l’affermarsi della logica capitalistica nella produzione. Lo descrive tanto bene, con il suo procedimento morfogenetico, che riesce impossibile capire come questa logica, che non ha solo penetrato una struttura ma l’ha plasmata, possa uscirsene all’atto della «espropriazione», come l’anima in una storia di santi raccontata in un polittico medievale.
In verità, l’idea di Marx era proprio che quegli ingredienti autoritario-gerarchico-prescrittivi potessero transustanziarsi trasferendosi al livello di tutta la società. Ma qui la sua logica non morde sulle cose e si limita solo ad esorcizzarle. Per comprendere fino in fondo questa aporia vera e propria del suo ragionamento, bisogna rifarsi a un altro punto importante dell’impianto teorico marxiano, che si connette direttamente con quello da me ora ricordato. Si tratta di quella dialettica fra la divisione «sociale» e la divisione «manifatturiera» del lavoro, enunciata già nel 1847 (in Miseria della filosofia) e ripresa in uno dei nodi vitali dell’edificio del Capitale. La prima di tali due forme (divisione «sociale») è quella che si dirama nell’insieme della società, mentre la seconda (divisione «manifatturiera») si sviluppa all’interno degli ateliers ed è (salvo manifestazioni sporadiche in epoche antecedenti) uno specifico capitalistico. Nella società capitalistica la divisione «sociale» del lavoro non si forma per ruoli assegnati autoritariamente ma in modo spontaneo, in base agli stimoli forniti dal mercato; ha, quindi, carattere anarchico e il suo assetto si definisce continuamente a posteriori, in base ad aggiustamenti ciechi e anche catastrofici. La divisione «manifatturiera» è, invece, il luogo del «dispotismo»: la sua struttura è gerarchica, i ruoli vi sono assegnati di autorità, a priori, l’attività inerente ai ruoli è prescrittiva.
Marx pensava, come è ben noto, in polemica con il naturalismo mercantile diffuso fra gli economisti del suo tempo, che la struttura mercantile non fosse affatto una struttura «naturale», opponibile come tale alla innaturalità delle strutture autoritarie. Tant’è vero – egli sottolineava – che, in primo luogo, sono esistiti modi di produzione nei quali la divisione sociale del lavoro era determinata, per lo meno in prevalenza, con ruoli assegnati di autorità e che, in secondo luogo, il sistema autoritario dispotico della fabbrica si sviluppa proprio sotto l’impulso di meccanismi mercantili che si generalizzano, nulla risparmiando dell’uomo stesso. Egli riteneva, quindi, che il male avesse il suo focolaio proprio nei rapporti mercantili, dai quali si erano venuti dipanando il filo e la tela dei dilaganti rapporti autoritari della fabbrica, fra i più opprimenti e i più innaturali della storia perché distruttivi, fra l’altro, dei caratteri umani tradizionali del processo lavorativo.
Qui si innesta, però, la sua convinzione che dal progressivo generalizzarsi della organizzazione industriale dei processi produttivi si creassero le premesse per un rovesciamento di questo rapporto fra le due forme – quella per così dire organizzata e quella per così dire disorganizzata – della divisione del lavoro. Ciò sarebbe accaduto a un livello storicamente più avanzato e con una sorta di inversione di segno da una società capillarmente dispotica nelle cellule produttive (di cui si avvia ad essere integralmente composta) ad una società complessivamente libera perché – auto-regolatrice «autoritaria» ed unitaria dei suoi processi economici e sociali, sottratti all’arbitrio e alla prevaricazione degli interessi particolari. Un passo di Miseria della filosofia, espressamente ripreso nel Capitale, rivela la filosofia di questa visione: «si può stabilire – scrive Marx – la regola generale che meno l’autorità presiede alla divisione del lavoro entro la società, più la divisione del lavoro si sviluppa all’interno della fabbrica e più essa è sottomessa all’autorità di un singolo. Così l’autorità nella fabbrica e quella nella società, per quel che riguarda la divisione del lavoro, sono in ragione inversa l’una dell’altra».
Questa era, per Marx, la lezione della storia passata. Ma sulla base di tale «regola generale» egli guardava evidentemente anche alla storia futura. La storia futura avrebbe visto il trasferimento dell’autorità dai singoli fabbricanti: e quindi la fine dell’autoritarismo di fabbrica in quanto manifestazione del potere capitalistico. Ma perché questo trasferimento avrebbe dovuto devitalizzare la sostanza dispotica della struttura autoritario-gerarchico-prescrittiva del sistema industriale ormai generalizzato all’intera società? Perché non avrebbe dovuto, invece, potenziarla? Marx conosce bene questa domanda, e la menziona pure, in un contesto che è sarcastico verso i difensori dell’autoritarismo di fabbrica, i quali si preoccuperebbero, proprio loro, dell’autoritarismo diffuso a tutta la società. A quella domanda, però, non risponde. E si badi bene che tutta la sua ipotesi di soluzione dei problemi nell’assetto futuro si basa non certo sullo smantellamento della struttura di fabbrica o su un uso allegro e lassista delle macchine, ma piuttosto sulla esaltazione del rendimento di queste, sullo straordinario sviluppo di forze produttive, e quindi di beni e servizi disponibili, che sarebbe reso possibile dalla eliminazione della anarchia capitalistica.
In realtà, nella analisi di Marx, ci sono le premesse per giungere a una conclusione diversa da quella cui egli tendeva. Ma la dialettica è evidentemente uno strumento logico infido. E la «negazione della negazione» può generare, come è accaduto, un parto mostruoso: una espropriazione senza riappropriazione.

Burocrazia e dispotismo

Cosa può divenire, infatti nella realtà (che è quella nei cui segreti Marx fino a un certo punto ci conduce per mano) la espropriazione degli espropriatori, se si prescinde dai verbalismi dialettici? Non certo il ritorno «in proprietà» dei produttori diretti un tempo espropriati, i quali non ci sono più perché gli espropriatori capitalisti li hanno nel frattempo sostituiti con gli operai salariati, terminali di una struttura autoritario-gerarchico-prescrittiva, altamente programmata al suo interno, con grado di libertà produttiva, per quei terminali, tendente allo zero (la libertà-zero della macchina).
Quale nuova situazione può allora crearsi? Sopraggiunge un’altra classe che non era stata «vista» da Marx? Molti hanno tentato di dare una spiegazione di questo tipo. Ma, a mio avviso, si tratta di una approssimazione inadeguata, che concede troppo a una soddisfazione meramente analogica, una fiacca estrapolazione da marxismo popolare, la quale vuole «classe dominante» dopo «classe dominante». Ci si smarrisce allora in discussioni di poco respiro – e che non hanno alcuna capacità interpretativa nei confronti di degenerazioni terrificanti – circa la sostituzione di una «burocrazia» alla borghesia. Si perde di vista il fatto che la burocrazia è, in fine dei conti, un modo di stratificazione sociale di natura diversa da quella fondata su condizioni giuridiche; è, inoltre, una stratificazione gerarchizzata che riesce difficile definire nel suo insieme come «dominante»; ed è, infine, una stratificazione trasmissiva di comando e non autogeneratrice di potere. Ché se i vertici di una burocrazia si rendono autonomi rispetto ad ogni altra fonte di potere, allora si tratterà di altra cosa che non di una burocrazia: potremo anche parlare di una «burocrazia autonoma», ma stiamo parlando di qualcosa di diverso. La burocrazia può essere, in sostanza, definita come la forma di stratificazione sociale interna alle strutture autoritario-gerarchico-prescrittive. Queste, a loro volta, possono essere parte più o meno grande di sistemi più complessi, come sotto-sistemi che devono rispondere a qualcuno dotato di potere, ma di un potere la cui fonte ha un titolo diverso. Oppure può accadere che una struttura autoritario-gerarchico-prescrittiva sia tutta la società. In questo senso è ingannevole ed eufemistico parlare di burocrazia, bisogna parlare di dispotismo. Burocratico sarà il sistema di rapporti, cioè autoritario-gerarchico-prescrittivi, non la «classe dominante».
Il pensiero stesso di Marx suggerisce, per la comprensione della storia, tracciati più complessi e irregolari di quelli da lui stesso enunciati in alcune celebri ma troppo schematiche semplificazioni. In questo caso si può forse dire che, con i suoi percorsi ambigui, e interrotti nei punti più angosciosi, suggerisca, per la comprensione di una realtà restata fuori dalle sue previsioni, l’esplorazione di una ipotesi non rigorosamente classista (nel senso marxiano proprio di questo termine). Suggerisce che si possa pervenire (e si è infatti poi pervenuti), a espropriazioni accompagnate da riappropriazioni «anonime», da parte di strutture autoritario-gerarchiche in quanto tali. Queste possono essere unificate, sottomesse o compenetrate, da gruppi di natura politica o di natura militare, da despoti o da oligarchie. Sua base resta però un «modo di produzione» invariato rispetto alla intervenuta espropriazione dei capitalisti, e nel quale, in particolare, i terminali operai rimangono al solito posto a fare le solite cose nel solito modo, salariati come prima e, magari, peggio di prima.
L’omissionismo marxiano su questo punto nasce probabilmente dalla sovrapposizione di due ordini di convinzioni che si muovono a livelli diversi. Uno è quello della utopia «scientifica» che egli crede di poter ricavare dalla sua analisi dell’industrialismo e che lo induce a pensare in una prospettiva che è più quella di una società «di macchine» che non quella di una società «di organizzazione», fatta più di automatismi, cioè, che di processi decisionali. L’altro è materiato dalla persuasione che occorre di fatto un periodo di formazione «dall’alto» degli uomini e delle convinzioni perché sia possibile comunque immaginare una società industriale nella quale gli operai possano cominciare ad avere spazio per agire, sia pure parzialmente, come uomini e non come semplici appendici di macchine.
Egli sembra pensare, in effetti, che il «modo di produzione collettivo», al suo più alto grado di sviluppo, sia qualcosa di molto simile a un grande meccanismo, dotato di connotati sociali conflittuali solo in quanto, e fino a quando, esso è rinchiuso nell’involucro capitalistico che lo ha generato, per divenire, invece, non appena liberato da questo, un meccanismo e basta, al servizio di liberi individui associati che dovrebbero mettersi d’accordo sui turni di sempre più brevi giornate lavorative, nel corso delle quali applicare attitudini sempre più generiche e fungibili. Una sorta di situazione georgica industriale, i cui ritmi sarebbero scanditi dalla natura artificiale di un meccanismo programmato una volta per tutte e in modo non conflittuale.
Il presupposto di tutto ciò è dato dall’idea che Marx nutriva, di un superamento «tecnico» della necessità della divisione manifatturiera del lavoro a seguito dell’affermarsi e generalizzarsi del macchinismo. Qui Marx probabilmente faceva derivare dalla semplificazione delle operazioni manuali una semplificazione organizzativa della produzione, che lo induceva a sottovalutare le prospettive di crescita della divisione del lavoro che sono invece inerenti alla complicazione organizzativa.

Un’alternativa alla rivoluzione

Marx stesso, dal canto suo, aveva però sottolineato d’altra parte che la sostanza di una struttura autoritario-gerarchico-prescrittiva è il dispotismo. Ci si può chiedere se, al fondo del suo pensiero – immaginando per l’immediato un utilizzo integrale delle potenzialità dispotiche di una società a una sola dimensione di divisione del lavoro – non celasse una analogia storica con precedenti storici di «dispotismo progressivo». Se un elemento di questo genere in lui – come io suppongo – vi è, esso è però surrettizio, ed estraneo alla linea logica che si può ricavare dalla parte positiva della sua costruzione. È – come cercherò di dimostrare – un detrito derivante da una visione disperata, rilevatasi non fondata. Di fatto un «dispotismo progressivo» nella storia si è manifestato sempre e solo nella forma di un super-«contropotere» centrale, per così dire, contro solidi dispotismi particolari persistenti nella società. Il dispotismo che nasce in linea logica dalla costruzione marxiana è, invece, un dispotismo che ha tutto il potere possibile e di fronte più nessun «boiardo» di sorta. Marx, tuttavia, dà proprio l’impressione di porsi, assai spesso, proprio nell’ottica di una invocazione di super-«contropotere». Cerchiamo di vedere se si possa sostenere qualcosa di simile.
Non vi è nessuna ragione, credo, ancora oggi, per rifiutare i termini generali della analisi svolta da Marx sulla natura del capitalismo e sulla natura della condizione operaia creata dal capitalismo. Le stesse previsioni a grande formato di Marx sulle tendenze generali di sviluppo della società capitalistica, l’anarchismo nello sviluppo delle forze produttive, la concentrazione nelle strutture economiche, il progressivo estendersi della forma autoritario-manifatturiera nella società civile, la diffusione del rapporto di lavoro subordinato, il carattere altamente conflittuale dei rapporti sociali derivanti da questi aspetti dello sviluppo delle strutture economiche, son tutte cose che, dalla verifica degli eventi, escono sostanzialmente confermate, benché «a larghe maglie», come ingredienti di uno scenario e non come puntuali parti di un meccanismo che stia poi funzionando con precisione nel modo previsto. E non vi è alcun bisogno di insistere criticamente sul fatto che alcune previsioni di questo tipo – per esempio in materia di immiserimento crescente della classe operaia, o di catastroficità delle crisi economiche – non hanno trovato conferma. Anche queste tendenze esistevano realmente. Nessuno ha mai graziosamente regalato aumenti salariali alla classe operaia, e quanto alla gravità e drammaticità delle crisi economiche la storia, dopo Marx e fino ai nostri giorni, non ha lesinato in materia. Solo che queste tendenze non operavano nella inerzia delle parti interessate.
Il problema è dunque un altro. Una volta passato il momento in cui per l’apartheid operaia sembrava non esistere altra possibilità di sblocco che un’esplosione e la creazione dall’alto di condizioni riscattatrici, il conflitto fondamentale che Marx aveva individuato nella società contemporanea ha imboccato altre vie di regolamento. Non le definirei neanche gradualistiche o riformistiche, poiché queste espressioni lasciano intendere che si pensi a una sorta di avvicinamento per gradi a un obiettivo invariato, oppure a uno «sconto» su tale obiettivo. Si tratta di qualcosa di completamente diverso: di una forma di regolamento non definitiva, ma aperta e continua, che chiude problemi e ne pone di nuovi, e va molto al di là dell’obiettivo rivoluzionario di un tempo, i cui contenuti empirici non utopici, per quel che è dato ricostruirne, sorprendono per la loro modestia.
Non può certamente piacere ai mitologi della rivoluzione, ma il fatto fondamentale che si è verificato dopo Marx, nelle società industriali, non è una diminuzione del sentimento di urgenza di una rivoluzione, o una maggiore difficoltà a «farla». (Forse, sebbene in un senso che non ha più nulla a che vedere col marxismo, queste due cose non sono neanche vere). È, invece, che una rivoluzione non è in grado di dare di più di ciò che può conseguirsi per la via della continuità conflittuale. Piuttosto di meno.

La dittatura come operazione pedagogica

La rivoluzione di Marx si commisurava ad una situazione in cui la stretta capitalistica sulla classe operaia poteva effettivamente apparire soffocante e senza spiragli, essendo la classe operaia al limite di sussistenza come condizioni di vita e, in certo senso come conseguenza stessa di questo, impossibilitata ad esistere in termini di presenza politica effettiva, in grado soltanto di esplodere rivoltosamente, con l’aiuto di un momento di caos dovuto alla «anarchia» capitalistica. Se ci si vuole dare una ragione empirica di quella operazione espropriativamente chiara, ma riappropriativamente nebulosa, ipotizzata da Marx, bisogna probabilmente «mettersi nei panni» di una situazione totalmente diversa da quella di cui abbiamo esperienza. Tale, cioè, da non lasciar vedere altra via di uscita che una dittatura giacobina di volenterosi, avente una missione di démarrage, volta a formarla, la classe operaia, e darle quel tanto di tempo libero e di istruzione, che le consentisse di cominciare ad avere voce in capitolo negli affari della società. Per lui, insomma il regime esistente non lasciava spazio per un progresso democratico delle classi lavoratrici (salvo che negli Stati Uniti d’America; però, via via, col trascorrere dei decenni Marx ed Engels finirono con l’allargare le eccezioni) la sua dittatura – una soluzione di altissimo contenuto di rischio neo-usurpativo – è comprensibile solo in riferimento a una situazione disperata. Per Marx ciò era una eredità ideologica dei circoli rivoluzionari dei decenni precedenti, alla quale egli non riuscì ad agganciare scientificamente il suo monumentale impianto analitico, che resta evanescente su quel punto, suggerendo piuttosto tutt’altre conclusioni.
Nella visione di Marx, insomma, poteva apparire necessaria una «espropriazione degli espropriatori» per ottenere, mediante successive operazioni dall’alto, (e allora non immaginabili ancora efficacemente in forma diversa da così), da parte di una minoranza risoluta e illuminata, risultati sociali in fin dei conti iniziali, e quindi assai più modesti di quelli che nei decenni successivi si conseguirono sotto la spinta delle lotte sindacali e della pressione dei lavoratori politicamente organizzati per una legislazione sociale. Si deve pensare, cioè, che la base di riferimento reale fosse una situazione così arretrata da indurre a ignorare di fatto, per l’immediato, ogni prospettiva di gestione diretta di potere – in una qualsiasi forma – da parte della classe operaia così come, nel presente prerivoluzionario, era impossibile una vera partecipazione politica della classe operaia. Marx ci dice esplicitamente che compito primo del nuovo potere sarebbe stato di mandare a scuola la classe operaia: una ineliminabile visione paternalistica era inerente a questa impostazione. Si costringeva a dimenticare la lucida intuizione delle sue Tesi su Feuerbach: gli educatori stessi devono essere educati. Se la catena del processo pedagogico reciproco e iterativo della storia si spezza, qualcuno finirà con l’afferrarne un capo e con il tirarlo arbitrariamente e ineducatamente. Le circostanze storiche furono poi tali da accentuare addirittura smisuratamente questo aspetto.
Come è noto, Marx fu sempre assai parco di indicazioni concrete sulle caratteristiche della società che sarebbe derivata dalla operazione neo-espropriativa e abolitiva dei conflitti di classe: ma quelle poche che se ne trovano appaiono incredibilmente moderate a confronto di ciò che la prosecuzione della lotta di classe, sviluppando il duplice dinamismo contrapposto degli imprenditori capitalistici e dei lavoratori organizzati, ha consentito. Nella realtà si è imposto come più vitale un modello soppressivo. Il modello continuativo, e tout court conflittuale, ha aperto lo spazio a una dialettica avanzata di pressione sindacale e dirigismo economico-securistico che ha determinato – benché con alterne vicende – sostanziali mutamenti nella vita materiale e culturale della classe operaia. Il modello soppressivo non ha soppresso la condizione salariale, ma solo la libertà di organizzazione a sua immediata difesa, e ha reso meno elastiche le condizioni di sviluppo, producendo poco più che un securismo sociale a basso livello nel quadro di modelli di vita che sono risultati solo imitazioni faticose e povere, molto ritardate nel tempo, di quelli dei paesi a situazione conflittuale, e in un quadro di privazione pressoché totale di libertà.

La via conflittuale al socialismo

La dogmatica marxista, anche quella più raffinata, non è disposta naturalmente ad ammettere qualcosa di simile. Essa inclina sempre, come per una ineluttabile forza di gravità teologica, a ricondurre tutto ciò che accade nel mondo, finché in esso operi il capitalismo, a una logica pura del «sistema» la quale terrebbe sempre in mano le fila di ogni svolgimento. Ora è proprio questa visione integralistica e totalitaria della storia dell’età del capitalismo, come storia del capitalismo (e tutto è capitalismo o tutto è socialismo), che non ha retto nella previsione marxiana. Marx stesso, di fronte a certi limitati sviluppi positivi delle lotte sociali del suo tempo, usò formulazioni sconcertanti che contraddicono una siffatta logica totalitaria. Arrivò a parlare di successi della «economia politica della classe operaia» rispetto alla «economia politica della borghesia», la prima essendo l’economia della «produzione sociale diretta dalla previsione sociale» e la seconda quella della «cieca legge della domanda e dell’offerta». Si trattava degli inizi di una regolamentazione limitativa della giornata di lavoro e dei primi sviluppi di un movimento cooperativo (indirizzo inaugurale all’Associazione internazionale dei lavoratori, 1864). Nel Capitale parla della legislazione sulle fabbriche come di una prima reazione pianificatrice della società. Dunque per lui l’«economia politica della classe operaia» non era per dogma impossibilitata a trovare le sue affermazioni indipendenti nello stesso mondo dominato senza contrasti dalla «economia politica della borghesia». La regolamentazione della giornata di lavoro poteva essere un elemento di prescrizione sociale (e perciò socialista) e il movimento cooperativo una produzione-appropriazione sociale (e perciò socialista).
Questa idea marxiana della compresenza conflittuale delle due «economie politiche» potrebbe – come taluni hanno fatto – venire collocata in una sorta di «nuovo corso» del pensiero di Marx, definitosi nella seconda metà del 1850, quando egli ruppe con la Lega dei Comunisti e preconizzò, in luogo di una prematura presa violenta del potere, una lunga «guerra civile» educativa della immatura classe operaia, durata di molti decenni. È probabile che quella «guerra civile» fosse una metafora e che egli recuperasse qui interamente lo spirito della sua terza «tesi su Feuerbach». Ma c’è in ogni caso da restare in dubbio sulla effettività storica di questi «due tempi» del suo pensiero. È preferibile, e più prudente, parlare di oscillazioni, e immaginare che esse fossero collegate all’andamento delle sue osservazioni e valutazioni, sia sulle possibilità offerte dalla evoluzione economica e sociale, sia – perché no? – sulla natura del materiale umano di cui si componevano le minoranze rivoluzionarie che avrebbero dovuto preparare il pranzo della «riappropriazione».
In ogni caso da quella idea del 1864 si può derivare, a mio avviso, anche la giusta soluzione del problema, che ancora oggi ci si pone, dell’atteggiamento socialista di fronte al mercato. Mi pare indubbio che la sostanza dei principi socialisti sia di natura opposta a quelli della economia mercantile. Si tratta però di vedere se questa opposizione debba essere intesa in senso soppressivo oppure no. Rispondere affermando la superiore fecondità del conflittualismo significa anche rispondere a questa domanda. Interesse socialista è non la rivendicazione del mercato, ma la salvaguardia delle condizioni dinamiche ottimali per una conflittualità avanzata e dotata di sbocchi. Questo interesse è parte integrante dell’interesse socialista a mantenere condizioni pluralistiche nel regime politico. E quindi è parte integrante dell’interesse della classe operaia alla preservazione di condizioni politiche che consentano l’esercizio della propria conflittualità. Ma è anche parte integrante dell’interesse della classe operaia alla preservazione delle condizioni economiche che consentano i migliori risultati per l’esercizio di tale conflittualità.
Il principio della «prescrizione sociale» (e della programmazione ai fini sociali: piena occupazione, più equa distribuzione del reddito, legislazione e servizi sociali) è un principio socialista, ma la sua applicazione non può essere concepita in astratto, come affermazione di principio, bensì in funzione dei migliori risultati. Se così non fosse, si finirebbe rapidamente in quella che Marx, con espressione risolutiva, chiamò una volta «la vecchia merda». Non può quindi neanche essere coltivato come gradualismo verso una finalità soppressiva. Per il socialismo, dovrebbe essere chiaro, la soppressione degli antagonismi equivale alla sua propria soppressione. In questa chiarezza – per il duplice concorso delle esperienze negative di soppressione e positive di lotta antagonistica «continua» – sta la «crisi del marxismo».

La crisi del welfare state

Come ho detto in principio non è da oggi che questi problemi sono in discussione e che quindi il marxismo è in «crisi». Ma negli ultimi anni sono maturate circostanze che hanno riproposto più acutamente questa verifica del marxismo. Lo hanno posto a nuove generazioni e più numerose (i «nouveaux philosophes» non sono che l’espressione del momento di ripiegamento critico di una nuova generazione). Tali circostanze sono, a mio avviso, di tre ordini: il primo è il giudizio del tempo e dei documenti sui risultati dalla rivoluzione bolscevica del 1917, il trascorrere dei 60 anni (quanti ne separano l’Inghilterra di Marx da quella di Keynes); il secondo è l’ascesa e la caduta della speranza in esperimenti successivi a quello sovietico. Si tratta – come nel caso della Cina – di fenomeni storici di portata amplissima. Ma qui conta l’universalità di una lezione, e non che per vie drammatiche e contraddittorie taluni paesi affrontino il problema della propria arretratezza.
Ma vi è, in aggiunta a tutto questo, un terzo ordine di circostanze, sul quale converrà approfondire la riflessione. Nei paesi industriali nei quali aveva avuto luogo è probabilmente giunta al termine la fase di quella vicenda conflittuale che possiamo chiamare la rivoluzione socialdemocratica, comprendente l’apporto anche di movimenti operai essenzialmente sindacali e non politici, nonché di forti movimenti comunisti che si sono mossi di fatto nell’alveo di una azione di tipo socialdemocratico, a contenuto prevalentemente sindacalista e riformista.
La crisi dell’ipersindacalismo salariale, dello stato di benessere, del keynesismo occupazionale, ha determinato, a un certo punto, un improvviso salto nella immaginazione rivendicativa di avanguardie. Così, se da un lato si sono cominciate a criticare a fondo le soluzioni meramente soppressive della lotta di classe, dall’altro si è avviata la esplorazione di nuove vie al conflittualismo, alla ricerca di una risposta diretta agli interrogativi lasciati in sospeso da Marx. Sono i problemi della contrattazione gestionale, della democrazia industriale, della fluidità dei ruoli nella divisione del lavoro. Così l’analisi della condizione operaia svolta da Marx ha finito con l’opporsi alle conclusioni che a quelle analisi egli giustappose «dialetticamente».
Resta da vedere de questo movimento dovrà restare oggetto di sperimentazione-riflessione in un ambito utopistico ed estremistico, condannandosi ad entrare in corto-circuito con quelle che ho sopra chiamato le «condizioni capaci di consentire i migliori risultati per l’esercizio della conflittualità», oppure potrà prendere, con l’opportuno favore di circostanze, una ampiezza pari a quella che ebbe la esaurita rivoluzione socialdemocratica. Forse è questo il compito che attende il movimento socialista dei paesi occidentali (e quello comunista se e in quanto scelga di farne integralmente e definitivamente parte), se le condizioni generali in cui si svolge la storia della umanità nei tempi che attraversiamo glielo consentiranno.


Nota bibliografica

In questa nota si richiamano i luoghi fondamentali dell’opera marxiana ai quali viene fatto riferimento nel testo, quando non siano già stati indicati esplicitamente in quest’ultimo.
Il testo essenziale sulla «espropriazione degli espropriatori» come «negazione della negazione» si trova in MARX, Il Capitale, libro I, cap. VII, par. 7, dove viene ripresa, a 19 anni di distanza, una tesi che già compariva in fine dal cap. I del Manifesto dei comunisti.
L’accenno al ristabilimento della proprietà «individuale» del lavoratore compare nel testo sopra menzionato e si rifà evidentemente a uno svolgimento di pensiero antecedente, quello della Ideologia tedesca (1845-46), cap. I, par. 3 e, per essere compreso, deve essere inquadrato nelle vedute allora esposte da Marx intorno alla soppressione della divisione del lavoro, attraverso la quale rinasce il lavoratore come «individuo».
La «dominazione politica» del proletariato di cui si parla già nella ideologia tedesca e poi nel Manifesto si precisa come «dittatura del proletariato» nell’Indirizzo al Comitato Centrale della Lega dei Comunisti del marzo 1850. L’analogia con la dittatura giacobina può essere formulata in quanto si tenga presente che quest’ultima fu un punto di riferimento critico fondamentale nella formazione delle idee politiche di Marx, il quale da giovane ne criticò le illusioni, ma nello spirito di chi stava per dedicarsi alla ricerca delle basi reali (che si definiranno come basi di classe) sulle quali quelle illusioni avrebbero potuto finalmente, in futuro, non essere più tali.
Alle due fasi della «forma-Stato» nella società post-rivoluzionaria Marx accenna (e non fa più che accennare) nella Critica al programma di Gotha (1875), par. IV.
Gli scritti principali sull’anarchismo di Marx e di Engels sono degli anni 1973-74, e sono stati più volte raccolti insieme.
L’analisi del «processo lavorativo» è condotta da Marx nel Capitale, libro I, sez. III, cap. 5.
La definizione, peraltro generica ed occasionale, di cosa Marx intenda per «modo di produzione» si trova nel cap. 10 del libro I del Capitale (sez. IV). Questa nozione – fondamentale e mai veramente analizzata dagli esegeti – trova impiego in tutta l’opera matura di Marx, sia nella accezione globalistica che in quella ristretta. Per quest’ultima i passi più importanti si trovano nel Capitale, libro I, sez. II, capp. 8 e 9; sez. IV, cap. 13 e poi nella sez. VII, cap. 24. Nella traduzione francese Roy, che fu rivista da Marx, l’espressione Gesellschaftlich Betrieb (esercizio sociale della produzione) riferita alla produzione capitalistica, e già di per sé eloquente, viene addirittura resa come «mode de production collectif».
Sulla distinzione fra sottomissione formale e sottomissione reale del produttore diretto al capitale il testo più ampio è offerto nel Capitolo VI inedito del Capitale, libro I.
La analisi della genesi capitalistica dell’industrialismo si legge nel Capitale, libro I, sez. IV, cap. 13.
La duplicità delle forme fondamentali della divisione del lavoro viene esposta per la prima volta in Miseria della filosofia (1847), cap. II, par. 2 e ripresa nel Capitale, libro I, sez. IV, cap. 14, par. 4.
I contenuti empirici della futura condizione operaia vengono accennati qua e là nel Capitale. P. es. nella sez. IV, cap. 13, par. 9.
La «vecchia merda» la quale «ritornerebbe con forza» se nella futura società non venisse assicurato un grande sviluppo delle forze produttive è evocata nella Ideologia tedesca, cap. [?], par. 1.

https://musicaestoria.wordpress.com/...marxismo-1978/



[1] Credo sia difficile avere dubbi – come talvolta è accaduto – sul fatto che la «dittatura» di cui parla Marx non sia tale in senso specificatamente politico (e non solo come sinonimo di dominio di classe, nel qual caso si andrebbe alla solita notte in cui tutte le vacche sono nere e tutte le società divise in classe dittature).