Tavola rotonda: Paolo Alatri, Gaetano Arfè, Luciano Cafagna, Sabino Cassese, Renzo De Felice – In «Mondoperaio», marzo 1975, pp. 40-45.

Il quarto volume della biografia mussoliniana, Il duce. Gli anni del consenso, uscito di recente per i tipi dell’editore Einaudi, costituisce un momento importante dello sforzo di interpretazione in gran parte originale che De Felice conduce da tempo sugli anni in cui il regime fascista si affermò. Il suo lavoro ha stimolato, talvolta provocatoriamente, studi sempre più frequenti sull’argomento. È fuori di dubbio, e Mondoperaio ne è stato partecipe, che si tratta di un interesse culturale e storiografico che nasce tutto intriso dei problemi dell’oggi.
Il libro di De Felice, come i suoi precedenti, è stato immediatamente al centro di discussioni e polemiche. Abbiamo dunque ritenuto opportuno farne l’oggetto di una tavola rotonda a cui abbiamo invitato, oltre all’autore, Paolo Alatri, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Messina, Gaetano Arfè, direttore dell’Avanti! e Sabino Cassese, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Napoli. Per Mondoperaio ha condotto il dibattito Luciano Cafagna.

Cafagna – Nel corso del lungo iter compiuto da De Felice nella sua ricostruzione della biografia mussoliniana, siamo adesso arrivati a quelli che lui definisce «gli anni del consenso», il periodo che va dal 1929 al 1936. Può sorprendere che il fascismo abbia goduto di un consenso, ma credo sia innegabile. Ora c’è da chiedersi di quale consenso si tratta. Un consenso che riguarda la maggioranza della popolazione? O invece un fenomeno di natura sociologica, un consenso prevalentemente manipolato, catturato?

Alatri – Vorrei mettere prima di tutto in evidenza il fatto che Renzo De Felice, centrando questo quarto volume della sua biografia mussoliniana sul consenso, ha colto una tendenza che si è venuta facendo strada negli ultimi anni nella storiografia relativa al fascismo, la tendenza cioè ad abbandonare certi schemi propagandistici dell’antifascismo e a guardare più a fondo nella realtà di questo regime. E De Felice non soltanto ha colto questo elemento del consenso, ma ha portato alla luce una mole di documentazione veramente imponente.
Che si sia potuto individuare un periodo del consenso non è poi così sorprendente. Si tratta di un tema che era affiorato all’attenzione generale degli studiosi in questi ultimi anni, dico in questi ultimi anni, perché come è noto la storiografia relativa al fascismo per molti anni ha indugiato sul problema delle origini, portando scarsa attenzione a quello che invece è stato poi il regime fascista come tale.
Ora, il consenso che il fascismo indubbiamente è riuscito ad ottenere, in misura maggiore o minore a seconda dei periodi – e certamente il periodo studiato ora da De Felice è quello in cui il consenso è stato maggiore – è un consenso che ha avuto una dimensione larga ma delle basi fragili. Questi due elementi sono stati messi in rilievo da De Felice: sia la larghezza della base del consenso, sia anche una certa sua gracilità.
Che tipo di consenso, chiedeva Cafagna. Certo un tipo di consenso che era manipolato, sia su scala interna, sia a livello internazionale, e che non sarebbe stato possibile senza gli strumenti di cui il regime dittatoriale disponeva.
Qui io individuerei un motivo di insoddisfazione che il libro ha lasciato in me da questo punto di vista. Perché, mentre De Felice ha presentato una vastissima panoramica di quello che possiamo chiamare il filo-fascismo internazionale, ha lasciato in ombra l’altra faccia della medaglia, cioè l’antifascismo.
Non so se questo dipenda dal fatto che De Felice intende affrontare via via i temi man mano che questi temi diventano centrali per il periodo che di volta in volta egli affronta. Certo è però che già in questi anni, e per tutto il periodo del fascismo, quella che ho definito l’altra faccia della realtà, l’altra faccia della medaglia, è pure notevole, è pure importante.
Ora, che questo antifascismo sia totalmente o quasi totalmente assente dalle pagine del libro di De Felice, rappresenta una debolezza ai fini dell’individuazione di quello che lo stesso De Felice indica come fragilità delle basi del consenso.

Del resto l’autore tende a minimizzare questo aspetto. Per esempio, nega alle agitazioni che ci furono in quegli anni un carattere politico. Lo dice a pagina 98, e a me questo sembra un giudizio, sì coerente con l’impostazione di cui dicevo, ma un giudizio che francamente non mi sentieri di sottoscrivere.
Arfè – Ricordo che poco meno di trent’anni fa Benedetto Croce diceva a noi giovani, all’istituto storico di Napoli, che sarebbe venuto il momento di fare la storia del fascismo, perché questa storia andava fatta col dovuto distacco. E aggiungeva: se mi domandate perché non la scrivo io questa storia, vi dico che non la posso scrivere perché io il fascismo lo odio proprio.
Ora, con questo non voglio affatto dire che De Felice ami il fascismo, dico che De Felice ha avuto il grande merito di essere stato il primo degli studiosi della nostra generazione ad affrontare il problema del fascismo con distacco storico, e da questo punto di vista egli ha aperto veramente una prospettiva nuova agli studi storici sul fascismo. In particolare, poi, per questo tema di cui stiamo conversando adesso, il periodo degli anni del consenso, il fenomeno del consenso, direi che la valutazione di un consenso va fatta con criteri diversi a seconda del tipo di regime. Esiste indubbiamente questo filone centrale del fascismo. Però esiste anche il fatto che accanto a questo consenso più o meno spontaneo ci sono altri tipi di consenso.
C’è un consenso che viene estorto attraverso la manipolazione degli strumenti propagandistici, e questo è un dato nuovo della storia dei regimi politici moderni, il fatto di un regime che attraverso il monopolio degli strumenti di informazione riesce anche ad estorcere un consenso che si aggiunge al consenso ottenuto spontaneamente. In questo Mussolini è stato indubbiamente maestro, è stato un inventore delle formule attraverso le quali si riesce ad ottenere, a organizzare questo tipo di propaganda. Mussolini era appunto il grande propagandista di se stesso, capace di inventarne una ogni giorno. Accanto a questo, credo che un altro elemento si debba tenere presente in questa fase della storia italiana, e cioè il grado di partecipazione relativamente basso alla vita politica. Più che di consenso, si dovrebbe parlare spesso di un atteggiamento passivo nei confronti del regime.
L’altro elemento che vale la pena tenere presente, ne accennava Alatri, è che in questo periodo mancano gli organizzatori del dissenso: o sono all’esterno o sono in galera o operano clandestinamente. Chi non era d’accordo, non aveva nessuna possibilità di far sentire la propria voce.

Cassese – Il tema del consenso non è nuovo in questo volume della biografia di Mussolini. In realtà il tema del consenso è un motivo dominante di tutta la ricerca di De Felice. Nel volume precedente questa ricerca si svolgeva intorno al tema della continuità rispetto allo Stato precedente, allo Stato liberale, e intorno alla interpretazione della delimitazione del ruolo dei fascisti e dei fiancheggiatori del fascismo.
Qui mi sembra che De Felice introduca un motivo nuovo: l’allargamento del consenso, non la creazione di esso, e la distinzione tra una fascistizzazione attiva e una fascistizzazione passiva. La fascistizzazione, cioè, di coloro che erano ligi al governo così come poteva essere ligio al governo un suddito dello Stato liberale, autoritario, della epoca precedente.
Detto questo, a me sembra interessante vedere su quale politica si realizzò il consenso, e cercare di capire come si crearono i meccanismi per la diffusione di questa politica, e dunque per il mantenimento del consenso. La cosa strana che emerge da questa ampia analisi di De Felice è una certa contraddizione tra l’assenza di strumenti e la ricchezza dei risultati.
A proposito di assenza degli strumenti, De Felice indica alcuni aspetti importanti: la mancata creazione di una classe dirigente fascista, accentuata negli anni qui considerati dal cambio della guardia del ’29 e del ’32, nonché dalla rottura tra il programmatore Bottai e l’empirista Mussolini, favorevole agli interventi volta per volta; la depoliticizzazione del partito, canale essenziale per garantire il mantenimento del consenso e la prevalenza del partito sull’apparato dello Stato; il ruolo negativo della Corona che, come è stato posto in luce più di una volta, è quella forza presente nell’insieme del regime fascista, in modo da permettere di dire che questo non è uno stato totalitario; infine la limitata fascistizzazione della scuola, che De Felice sottolinea molto accuratamente.
Contro queste assenze, ci sono due aspetti di attivazione e di mantenimento del consenso. Il primo è l’estrema cura di Mussolini, proprio Mussolini come persona, nel governo dei mezzi di comunicazione di massa, della stampa principalmente. Se non ricordo male c’è un punto in cui De Felice dice: «Mussolini fu il capo ufficio stampa di se stesso», fu un ottimo capo ufficio stampa di se stesso. L’altro aspetto è il governo della macchina statale, la macchina che in realtà si volle preferire rispetto al partito.
Su questo secondo aspetto posto in luce da De Felice io ho delle perplessità. Egli dice giustamente che Mussolini, come era d’altra parte nella tradizione della politica liberale (dello stesso Giolitti), si assicurò sempre il controllo del ministero degli interni. E aggiunge che il Mussolini degli anni ’29 e ’36 esercitò direttamente questa funzione, non solo per il controllo dell’ordine pubblico, ma per assicurare la prevalenza dello stato sul partito, per assicurare una mediazione nelle lotte fra i vari ras presenti nel partito. Ma come fece poi Mussolini a governare a sua volta l’alta burocrazia, strumento essenziale per assicurarsi un tramite rispetto al paese, e quindi rispetto al consenso che poteva venire dal paese?
A me sembra che ci siano due aspetti rimasti fuori proprio perché l’accento della ricerca è posto sulla persona di Mussolini.
Il primo è il giudizio di Bottai nel suo diario, secondo cui Mussolini a partire dagli anni ’30 governò a mezzo dei direttori generali. Bottai scrisse questo, un po’ perché era stato allontanato, un po’ perché, vedendo da vicino il meccanismo di governo di Mussolini, si rese conto che Mussolini scavalcò da un certo momento in poi i politici fascisti e cominciò a governare chiamando i direttori generali.
L’altro aspetto è completamente opposto: la creazione di una alternativa ai direttori generali, al governo dei direttori generali, e cioè la creazione degli enti, che formavano un’alternativa completamente differente rispetto alla burocrazia tradizionale, e che rappresentavano una fuga dallo Stato.
Mussolini riuscì a stabilire un punto di incontro e di equilibrio fra il governo dell’amministrazione tradizionale e il sistema degli enti, i Serpieri da una parte e i Beneduce dall’altra, in modo tale da riuscire a controllare in maniera personale tutto questo apparato.
Ecco, questo mi sembra il punto determinante di cui va tenuto conto, perché altrimenti, pur compiendo ogni sforzo per comprendere la politica sulla base della quale si creò un consenso, non si riesce a capire fino in fondo con quali mezzi una persona sola riuscì a garantirselo, questo consenso, e a mantenerlo per un certo numero di anni.

Alatri – Nell’analisi che Cassese ha fatto mi pare manchi qualcuno degli strumenti importanti di cui Mussolini si servì, e che De Felice non manca di mettere in rilievo, e cioè le due grandi organizzazioni di massa – il dopolavoro e l’opera nazionale balilla – due strumenti essenziali per l’organizzazione del consenso. Questi strumenti hanno avuto una parte di primo piano, e si aggiungono a quelli ai quali Cassese ha già accennato.

Cafagna – Su questo argomento del consenso vorrei fare alcune osservazioni. Innanzitutto, si tratta di analizzare più a fondo le trasformazioni sociali intervenute nell’Italia del dopoguerra, nel senso di un accentuato peso della piccola borghesia. Ebbene, questa piccola borghesia, staccatasi di recente dalle più ampie masse proletarie, trova nel fascismo di che vedere premiato questo distacco. La scuola gioca un ruolo molto importante in questo senso, nel senso cioè di dare un’immagine di promozione sociale a gruppi selezionati.
Una seconda osservazione riguarda la rivoluzione nei mezzi di comunicazione di massa, che coincide con l’avvento del regime. Una rivoluzione che è anche nei modi di vita: il tempo libero, le organizzazioni addette a questo tempo libero, eccetera.
Infine, mi chiedo se il fascismo non abbia conquistato il suo consenso offrendo a vasti strati della popolazione una prospettiva di sicurezza, e ciò in un momento sociale caratterizzato dall’estrema insicurezza, insicurezza quanto alle prospettive di evoluzione del paese ecc. Un’aspirazione di questo tipo esiste sempre in una società, ma in quel contesto dové avere un grande peso.

De Felice – Devo dire che ho visto nelle cose dette più che altro la messa in evidenza di alcuni aspetti della mia trattazione.
Forse qualcuno di voi li ha messi in una evidenza ancora maggiore, ma direi che il discorso del consenso, così come è stato argomentato da voi, mi trova completamente d’accordo. È evidente che si trattava di un consenso manipolato nei termini e nel senso che è stato detto. Condivido pienamente l’affermazione fatta adesso da Cafagna. Credo anch’io che la sicurezza sia veramente una delle chiavi, tanto è vero che ho fatto una distinzione fra il consenso del periodo della crisi e il consenso dell’Etiopia, dicendo che il consenso dell’Etiopia è più roboante e più rumoroso e più esaltato, ma è più facile. Il vero consenso è quello della crisi, perché è il consenso della sicurezza, o almeno se non della sicurezza, della minor insicurezza. È chiaro che c’è una gamma, per cui si può parlare di un consenso che tendenzialmente a livello di maggioranza è passivo, e poi in minoranza è attivo. E anche qui sono pienamente d’accordo con Cafagna, che mi pare abbia colto molto bene i problemi, quando ha detto che la trasformazione sociale avvenuta prima e durante il fascismo è una delle chiavi del consenso, riferendosi all’accresciuto peso numerico della borghesia. Di questo io sono convintissimo, perché secondo me il fascismo ha avuto dal suo punto di vista, e sia pure in forme demagogiche e distorte, il merito di allargare la partecipazione. Gente che non aveva mai partecipato, neanche nelle forme minime – la sezione del partito, la sezione sindacale – trova, ad esempio nella organizzazione dell’opera nazionale del dopolavoro, occasioni di partecipazione che prima non c’erano.
Ci sono poi alcune questioni particolari. L’intervento di Cassese mi trova pienamente d’accordo, ma qui vorrei fare una parentesi: il discorso della burocrazia è un discorso che ho rinviato al prossimo volume, sarà un grosso capitolo, già scritto, di circa duecento cartelle, sarà una analisi di come si è formato sotto il fascismo il ceto amministrativo e burocratico. È un discorso che ho rinviato, per prenderlo in blocco, in modo da cogliere il momento in cui Mussolini entra in crisi. È da lì che voglio risalire indietro.
Anche il discorso sull’antifascismo è un discorso che verrà ripreso in altra parte del mio lavoro, ma vorrei precisare, rispondendo ad Alatri a proposito delle agitazioni che io dico non politiche, e anche ad Arfè che ha parlato della organizzazione del dissenso, che io non voglio assolutamente negare il valore delle azioni antifasciste, però ho l’impressione che negli anni a cui io mi riferisco incidano pochissimo. È un’azione atomistica che non esce fuori da un circolo chiuso, da un ambiente chiuso. Solo con la guerra di Spagna, il discorso si allarga, si fa importante. Non sono agitazioni politiche in senso lato, sono agitazioni che non a caso investono solo ambienti contadini, le donne, eccetera.
Sul consenso ci sarebbe poi da fare un altro discorso, che allarga tutta la tematica. Quando Cassese dice che i risultati, in termini di consenso, furono molto superiori agli strumenti applicati, tocca il problema del rapporto tra il fascismo e le tendenze culturali del suo tempo, che per molti aspetti gli furono molto congeniali. Naturalmente, la propaganda ha avuto un grossissimo ruolo, sia perché la propaganda ha sempre un grossissimo ruolo (anche oggi, parliamoci chiaro), sia perché allora era più nuova, la gente era meno smaliziata, meno difesa nei confronti della propaganda politica. Però, detto questo, guardate che spiegare tante cose in termini solo di propaganda non si può. È uscito da pochissimo tempo, non so se in Italia è noto, un libro molto bello di George L. Masser, La nazionalizzazione delle masse, che si riferisce al nazismo (in Italia uscirà per i tipi del Mulino) e contiene tutto un esame della cultura tedesca, in senso antropologico. Quello che viene fuori è come, in fin dei conti, i nazisti si siano appropriati di una cultura che già esisteva e non abbiano fatto altro che accomodarne alcuni particolari, radicalizzarne alcune punte, ma niente altro. E anche come tipo di gestione del potere, non hanno fatto altro che riprendere un vecchio schema politico, quello che Mosser chiama «la nuova formazione politica». Ora, io sostengo che questo discorso di Mosser non è applicabile in toto all’Italia, l’ho anche scritto nella prefazione dell’edizione italiana che esce tra qualche giorno. Ma ciò non toglie che certe analogie esistano.
Qui si apre secondo me un altro discorso, che sarà uno dei problemi centrali del prossimo volume: la differenza fra nazismo e fascismo. Si tratta di due fenomeni molto diversi. Il nazismo è un movimento che rientra nel filone del radicalismo di destra, il nazismo vuole ricostruire un vecchio sistema di valori, vuol far tornare alla luce il vecchio tedesco, il vecchio ariano, con tutta la sua mitologia e la sua cultura. Il fascismo italiano come movimento – si badi bene, come movimento e non come regime, che è tutt’altra cosa – rientra nel filone del radicalismo di sinistra. Il grosso del fascismo ha, mi si perdoni la provocatorietà dell’espressione, origini democratiche. Certo, è un ramo spurio del filone democratico, ma la matrice culturale è quella. Sono cose, del resto, che hanno scritto molto prima di me un Augusto Monti, un Bellieni, e altri. Ed è ben per questo che a un certo punto il partito viene liquidato politicamente, per consolidare il regime.

Alatri – Vorrei tornare un momento sulla questione del carattere politico o meno delle agitazioni che pur si ebbero durante questi anni. De Felice dice che sono agitazioni principalmente di contadini e di donne, cioè di gruppi meno politicizzati, e quindi nega sostanzialmente a queste manifestazioni un carattere politico.
Secondo me, De Felice introduce una distinzione un po’ meccanica tra agitazione economica e agitazione politica. Credo che le ragioni economiche da cui partivano queste agitazioni non tolgano loro un carattere sostanzialmente politico, perché è pressoché impossibile fare questa distinzione tra agitazione economica e agitazione politica, e del resto quei movimenti che si muovevano su un terreno economico hanno finito per minare il regime. Vorrei invece riprendere la questione del consenso sotto un’altra luce, cioè non più sotto l’aspetto, che in fondo tutti noi abbiamo messo in rilievo, della estensione del consenso, della forza anche di questo consenso e degli strumenti di cui il regime si servì per garantirselo, ma in rapporto all’altra faccia della questione: la fragilità delle basi di questo consenso.
Vediamo gli elementi principali su cui il consenso si basava. Per esporli molto brevemente: la Conciliazione, con quanto ne derivò di sanzione religiosa internazionale al fascismo; i vasti consensi che a Mussolini come persona venivano da tutti gli ambienti europei ed extra-europei; il lancio della prospettiva corporativa che tanto interesse suscitò in America e negli uomini del New Deal; la politica estera, cioè l’iniziale progetto di trovare un accordo con la Francia e l’Inghilterra, prendendo le distanze dal nazismo hitleriano.
Ebbene, tutti questi elementi, eccettuato l’appoggio della Chiesa, fattosi molto forte dopo la guerra di Spagna, verranno meno. Prendiamo la politica corporativa: bei progetti, ma non appena si cerca di concretarli in istituti, in una politica coerente, resta solo il fumo, o per meglio dire il predominio delle forze capitalistiche più organizzate. Prendiamo la politica estera. De Felice definisce un capolavoro politico di Mussolini la campagna di Etiopia. Mi sembra un giudizio opinabile. Perché in realtà la campagna di Etiopia contraddice tutta la politica che Mussolini ha condotto fino a quel momento. Prendendo l’iniziativa in Etiopia, Mussolini si è giocato le possibilità di venire a un accordo con la Francia e l’Inghilterra. Quando da parte di quest’ultima gli vengono offerte delle soluzioni di compromesso che, nelle condizioni concrete dell’economia italiana, sarebbero per l’Italia più vantaggiose di una conquista integrale del vastissimo territorio etiopico, egli la respinge.
In che senso allora la campagna di Etiopia può definirsi un capolavoro politico di Mussolini? De Felice dice che Mussolini credette profondamente in essa, non solo strumentalmente, in funzione del suo prestigio personale, ma come qualcosa che rispondeva alla ragion d’essere della sua figura storica, sicché essa assunse il valore di una missione. Ma, se le motivazioni sono queste, una missione, una vocazione, allora sono motivazioni estremamente retoriche, che non corrispondevano a nessuna reale esigenza del paese, e neanche a nessuna reale esigenza del fascismo, che non fosse quella di un’affermazione di prestigio, un prestigio astratto senza basi solide.
Nel libro di De Felice ci sono, insomma, alcune contraddizioni. Come quando si dice che Mussolini si lasciava influenzare ora da questo ora da quello, prendendo decisioni anche contraddittorie a poco tempo di distanza l’una dall’altra. Ma questo come va d’accordo con il profilo di un Mussolini dotato di una visione politica chiara, netta, e che la persegue con tenacia e con coerenza?
In questo modo, pur ammettendo la fragilità del consenso, si finisce col non mettere sufficientemente in luce la qualità e le ragioni di questa fragilità.

Arfè – Una prima precisazione. Non volevo sopravvalutare le organizzazioni del dissenso, ma semplicemente dire che, mancando la possibilità di organizzare il dissenso in maniera aperta, veniva a mancare uno degli elementi di riprova della consistenza del consenso.
Per quanto poi riguarda la questione della partecipazione cui accennava De Felice, riconosco che ad esempio in alcune regioni dell’Italia meridionale questa novità effettivamente c’era. Ma in altre regioni si trattava semplicemente di forme associative che costituivano un regresso rispetto a un associazionismo che aveva avuto un contenuto fortemente democratico: la Lega, la Cooperativa, la Casa del Popolo.
Un’ultima osservazione a proposito dell’appropriazione da parte del fascismo della cultura esistente. Questo è vero in ogni movimento e in ogni tempo. Ogni movimento politico si cala in un certo clima culturale, anche nel senso antropologico, percependone gli umori. Anche se poi è vero che esistono vari tipi di culture di questo genere, vari tipi di ideologie, e allora bisognerebbe vedere a quale di queste culture si è adeguato il fascismo.
Distinzione tra il fascismo come movimento e il fascismo come regime. Tu dici che alle origini il fascismo come movimento aveva connotazioni democratiche. Anche su questo avrei dei dubbi. Non dico che alle sue origini non ci fosse un certo radicalismo di sinistra, dico che quel che conta è la direzione in cui questo «movimento» si mosse. Ebbene, questa direzione fu quella del compromesso, del compromesso con tutte le forze tradizionali, dal Vaticano alla burocrazia sino al re. Su questo compromesso Mussolini si sbarazzerà del «movimento» e creerà il regime. Anche questo è un elemento che distingue il fascismo dal nazismo. Il nazismo, difatti, non è tenuto a questo tipo di compromesso.
Quanto alla politica estera, sono d’accordo con Alatri. Nelle scelte di Mussolini c’è una forte componente di provincialismo, una visione dei problemi internazionali meno lucida di quello che De Felice gli attribuisce. C’è semmai una costante della politica italiana, quella di subordinare la politica estera in funzione degli interessi del governo più che di quelli del paese. Tanto è vero che la politica mussoliniana sfocerà nel baratro dell’alleanza con Hitler.

Cafagna – Io credo che De Felice stia facendo un discorso molto serio, molto importante, quando parla del fascismo come movimento distinto dal fascismo come regime, ma che poi – per una certa qual sua civetteria – finisca per giocare con le ambiguità che possono derivare da interpretazioni provocatorie come quella da lui esposta.
Il discorso centrale è quello del come un regime di tipo totalitario organizza un consenso attorno a sé, su basi precise. Non vorrei però che questa ambiguità ci portasse troppo lontano. Partecipazione di tipo nuovo? Sì, ma l’elemento che la caratterizza è l’irresponsabilità, la delega totale, la fiducia cieca nel capo carismatico. Ci sono gruppi e masse che si trovano assieme e discutono? Ma questo avviene sulla base di una totale mancanza di possibilità di decidere. A decidere ci pensa «Lui». Ma questo è il gregge, tant’è che si andrà alla guerra come un gregge, quasi per gioco, al di fuori di ogni interesse nazionale. Questo è quanto toccherà in sorte alle masse che credettero nel fascismo, e che in esso vedevano la possibilità di disporre finalmente di una struttura civile efficiente, di uno stato moderno, ecc.

Cassese – Mussolini fu dunque un lungimirante uomo politico oppure fu dominato dell’empirismo? È un quesito che si è ripresentato in numerosi interventi. Per quanto mi riguarda, c’è un punto che induce a riflettere, e cioè l’impressionante continuità dei risultati della sua politica nel secondo dopoguerra. Né può trattarsi unicamente di debolezza della classe dirigente, evidentemente c’era anche una solidità di quelle istituzioni.
Passiamole un attimo in rassegna. La nazionalizzazione del credito, come la chiamò più tardi Einaudi, e la creazione del credito speciale; la legislazione sulle acque, la legislazione sulle bonifiche, una grossa politica di lavori pubblici. Se ne potrebbero citare altre. Fatto è che nel secondo dopoguerra si è governato con molti di quegli strumenti.
Mi sembra giusto invece il giudizio secondo cui Mussolini e il fascismo furono i rappresentanti di una certa cultura del loro tempo, di alcuni diffusi elementi di quella cultura. Mi riferisco ad esempio a quella tendenza antiproprietaria che emerge sull’onda della grande crisi e che verrà poi teorizzata dal socialismo laburista inglese e dagli istituzionalisti del New Deal, ma di cui Mussolini si fa portatore quando parla di crisi «del» sistema e non «nel» sistema, quando parla di contemperare interessi pubblici e interessi privati.
Ecco, tutte queste cose non rimangono in superficie, ma diventano istituzioni, le istituzioni con le quali in gran parte è ancora governata l’economia. Per questo, ripeto, mi sembra difficile in questo campo parlare solo di fallimenti.

De Felice – Tralascio l’intervento di Cassese, con il quale sono fondamentalmente d’accordo. Rispondo invece agli interventi di Cafagna e Alatri, che mi sembrano tra loro convergenti. La fragilità del consenso? Sarà l’oggetto del prossimo volume. Sono assolutamente d’accordo con Alatri quando dice che la politica corporativa si risolse nel nulla. È vero, come dice Cafagna, che la partecipazione si risolveva nel «ci pensa Lui»: ma è anche vero che la gente sapeva, per esempio, di non poter far nulla in prima persona contro la crisi. Insomma, la fragilità era reale, era un tarlo che corrodeva il regime, ma poteva anche portare a una sua trasformazione, non necessariamente al crollo, senza l’intervento di fattori esterni.
Quanto alla politica estera, non è vero che Mussolini respingesse tutte le soluzioni di compromesso. Un certo compromesso lui era prontissimo a firmarlo, ma la reazione dell’opinione pubblica francese e inglese gli tolse, per così dire, il foglio di mano. E così per la guerra, un periodo che non ho ancora studiato a fondo, anche se di documenti ne ho visti parecchi. Ebbene lui nel ’39, ma anche nel ’40, la guerra non la vuole affatto; si trova bensì inguaiato dal suo partner e non sa come venirne fuori. E quando decide di entrare in guerra lo fa per due motivi: perché la neutralità non gli era psicologicamente congeniale, il neutrale per lui era un verme; e perché crede che la guerra Hitler la stia vincendo in un battibaleno. Ma guardiamo le cose più in fondo, per quanto tristi esse siano. Ebbene, da tutti i rapporti di polizia risulta che la opinione pubblica italiana, contrarissima alla guerra nel ’39, diventa favorevole all’entrata in guerra dopo le grandi vittorie di Hitler. E purtroppo questo stato d’animo è più diffuso fra i ceti popolari che nella borghesia di vecchia tradizione liberale, francofila da sempre.
So di dire cose impopolari. Ma uno storico deve avere questo coraggio, anche perché credo che questo grosso problema del fascismo gravi ancor oggi su di noi, e come problema morale e come problema politico. Se non ci decidiamo a sventrare il rospo e a venirne fuori, commettiamo un grosso errore. Una volta mi ha scritto un tale, non certo l’ultimo venuto, che aveva recensito molto sfavorevolmente un mio precedente volume della biografia mussoliniana: il tuo modo di vedere le cose mi irrita – mi ha scritto – anche se probabilmente nel 1980 apparirà chiaro che hai ragione. È un giudizio che mi sembra tragico, e che lascio commentare a voi.

Cafagna – De Felice ci ha un po’ anticipata la sua visione del problema della fragilità del consenso al fascismo di cui tratterà nel prossimo volume della sua opera. Secondo me, però, non è tanto un problema di fragilità del consenso, quello che emergeva da talune delle cose che sono state dette prima, quanto il problema dell’equivoci esistente nella fiducia accordata al regime.
In fondo che cos’era questo consenso? Era, come si è detto prima, fiducia nella capacità di un uomo, in un potere cui si era delegato tutto nella cieca fiducia che operasse nell’interesse della collettività. Ma quale l’appiglio oggettivo per questa fiducia? Lo si potrebbe riassumere nella presunta capacità del regime fascista di costruire (sia pure nel quadro del mantenimento e dell’aggravamento delle divisioni di classe e della ineguaglianza sociale) una società più sicura e uno Stato meglio organizzato. Questo dato di fatto in qualche misura c’è stato? Cassese dice di sì, concordando in questo con gli elementi che emergono dall’opera di De Felice. Però il problema è di vedere fino a che punto questo elemento oggettivo, se c’è stato, ha resistito, e fino a che punto invece non abbia prevalso quanto c’era di degenere in una fiducia fondata su un consenso che era rinuncia ad ogni assunzione diretta di responsabilità.
Si è detto che senza cause esterne non ci sarebbe stata la caduta del regime. Ma, insomma, queste cause esterne non sono venute da sole. La interpretazione che De Felice ci ha dato delle decisioni che hanno condotto all’entrata in guerra contengono taluni elementi che possono essere definiti di errore di giudizio. Ma alcune delle cose che lui stesso ci ha detto, come l’idea che Mussolini aveva della neutralità, l’idea che il neutrale era un verme, non potremmo definirla se non come un elemento di estrema irresponsabilità connessa al dispotismo.
Credo sia difficile figurarsi oggi che qualsiasi capo di Stato, salvo forse Idi Amin Dadà, possa ragionare sulla base di motivazioni di questo tipo.
In un contesto politico democratico esistono evidentemente dei contrappesi che non consentono di operare sulla base di motivazioni siffatte. È tutta qui la questione: la impossibilità che sulla base di certe premesse dispotiche elementi anche di natura positiva non degenerino tragicamente.

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