di Cesare Luporini – «Mondoperaio», a. XXXI, n. 10, ottobre 1978, pp. 97-103.


Dei due argomenti principali toccati da Bobbio nel suo saggio Marxismo e socialismo («Mondoperaio», n. 5, 1978 [https://musicaestoria.wordpress.com/...cialismo-1978/] – e cioè quello dei «tanti marxismi» e quello della «crisi del marxismo» – comincerò dal secondo. Mi sembra il meno accademico e il più bruciante. C’è però qualcosa di curioso in questo gran parlare che se ne fa. Almeno a prima vista, appare difficile localizzare la «crisi» e darne una versione sufficientemente univoca. Bobbio fa un certo reperimento di motivazioni, assai diverse fra loro (Colletti, Althusser, Medvedev, e anche Cerroni). Inoltre registra un (imprevisto) mutamento di atmosfera in certi ambienti intellettuali (e intellettuali-giovanili): dalla «marx-mania», egli dice, alla «marx-fobia» (portabandiera, i «nuovi filosofi»). Ma ecco che – senza uscire dal medesimo fascicolo di «Mondoperaio» [https://musicaestoria.wordpress.com/...marxismo-1978/] – Cafagna propone un’altra motivazione («L’elemento essenziale che è entrato in crisi nella previsione-messaggio del marxismo è l’idea che la ‘espropriazione degli espropriatori’ comporti anche un fenomeno effettivamente ‘riappropriativo’»). E poche pagine più oltre, dal testo della relazione di Salvadori a Perugia, si potrebbe evincere un’ulteriore proposta (la questione delle «classi fondamentali», rispetto alla quale la realtà del capitalismo moderno avrebbe smentito, da lunga pezza, lo schema classico). Guardandosi attorno si potrebbe seguitare a raccogliere motivazioni le più diverse e anche eterogenee di questa «crisi».
Da siffatta fenomenologia si potrebbero trarre conclusioni opposte: o che ci troviamo di fronte a un notevole guazzabuglio di angolature soggettive nel motivare la conclamata «crisi», e che quindi questa è poco più di un’offensiva ideologica, più o meno orchestrata e subita; o che il marxismo effettivamente sta «andando a pezzi», come scrive allegramente un giornalista dell’«Espresso» nel presentare l’introduzione di Hobsbawm alla einaudiana storia del marxismo (introduzione che, naturalmente, va in tutt’altra direzione).
Un altro aspetto singolare è che la «crisi» viene proclamata in una fase di massima diffusione (rispetto al passato) e incidenza del marxismo, almeno come elemento di confronto (e lo si può facilmente dimostrare) in moltissimi settori e aree della cultura intellettuale nei più diversi paesi del mondo, che non sono quelli «socialisti» (non parlo qui degli aspetti politici). Il quadro fenomenico è dunque assai complicato. Naturalmente la via più comoda è fermarsi ad esso, registrare più o meno scetticamente le contraddizioni e tirare avanti (o tirar via).
Ma è possibile invece tentare di mettere qualche ordine? Credo di sì. E dicendo questo non penso tanto a delle risposte quanto al modo di organizzare le domande. Credo che bisogna cominciare con l’introdurre una distinzione che ritengo essenziale, anche se non può essere rigida: quella fra crisi del marxismo e crisi nel marxismo. Cioè, la distinzione fra il rapporto del marxismo (inteso come insieme di idee e di indirizzi e stimoli pratici, che ha una sua storia) e le cose (le realtà sociali e politiche in mutamento nel mondo) e dunque la eventuale crisi di tale rapporto, per un verso; e per altro verso la eventuale crisi interna delle posizioni di pensiero che il marxismo rappresenta. A me, ripeto, sembrano questioni molto diverse, anche se interferenti nei loro effetti e conseguenze. Cercherò dunque di muovermi dapprima sul filo di questa distinzione.

Una crisi di strategia

Come tutti sanno, non è la prima volta che di «crisi del marxismo» si parla. Anzi, l’espressione è ricorrente e spesso è stata usata frettolosamente. Ma, a prendere le cose sul serio, mi sembra che di «crisi del marxismo» (nel detto senso) ce ne sono state tre. Quella di fine secolo (corrispondente alla Bernstein-Debatte), quella attorno agli anni ’30 (e non mi riferisco soltanto agli espliciti tentativi di andare, come fu detto, «au delà du marxisme») e quella di cui si parla oggi. Ognuna di esse, anche se in modi diversi, sgorga dall’alveo del movimento operaio, di un movimento reale. Tra la prima e la seconda si collocano avvenimenti storici decisivi che hanno cambiato la faccia del mondo: la prima guerra mondiale, la rivoluzione di ottobre. Ma mi sembra che queste «tre crisi» nonostante le loro profonde differenze, abbiano un tratto in qualche guisa comune: quello di essere in un rapporto almeno temporale con una crisi del capitalismo. Certo anche qui non si tratta di identità. Quella che alla fine del secolo si denominò «crisi del marxismo» scoppia dopo che l’economia mondiale (capitalistica) era da poco uscita dal periodo che unanimemente gli storici chiamano della «lunga depressione», e il sistema capitalistico presentava, nella ripresa, aspetti complessivi, impulsi e assetti del tutto nuovi. Le altre due «crisi» del marxismo sono invece praticamente simultanee a una profonda crisi di quello stesso sistema.
Ma c’è allora veramente un elemento comune, caratterizzante, in tanta diversità di situazioni storiche? Ebbene, penso di sì, anche se i contenuti non sono (e come potrebbero essere?) gli stessi. Questo elemento comune è dato dal fatto, a mio parere, che in ognuno di questi casi si tratta di una crisi reale di strategia del movimento operaio nel suo complesso, e internazionalmente inteso (non intendo, cioè, soltanto la parte di esso che si propone come «rivoluzionaria»). Come si configuri oggi questa crisi di strategia è, ritengo, problema capitale in rapporto a temi quali quelli della lotta di classe nel suo stadio attuale in Occidente, della conflittualità sociale, della democrazia politica, dello Stato e dei partiti, dei metodi di lotta e del loro rapporto con la prospettiva del socialismo, e del contenuto possibile di questa, intorno ai quali è accesa la discussione a sinistra. Ma quello che qui mi preme, in certa guisa preliminarmente, di sottolineare, è che al centro, o al fondo, vi è una questione di strategia (e quindi di obiettivi non soltanto immediati), all’infuori della quale il dibattito sulla «crisi» del marxismo rimane una disputa puramente ideologica.
Ora, se vi è qualcosa di vero in questa concomitanza o quasi-concomitanza, fra cosiddette crisi del marxismo (ma crisi reali di strategia) e crisi (reali) nel sistema capitalistico, vi è qui, a mio parere, un primo punto che dovrebbe essere materia di attenta riflessione. Poiché esso concerne, nella fattispecie attuale, le stesse capacità di dominare concettualmente la crisi effettuale dentro cui ci troviamo (e dunque l’interrogarsi su tale capacità).
È da queste dimensioni concrete (questione della strategia), sia pur qui solo accennate, che si può discendere a domandarsi se vi sia qualcosa come una «crisi nel marxismo». La questione di fondo rimane, per parafrasare liberamente la famosa tesi su Feuerbach, se il marxismo come teoria è ancora atto a interpretare il mondo e a interpretarlo in quel modo che è nella sua pretesa: cioè in un modo che si saldi al mutamento, che tenga aperta e sufficientemente domini la prospettiva di esso. Naturalmente si può ritenere illusoria questa impostazione, e rinunciarvi in parte (per esempio, dal lato del «mutamento») o in tutto. Vi sarebbe allora poco luogo a discutere, anche se dallo scetticismo, quando sia argomentato e circostanziato, vi è sempre molto da imparare.

Una svolta nelle scienze sociali

Non mi sembra comunque che sia il caso di Bobbio, il quale si pone la domanda circa una mèta («Quale socialismo?») e precise questioni di metodo in rapporto ad essa (democrazia-socialismo).
Ho premesso questi rilievi non per compiere un escamotage, ma al contrario per avvicinarmi alle questioni centrali in un modo sufficientemente ordinato, cioè non rapsodico e soltanto impressionistico come spesso accade. Nella misura in cui ciò mi riesca. E mi voglio afferrare a due punti specifici del discorso di Bobbio. Uno è il riconoscimento (che egli fa con Medvedev) della «svolta radicale nelle scienze sociali» che fu compiuta da Marx. L’altro è la domanda «che cosa s’intenda oggi per marxismo». Naturalmente, nelle loro proiezioni, i due punti interferiranno.
«Svolta radicale» significa, se ben intendo le parole, che Marx ha prodotto un orientamento (in quelle scienze) o tracciato un solco nel quale continuiamo a muoverci (a meno che non si possa indicare una successiva «svolta» non meno «radicale»). Scrive ancora Bobbio, discutendo con Cerroni e riprendendo una sua proposizione (spero che non gli dispiacciano troppo queste citazioni): «chi non è disposto ad accettare l’ipotesi che la società moderna (e perché poi non anche le società antiche?) sia un sistema storico-materialistico retto da sue proprie regolarità? Chi non crede che una formazione sociale abbia le sue proprie regolarità non perda tempo a fare lo scienziato sociale». Ma «basta così poco» (ecco la domanda vera, e un po’ ironica, di Bobbio) per chiamarsi Marxista»?
Certo che non basta (ci si sta troppo larghi). Ma quella intanto è la direzione del solco che è stato tracciato. Esso è costituito da due elementi: la immanenza di un «sistema storico-materialistico» (fornito di regolarità) e la concomitante nozione di «formazione sociale». Non sono proprio sicuro (come lo è Bobbio) che tutti gli «scienziati sociali» siano disposti ad accettare questo. Comunque, con l’accoglimento di quei termini è stabilita una discriminante. Si tratta di vedere se si discute di essa (come interpretarla e dargli corpo), o al di là di essa (cioè, ignorandola), o al di qua e all’interno di essa. Una discussione, per esempio, sullo «statuto scientifico del marxismo» può riguardare il primo e il terzo caso, non il secondo.
Vorrei fare un’altra osservazione. Quella impostazione relativa alle «scienze sociali», quella pur generica «forma», qualunque contenuto analitico gli venga poi assegnato (e supponiamo, magari, un contenuto che negasse tutte le ulteriori categorie di Marx) costituisce già un nucleo sistematico, o comunque lo richiede e lo indica. È una questione, mi sembra, che Bobbio elude del tutto nel suo articolo. Egli contrappone la criticità di Marx ai sistemi dogmatico-dottrinari che si sono creati dopo in suo nome («tutto in Marx, nulla fuori di Marx, nulla contro Marx»). Come non esser d’accordo? Anche a me è accaduto di sottolineare più volte che «critica» e «rivoluzione» sono le supreme categorie di Marx. Si tratterà subito dopo però di vedere che cosa abbia via via caratterizzato il criticismo (o i criticismi) di Marx e non solo in rapporto ai campi a cui si è applicato, ma anche ai modi peculiari in cui si è svolto (e quindi alle possibili proiezioni). È non meno vero che, per dirla con Bobbio, il «sistema non c’è» (inteso come sistema in sé conchiuso e onnicomprensivo). Ma c’è il nucleo sistematico, che è tutt’altra cosa, prodotto da quel criticismo e che muove proprio da quel punto che ho detto «discriminante». Bobbio sa meglio di me che fra «sistema», inteso in senso scolastico, e pensare sistematico, la differenza può essere abissale. E può trattarsi di qualcosa di reciprocamente esclusivo. È un punto essenziale, a mio parere.

Quale marxismo?

E qui vengo alla domanda «che cosa s’intenda per marxismo oggi». È una domanda un po’ ambigua: riguarda il fatto (i «tanti marxismi») o la legittimità? («Basta così poco per chiamarsi marxista?» è una questione di legittimità). So di essere un po’ pedante e confesso che ne ho il gusto (soprattutto discutendo con Bobbio). Ma scelgo e semplifico: «Che cosa si può intendere per marxismo oggi»? Sarei tentato di rispondere (almeno in prima approssimazione): quello che è sempre stato. Ma potrei essere frainteso. E allora cerco di spiegarmi.
Bobbio deplora (con Medvedev) la personalizzazione della dottrina (adopero la parola «dottrina» per brevità e per una certa tradizione), osservando che ciò è accaduto fuori della «intenzione» di Marx. Ha ragione. Anche a me è accaduto più di una volta di rilevarlo. Di rilevare, anzi, che ciò va contro un atteggiamento teorico fondamentale che Marx ed Engels avevano esplicitato fin dal Manifesto del ’48. («Gli enunciati teorici dei comunisti non poggiano sopra idee o princìpi, che questo o quello fra i rinnovatori del mondo abbiano escogitati o scoperti. Quegli enunciati sono soltanto l’espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di classe che realmente esiste, ossia di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi»).
La parola «marxismo» ha dunque già in sé qualcosa di paradossale. Ma, tant’è, si tratta ormai di un fatto storico così corposo, che opporsi a questo uso sarebbe velleitario.
Si tratterà, allora, anche qui di distinguere. Mi sembra che si possa stare ancora oggi con Labriola che, mettendo in rilievo il recente uso del termine, scriveva nel 1897: «Il marxismo – giacché questo nome è ormai adottabile come simbolo e compendio di un molteplice indirizzo e di una complessa dottrina – non è e non rimarrà tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di Engels».
«Simbolo e compendio», «molteplice indirizzo», «complessa dottrina» (ma altrove Labriola parla di «complesso di dottrine»)… Credo che si possa ritenere l’uso di «marxismo» come «simbolo e compendio» anche se la questione del «molteplice indirizzo» prende oggi la forma dei «tanti marxismi», magari contraddittori (ci verrò più oltre). Il fatto è però che senza riferirsi a quel nocciolo della «complessa dottrina» (o «complesso di dottrine») tutto il resto sfuma nel vago e nell’indistinto.
Ma prima di trovarmi ad addentarlo, quel nocciolo, voglio fare ancora una osservazione. La parola «marxismo» indica tutta una tradizione di idee e di indirizzi pratici (anche in contrasto fra loro) del movimento operaio (non l’unica, ma la principale) – così ad esempio lo intendeva Rosa Luxemburg – ma anche, aggiungo, tutto un alone culturale che oltrepassa (di fatto) il movimento operaio; che tuttavia si origina da quello stesso nucleo di «dottrine» o «vedute» di Marx e di Engels (e dal modo di interpretarlo). Nello svantaggio della relativa vaghezza di questo uso, ci è però un vantaggio che credo non debba andar perduto. E cioè che il termine non è mai stato «istituzionalizzato» (da un potere politico), come invece è accaduto quando si creò, e ben presto si bloccò, il termine «leninismo» (poi si inventò addirittura il «marxismo-leninismo»). Tutti sanno come la dogmatizzazione sia passata per questa strada, anche se di «ortodossia» si parlava da un pezzo, e intorno ad essa si discuteva.

Leninismo e Terzo mondo

Ricordo queste cose perché oggi, in Italia, fra socialisti e comunisti, e attorno a loro, si è fatta acuta la discussione sul «leninismo» (discussione con motivazioni politiche, oltre che ideologiche) e sulla «eredità» di esso. Ora qui non entro nel merito (sarebbe un fuor d’opera); vorrei solo dire che, qualunque contenuto si dia alla parola (oltre quello ufficializzato sulla linea staliniana, anche di «leninismi» ce ne sono stati non pochi; per esempio di Bucharin, di Trockij o magari di Gramsci, e si rischia di costruirne artificiosamente un altro come bersaglio polemico), l’esperienza pratico-teorica che fu di Lenin, nonostante la enorme importanza storica dell’uomo e dei problemi teorici ed epocali sollevati, è qualcosa di assai datato non solo rispetto ai problemi di oggi (almeno per l’Occidente) ma, e soprattutto, rispetto alla problematica di fondo del marxismo.
Mi pare indubbio che vi sia, comunque, un riproporzionamento da fare. Ma, detto questo, vi è poi anche una domanda concreta (al solito) da porre, che per comunisti e socialisti (di qualsiasi tipo e ispirazione) non mi sembra eludibile. Devo dire che per me (che non condivido alcuna angoscia esistenziale circa la «crisi del marxismo», anche perché sono ormai troppo stagionato) è una domanda assai assillante e tormentosa. Qualunque sia stata la funzione storica (positiva o negativa, o ambedue le cose insieme) del «marxismo-leninismo», certo è che nessun «messaggio» più ci giunge da esso in quanto tale (e dai paesi in cui è dottrina ufficiale); dico: ci giunge in Occidente. Ma non posso ignorare che non è la stessa cosa per altre parti del mondo (Terzo mondo, cosiddetto). Dove si svolge, in modi complessi, e con esiti diversi, una immane lotta di liberazione di popoli contro il colonialismo vecchio e nuovo e l’imperialismo capitalistico, di costruzione di nuove «nazionalità» (per esempio sul retaggio tribale) e così via. In questo contesto troviamo che l’azione collettiva di riscatto è guidata da gruppi, sperimentati nella lotta, che spesso si richiamano al «marxismo-leninismo». Il che significa che esso fornisce uno schema di uscita dalla arretratezza (e dalla subordinazione) il cui equivalente non è ancora nato altrove.
Lo ritengo un problema estremamente serio, e che sta davanti immediatamente ai tentativi di ciò che viene chiamato «eurocomunismo» e «eurosocialismo». Guai se essi si bloccassero, di fatto, in una separatistica visione eurocentrica, cioè soltanto «occidentale» (di fatto subalterna), perdendo di vista le forze e i problemi in gioco a livello planetario, e non sapessero operare sulla realtà complessiva e in questa universalità. Il che significa confronto col capitalismo (e imperialismo capitalistico) su scala mondiale, ma anche, teoricamente, confronto con le domande e risposte comunque racchiuse nello schema del marxismo-leninismo. Del resto la questione – che concretamente coinvolge quella del rapporto socialismo/democrazia nella sua proiezione più universale – concerne non soltanto i popoli «arretrati». Vorrei attirare l’attenzione, a questo proposito, sul mirabile intervento nell’attuale discussione della sinistra italiana di Raùl Ampuero, già segretario generale del Partito socialista cileno, pubblicata nella «Repubblica» del 22 settembre.

Lo statuto scientifico del marxismo

Mi accorgo di aver adoperato fin qui un metodo, diciamo così, avvolgente. È che anch’io, come Bobbio, ho il terrore di una discussione soltanto «dottrinaria». Ma veniamo al nocciolo. Che cosa può riguardare una «crisi nel marxismo»? Faccio mie le stesse indicazioni raccolte da Bobbio, quali temi da mettere alla prova. E cioè «inadeguatezza dello statuto scientifico del marxismo» (provenienza, Colletti), «lacune di grande portata» (Althusser), «sopravvenienza dei problemi che Marx ed Engels non avevano potuto prevedere» (Medvedev). Aggiungo la tesi di Cafagna, già ricordata («crisi nella previsione-messaggio del marxismo» circa la «espropriazione degli espropriatori»). Mi sembra evidente che specialmente il primo e il secondo punto riguardano ciò che Labriola chiamava «dottrina complessa» o «complesso di dottrine». Le quali si possono schematizzare in «materialismo storico», «critica dell’economia» (analisi del modo di produzione capitalistico e della corrispondente formazione sociale), teoria della transizione (più o meno rivoluzionaria) al socialismo. (Osservo che qui ogni «personalizzazione» scompare). Lascio da parte quest’ultimo tema non perché non sia importante (lo è massimamente, e la discussione oggi aperta in Italia lo concerne), ma perché non rientra nel presente discorso.
Dunque, intanto, «statuto scientifico» (accetto l’espressione, anche se andrebbe un po’ discussa). Se il «marxismo» ha qualcosa a che fare con «scienza» è naturale che il marxismo sia sottoposto a continua verifica e ripensamento del suo «statuto scientifico», particolarmente in determinati momenti storici, sia per i nuovi problemi reali che si affacciano, e la capacità di affrontarli, sia per nuove e autonome esigenze del sapere scientifico. (Anche il concetto di «scienza» non è mai fermo e univoco, come mostrano le complesse discussioni epistemologiche e logiche contemporanee; e ciò anche a prescindere dal nesso scienza-ideologia). Sotto questo riguardo il ripensamento deve essere permanente (oggi di fatto lo è). Non fosse altro perché le esigenze di «rigore» proprie di un procedere scientifico sono oggi, in generale, ben maggiori di quelle del tempo di Marx (perfino, come è noto, nelle discipline matematiche). Per esempio, imprecisioni o ambiguità di linguaggio, quali appaiono ai nostri occhi di oggi, (ne segnala Cafagna) non mancano certamente in Marx (in Marx come negli scienziati del suo tempo, e non solo nelle discipline sociali, più facilmente investite da ideologismo o «filosofismo», ma più o meno in tutte).
In questi casi si tratta di riconcettualizzare; cioè di verificare le stesse condizioni interne di pensabilità (ed eventualmente di correggerle; o di dichiararne la non esistenza) di molte cose che dice Marx. (Questo lavoro è in corso, da più parti). Anche categorie che paiono essenziali possono e debbono subire questo trattamento (oltre quello della verifica esterna). Un esempio tipico è certamente quello della teoria del valore-lavoro la cui riproblematizzazione e discussione si presenta oggi in termini in gran parte nuovi rispetto alla fine del secolo, in rapporto alla stessa crisi delle teorie «borghesi» (marginalistiche ecc.), o comunque del «pensiero economico». Discussione che è tutt’altro che conchiusa.
Ma la questione pregiudiziale è, a mio parere, un’altra. La esprimo così: esiste qualcosa nel marxismo che si possa chiamare una «crisi dei fondamenti»? (È nota l’origine di questa espressione). Questo è ancora da dimostrare. Certo la si può produrre artificialmente, come è avvenuto in questi anni in Italia, creando quello che a me pare un pasticcio infernale tra ciò che Marx ha chiamato (immaginosamente) «feticismo» (della merce, del capitale), la cui analisi, la si accetti o la si respinga, appartiene al livello della «critica della economia politica» (si potrà certo ridiscutere di questo livello rispetto al proprio oggetto) e la teoria filosofica della alienazione, che Marx aveva lasciato cadere o quasi, e che comunque non appartiene a quel livello e non fonda affatto la prima. (Se oggi la categoria dell’«alienazione» è stata riesumata, ed ha ripreso a svolgersi in modo quasi prepotente, è perché essa sembra corrispondere a esigenze di certi indirizzi delle cosiddette «scienze umane»; o comunque di problematica della vita socio-morale, e la tendenza, mi sembra, è allora a de-filosofizzarla. Ma è un ambito di discussione in cui qui non posso entrare).
Dire che per ora non è affatto dimostrata una «crisi dei fondamenti» non significa che essi non siano esposti a interpretazioni e reinterpretazioni, sia alla luce di problemi e difficoltà nuovi, sia in virtù di affinamenti logico-epistemologici di cui siamo venuti a disporre. Ma anche in ordine a questioni che tradizionalmente si chiamano «filosofiche». Quest’ultima circostanza è un fatto che certo va studiato a sé (Bobbio formula la domanda a proposito dei «revisionismi» filosofici) e che ora lascio da parte per brevità. (Condivido comunque la tesi di Althusser, che piuttosto che parlare di filosofia marxista, o del marxismo, si dovrebbe parlare di posizione del marxismo in filosofia). In questo vi è già almeno il germe di diversi indirizzi (scuole, o come si vogliano dire), anche indipendentemente dalle non indifferenti sollecitazioni pratico-politiche (ma comunque con riflesso su di esse).
Problemi e difficoltà nuovi, certo, si ripercuotono sulla interpretazione dei fondamenti, o del metodo. Per esempio, io ritengo che anche a livello di «critica dell’economia politica» (espressione tutt’altro che sottratta a una riproblematizzazione) si debba distinguere fra la teoria, con le sue categorie critico-analitiche, e il modello (del resto non certo perfetto) che Marx ha costruito nei tre libri del Capitale, sulla base dei dati del suo tempo. Ma altri dà altre risposte assai diverse (per es., esclusione della nozione di «modello»). Si tratta appunto di confrontarsi, in modo determinato, come avviene in ogni dibattito scientifico. E non è poi fatta di questo la vita della scienza?
Ma vado oltre, sia pur sommariamente, per non lasciare ambiguità. Non intendo sostenere che in quei «fondamenti» (di cui non è stata dimostrata la crisi) non siano coinvolti elementi che ci appaiono oggi come punti deboli, e che sono comunque da mettere in discussione. Per esempio (è per me il principale) la concezione dell’uomo o «soggetto» umano, che in qualche modo è sempre implicata nelle scienze della società. Qui entrano in giuoco diverse dimensioni sia scientifiche (di analisi), sia etico-politiche (problematica di libertà-liberazione), e con queste ultime, nel caso del marxismo, la sua proiezione sul futuro della società. Anche nei «fondamenti» si possono dover sostituire parti essenziali. La questione è se poi con ciò se ne muta la configurazione, o meno.

Il problema dello Stato

E vengo alle «lacune». La principale sembra essere quella circa lo Stato. Ho già riposto a Althusser («il Manifesto», giugno, n. 21), in parte proprio appoggiandomi al Bobbio di Quale Socialismo? Non sto a ripetermi, se non per il punto che credo essenziale. Per quanti limiti, lacune o «punti cechi» (Althusser) vi siano in Marx a proposito dello Stato, egli ha prodotto un rivoluzionamento radicale, antiideologico, del vecchio problema del fondamento del potere politico e statuale, che Marx ha individuato non solo nei rapporti del dominio di classe (come a tutti è noto), ma altresì nelle funzioni della riproduzione sociale (a determinate condizioni, secondo le diverse formazioni storiche). Due facce, dicevo, della stessa medaglia, e dunque inseparabili in una discussione avveduta. Dal tempo di Marx, comunque, le cose sono molto mutate nel rapporto Stato-società (e Stato-economia). È del resto questo un grande tema nella discussione attuale.
Ma ora Bobbio aggiunge un problema, come egli dice, «specifico». Quello classico del rapporto fra gli Stati, cioè del rapporto di potere e di forza fra di essi, come un aspetto essenziale della problematica dello Stato. Notando che in Marx non c’è risposta soddisfacente (o addirittura non c’è risposta). Per mio conto non ho esitazione a dar ragione a Bobbio, anche perché credo di aver trovato (almeno per l’analisi marxiana del mondo moderno) la ragione di fondo di ciò in un limite della forma o metodo con cui Marx ha costruito il suo modello del modo di produzione capitalistico. E cioè (ho già avuto occasione di scriverlo particolareggiatamente) nel non avere egli saputo concettualizzare il rapporto fra i due pilastri del modello stesso: mercato mondiale e mercati nazionali, sulla base dei quali ultimi si sono costituiti, ad opera della borghesia, gli Stati moderni, più o meno «nazionali». È, a mio parere, una lacuna grossa, di non poche conseguenze (non solo scientifiche). Il fatto è che la si scopre dentro Marx, proseguendo (e in parte correggendo) l’analisi di Marx. Se ne trae la conseguenza che la dialettica delle classi non sopprime quella degli Stati, ma che si ripercuotono l’una sull’altra. Naturalmente c’entra qui la questione del nesso fra dominanti e dominati, inclusa giustamente da Bobbio. Ma non posso accettare la sua conclusione che mi sembra alquanto sbrigativa: come se quei due ordini di cose (lotta fra classi, lotta fra Stati) corressero semplicemente paralleli, senza toccarsi (o toccandosi solo dal lato dei «dominanti»). Credo che il nesso «Stati (al plurale)-lotta di classe» sia molto più complesso. E che il versus della considerazione debba comunque cominciare da quest’ultima e dai suoi fondamenti. (Anche Bobbio nel parlare della lotta fra gli Stati punta sui «dominanti», che sono tali rispetto alla propria società, e quindi su un rapporto di classe).

Espropriazione e riappropriazione

Non posso ora fermarmi molto (ma anche perché in parte la risposta credo di averla già data, almeno implicitamente) sulla questione delle «sopravvenienze», che Marx ed Engels non potevano prevedere. Mi sembra che le cose stiano così. O esse incidono sulla costruzione teorica, e allora questa va corretta, modificata in base all’analisi delle medesime. (È evidente che il capitalismo di oggi non è più quello del tempo di Marx, e così il rapporto società-Stato. Marx spesso era capace di attendere l’esito di una determinata crisi commerciale, per eventualmente modificare una posizione teorica). O riguardano «l’orizzonte del marxismo» (espressione di Bobbio) cioè, intendo, l’orizzonte della teoria. Certo vi sono cose (dati e scoperte) che non rientrano nell’orizzonte della teoria almeno nella forma in cui ci è arrivata (per esempio, a mio parere, le più radicali questioni concernenti il «soggetto umano», la sua stessa concepibilità e penso in particolare alla problematica portata in luce dalla psicanalisi).
In questi casi l’orizzonte della teoria va modificato almeno parzialmente. Non per ficcare tutto dentro al marxismo, cosa assurda, ma quando si tratti di questioni che ne concernono profondamente (in una delle sue radici) l’angolatura sistematica e, forse, la veduta di fondo.
Ma non mi sembra proprio che questo sia il caso dei problemi «ecologici», e di equilibrio con la «natura», di cui parla Bobbio, perché questi in tale orizzonte ci rientrano benissimo e senza particolare fatica concettuale. (Anch’io ebbi occasione di toccarli nell’introduzione di un mio libro che Bobbio ebbe la cortesia di discutere pubblicamente). Non tutti i nuovi dati e problemi modificano cioè l’orizzonte teorico, anche quando ne modifichino alcune prospettive interne e con ciò i compiti pratici che discendono da esse.
E ora ultimo punto: quella che sarebbe la «previsione-messaggio» di Marx (Cafagna). Naturalmente sul «messaggio» di Marx (e su questo stesso termine) si potrebbe discutere a lungo. Ma la parola non mi dispiace. Perché sono convinto che il «messaggio» in Marx c’è e continua a parlare (non soltanto ai «marxisti»).
Ma qui si tratta della «previsione-messaggio» come crede di localizzarla Cafagna. Ora non voglio stare a sottilizzare sul carattere di metafora (o semi-metafora) del nesso «espropriati-espropriatori», con quel che segue, in Marx; e come si possa o meno scioglierlo concettualmente. (Cafagna dà una certa versione). Perché ritengo comunque che Cafagna abbia toccato un punto importante e significativo, il rapporto «espropriazione-(ri)appropriazione», in maniera nuova e che fa riflettere. In relazione a quella che ho chiamato «crisi di strategia». Cioè non solo dal lato teorico ma anche da quello pratico, attuale (compreso il giudizio da darsi sui «socialismi reali»). Non vedo però come il disarticolarsi (storico-fattuale) di quei due lati (espropriazione-appropriazione), anche se pone acuti problemi teorici, si possa assumere a indice di una crisi nel marxismo.

Un messaggio di liberazione

Attraverso questa un po’ puntigliosa discussione delle argomentazioni che mi sono trovato davanti ho forse voluto dimostrare che una crisi del marxismo oggi non c’è? Non lo sostengo affatto. Ma credo che la localizzazione vada cercata altrove e più oltre, che non semplicemente dalla parte degli strumenti intellettuali, per quanto alcuni di essi si siano manifestati insufficienti, e altri magari un po’ arrugginiti. E altri ancora da costituire (o da sostituire). Ma gli strumenti intellettuali si creano e si modificano nell’uso. Purché questo uso si dia. Fuor di metafora: l’autoriflessione del marxismo, per quanto acuta, non basta; anche se riprenderla è stato necessario per uscire dalla cappa dogmatica. Vi è una urgenza delle cose (tutto ciò che minaccia oggi il mondo, cioè gli uomini; tutto ciò che travaglia le società e i popoli) e un disagio che non nasce da essa. Oserei dire che la crisi del (nel) marxismo (qui le prendo insieme) si affaccia come il sentimento di una inadeguatezza che è il riverbero di ciò che ho chiamato crisi di strategia. Le radici principali di questa non sono certo teoriche, o solo e principalmente teoriche, sono pratiche e storiche; ma essa coinvolge la vita e la vitalità della teoria.
Qui è per me il punto da cui ricominciare a riflettere. Il primo oggetto di ricerca è in questa crisi di strategia (o magari di strategie) del generale movimento di classe, nel suo nesso con la fase attuale del capitalismo. Una riflessione separata intorno a quest’ultima, per quante ipotesi e analisi non subalterne si riuscisse ad accumulare (le sinistre non brillano certamente per esse), rimarrebbe ancora monca e deformata. Tutte le altre tematiche (socialismo e democrazia; «quale socialismo?»; il «socialismo possibile»; i «socialismi reali») sradicate da questo quadro divengono astratte. Il che non significa che non siano suscettibili di trattazione autonoma, purché si abbia coscienza che poi lì vanno riportate.
Un’ultima osservazione, quanto a Marx. Il suo «messaggio» è stato a lungo avvolto da alcunché di profetico; in qualche misura egli stesso (anche se non è sua la famosa teoria del «crollo») ha reso ciò possibile attraverso un certo uso, talvolta anche ambiguo, della categoria della necessità (circa il passaggio dal capitalismo al socialismo). Ora, questo profetismo è caduto non solo per la chiarificazione concettuale (qui Gramsci ha avuto molto da dire), ma per l’innalzamento del livello di coscienza nella lotta di classe e nei suoi obiettivi; insomma per maturazione storica.
Ma, a mio modo di vedere, bisogna stare attenti a non lasciar cadere, per troppo realismo e possibilismo (o, viceversa, per troppo teoreticismo), il punto più alto di tale «messaggio», quello della «liberazione» (umano-individuale). Non fosse altro perché poi la realtà coglie di sorpresa. Come è accaduto in questi ultimi anni, in cui i «marxisti» (e non solo loro, naturalmente) non sempre furono pronti a comprendere tanta ribellione (per esempio giovanile, e poi femminile) contro i meccanismi stritolanti e manipolanti, e un nuovo farsi politico, o riappropriarsi della politica, da parte del sociale (e anche del personale, come è stato detto, e non ho timore di ripetere!). Quei meccanismi di potere, di dominio e di produzione, e chi ne ha il comando, nel nostro mondo occidentale – anche utilizzando la crisi e le frustrazioni che ne derivano a una parte della società – spingono oggi di nuovo all’apatia politica. Allora non basta più la democrazia formale e garantistica, di cui pur le «sfide della storia» ci hanno insegnato ad apprezzare tutto il valore irrinunciabile.
A questo punto dovrei soffermarmi sui «tanti marxismi». Ma mi sono mangiato lo spazio. Osservo solo che «tanti marxismi» si può dire in tanti significati (Bobbio ne accenna qualcuno). Per fortuna, nessuno è padrone della parola «marxismo». Chi crede di operare, anche in senso militante, dall’interno del marxismo, o muovendo da esso, sarà bene che cerchi di fare dei «tanti marxismi» un campo di tensione produttiva, e non un campo di dispersione.
Di altre cose ancora mi sarebbe piaciuto discutere con Bobbio. Per esempio, della questione dei «testi» e delle «battaglie a colpi di citazioni». Giusto, giusto! Ma si può ridurre poi a questo il rapporto o non rapporto coi «testi»? O forse non si torna sempre a decifrare, alla luce di oggi, Aristotele o Hobbes (come Bobbio insegna), e persino Galileo e Newton? E anche della questione della «responsabilità» degli autori. Ma sarà per un’altra occasione.

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