di Adriano Ossicini – «Rinascita», a. XXX, n. 45, 16 novembre 1973, pp. 21-22

Ricordi sulla lotta della “sinistra cristiana” nel XXX anniversario del 1943


Pur avendo accolto l’invito che Rinascita mi aveva rivolto, di ricordare il contributo significativo dato, trent’anni fa, agli avvenimenti del 1943, dalle forze della sinistra cristiana, ho più volte rinviato la stesura di queste note preso, forse, dalla sensazione che ormai su quegli avvenimenti, tanto, se non troppo, si fosse detto, e che il mio ricordo potesse, in fondo, essere superfluo. Ma nell’ascoltare a Bologna, recentemente, al Convegno dei cristiani per il socialismo, convegno di indubbio valore e interesse, alcuni interventi sul ruolo da noi svolto nella Resistenza, sulla nostra politica di alleanze e sui nostri rapporti con la Chiesa, mi sono reso conto che il riprodurre all’attenzione, specialmente di chi non li ha vissuti, alcuni avvenimenti, può contribuire a richiamare a valutazioni storicamente, e non astrattamente, determinate.
Il 1943 segnò una svolta fondamentale nella lotta per la caduta del fascismo: svolta iniziata con gli scioperi del nord, proseguita con gli avvenimenti che direttamente provocarono il 25 luglio, culminata nell’8 settembre e con l’inizio della guerra partigiana. Quale fu il contributo della sinistra cristiana a tali avvenimenti? Forse per averne un’idea oggettiva la cosa più utile è rifarsi alla relazione ufficiale che la questura di Roma (uff. politico) faceva a conclusione delle indagini iniziate nel dicembre del 1942 sul gruppo che in questa relazione veniva denominato come «partito comunista cristiano», relazione che aveva come base gli interrogatori dei numerosi esponenti di questo gruppo, in carcere a Regina Coeli, o fermati, o sottoposti ad indagini a piede libero, per incarico del Tribunale speciale per la difesa dello Stato (circa 400 persone tra le quali molti operai). Ebbene, l’ufficio politico della questura nel descrivere l’attività di questo gruppo poneva innanzitutto in rilievo due cose: 1) la particolare ampiezza e la consistenza, non locale, di questo movimento fatto di studenti e di operai cattolici; 2) l’unità d’azione che legava questo gruppo al PCI e che aveva avuto molte espressioni operative su base locale e nazionale culminate con la pubblicazione in comune di un giornale, Pugno chiuso.
In sostanza l’ufficio politico della questura si meravigliava e denunciava come nuove e preoccupanti, tre cose: 1) che dei cattolici, come tali, scendessero sul piano di una cospirazione attiva, propugnassero (addirittura) in periodo di guerra, azioni di lotta e di sabotaggio contro il fascismo; 2) che si stabilissero in questa lotta dei legami politici e ideologici con il PCI; 3) che la Chiesa non solo non attaccasse ufficialmente tale gruppo ma cercasse di intervenire in difesa di esso, in particolare di alcuni suoi dirigenti. In sostanza dalla stessa relazione dell’ufficio politico della questura si evince il ruolo non secondario, di rottura, di novità e sostanzialmente rivoluzionario costituito da questo gruppo nella situazione italiana e in particolare nel movimento cattolico. Ma la cosa ha singolare importanza e rilievo se inquadrata nella storia dell’antifascismo cattolico.
Il partito popolare era stato sciolto con il RD del 6-11-1926. Da allora di fronte alle nobili, ma isolate, e variamente orientate, posizioni del fuoruscitismo popolare (Sturzo, Donati, Ferrari e Miglioli) non solo non c’era stato nessun gruppo di questo partito che avesse organizzato, come gruppo, all’interno, una sistematica resistenza al fascismo ma (a prescindere dall’episodio singolare ed isolato del movimento neo-guelfo) di fronte alla massiccia opera di fiancheggiamento dei clerico-fascisti e del cosiddetto «mondo cattolico» accentuatasi dopo il Concordato c’era stata soltanto un’azione sotterranea di resistenza passiva, dopo gli episodi del 1931 (di temporanea rottura tra l’Azione cattolica e il fascismo), resistenza passiva che aveva trovato una sua base morale più che politica nella FUCI, nei laureati cattolici, in alcuni residui del popolarismo inseriti nell’Azione cattolica. I pochi nomi che compaiono nelle relazioni dei questori fascisti e dell’ufficio politico della polizia provengono da questi ambienti e vengono collegati ad una azione di resistenza morale ma non ad un’azione politica organizzata. Dice infatti lo Scoppola nel suo volume La Chiesa e il fascismo (documenti e interpretazioni): «Fu soprattutto nella FUCI e nel movimento dei laureati che andò maturando questo nuovo antifascismo di ispirazione religiosa. Questi orientamenti non sfuggono naturalmente alla vigilanza del regime: i nomi di Igino Righetti, Giovambattista Montini, Cesare Ossicini, e di molti altri dirigenti cattolici ricorrono spesso nelle carte della polizia, nelle relazioni che giungono a Roma dalle diverse prefetture del regno, per conferenze e manifestazioni in cui si esprimono più o meno chiaramente atteggiamenti di ostilità nei confronti del fascismo…». Ma una vera e propria azione politica organizzata tarderà a comparire e la stessa Democrazia cristiana, sorta dalle ceneri del Partito popolare ma non dalle lotte di gruppi antifascisti cattolici organizzati nel periodo della dittatura, troverà alcune espressioni politiche e organizzative soltanto alla fine del 1942 o all’inizio del 1943 e non riprenderà il nome di Partito popolare anche perché questo nome, pur ricordando una importante stagione politica, non rappresentava più alcuna continuità di lotta.
Per questo ha rilievo storico il movimento politico che portò agli episodi del 1943 che noi stiamo descrivendo, perché fu in sostanza l’unico movimento politico sorto dal mondo cattolico, dalle sue strutture (circoli cattolici e associazioni) fino dal 1937 come movimento di lotta organizzata contro il fascismo, in un quadro di alleanze con quanti tale lotta teoricamente e praticamente avevano sempre propugnata (in particolare i comunisti) sulla base di una precisa e scientifica analisi storica del fascismo e nel tentativo di reinserire i cattolici nella lotta politica, inserimento conclusosi con la troppo breve parentesi del Partito popolare. Felice Casula in un suo saggio su questo movimento, molto documentato, pubblicato sul n. 5, del 1973, della rivista Civitas (diretta da Paolo Emilio Taviani) spiega come tale movimento sorgesse proprio nel seno di alcune strutture dell’Azione cattolica e cita un documento del 1937, quello che egli chiama «Appunto Pecoraro» (documento elaborato da un gruppo di appartenenti al circolo di Azione cattolica Dante Leonardo: Pecoraro, Ossicini, Massimi, Coccia, ecc.), che contiene nella sua brevità e schematicità un poco dogmatica tutti gli elementi che abbiamo indicato.
Eccone il testo (citato da Casula): «Appunto per un’azione politica. 1) L’Azione cattolica dopo il 1931 può rappresentare l’unico organismo di massa per educare i cattolici all’antifascismo; 2) bisogna però discendere dal piano della protesta morale a quello della lotta politica; 3) la lotta politica «clandestina» con tutti i mezzi e con tutti i rischi (galera, ecc.), può salvarci come cattolici da drammatiche responsabilità (razzismo, guerra) e avviare l’unica cosa da fare: abbattere il fascismo; 4) per fare questo, pur non rompendo con il passato (Partito popolare) bisogna distinguerci da esso per la rottura che esso rappresenta di fatto nell’unità delle forze popolari (salvo poche eccezioni) e per le resistenze a passare dalla protesta morale a quella politica di lotta quotidiana attiva; 5) bisogna in questa lotta senza quartiere sfatare il mito della unità politica di tutti i cattolici, sfruttati e sfruttatori, promuovendo un movimento di sinistra cristiana».
Ebbene, conseguentemente a questi orientamenti, questo gruppo progressivamente ampliatosi, collegatosi ad ambienti operai e studenteschi sempre più vasti, non solo affrontò tematiche teoriche sempre più legate alla analisi marxista del fenomeno fascista attraverso i gruppi del «cooperativismo sinarchico» dei «comunisti cristiani» o della «sinistra cristiana» ma si batté concretamente contro l’intervento in Spagna, contro la guerra nazista, a favore di un’azione ampia di rottura, di denuncia, di sabotaggio. Già nel periodo 1940-41 alcuni suoi militanti (prima del gruppo dei dirigenti di cui alla relazione del Tribunale speciale precedentemente citata) furono arrestati e deferiti al Tribunale speciale (Chiesa, Miglioli, ecc.). Perciò gli avvenimenti del 1943 erano frutto di un non breve periodo di attività politica.
L’influenza di questo gruppo non fu insignificante anche per le gerarchie ecclesiastiche (sia sul piano teorico che su quello pratico). A prescindere dai descritti e documentati interventi della Segreteria di Stato, come non ricordare le simpatie sempre più dichiarate di una non piccola parte dell’associazionismo cattolico verso questo gruppo e di una non insignificante parte del clero? Anche a Roma, lo cita nello stesso lavoro il Casula, una serie di parroci si erano collegati a tale gruppo, in vario modo. Come potrò per esempio dimenticare il ruolo che ebbe in questi avvenimenti il vice cappellano delle carceri, don Felice Mirabilia, ruolo che va molto oltre la sua disponibilità personale e la sua profonda umanità, i collegamenti che teneva fra noi e il mondo ufficiale cattolico, la Segreteria di Stato, la direzione dell’Azione cattolica, quando noi eravamo in carcere (oltre a servire da tramite fra noi in carcere e quelli che erano fuori per evitare arresti, per porre riparo a errori, delazioni, ecc…). Credo che una sua frase che non ho dimenticato possa sintetizzare quanto sto esponendo: «che cosa importante – egli disse – per noi che dei cattolici si organizzino, lottino, vadano in carcere come tali, alleati dei socialisti e dei comunisti, sfatando la tradizione che dalla Conciliazione in poi l’antifascismo dei cattolici sia morto o sia ridotto ad una questione morale per pochi iniziati». Ma come non ricordare e non testimoniare anche oggi la scuola politica ed anche morale nella lotta che questi gruppi cattolici ebbero dai militanti comunisti?
I comunisti non erano soltanto quelli che tenevano in piedi la «scuola antifascista del carcere» ma erano quelli che ci avevano spinti ad un’analisi scientifica del fenomeno fascista ed a un’azione concreta nel quadro di una precisa politica di alleanze. I rapporti con operai come Pompilio Molinari e con intellettuali come Paolo Bufalini o Lucio Lombardo Radice o Pietro Ingrao, erano stati per noi un’esperienza determinante al di là dell’amicizia, nelle lotte affrontate in comune. E penso si possa dire, senza peccare di modestia, che il nostro movimento testimoniò pur nei suoi limiti e nelle sue possibili contraddizioni, ai militanti della classe operaia, come dei cristiani che, come tali, non potevano in alcun modo essere materialisti e tanto meno deterministi, interpretassero l’affermazione di Engels, su «l’alto slancio morale e spirituale che fu anche conseguenza di ogni rivoluzione…» e come il cristianesimo contenga anche una spinta a trasformare il mondo. Così come abbiamo tentato di testimoniare alla Chiesa in che modo intendevamo assolvere il nostro dovere di cristiani, di impegnarci in politica, senza però, anche nei momenti più duri e drammatici, sentirci fuori e tanto meno di fronte o al di sopra, ma solo dentro la Chiesa. E tutto questo svolgendo una concreta azione politica nel quadro di precise alleanze e non a livello di astratte «predicazioni».
Questo, della politica di alleanze e del ruolo di una sinistra cristiana in quel momento storico, e, in generale, in questa politica, è un problema sul quale si è spesso con superficialità parlato e sul quale una seria analisi storica non è stata condotta. È facile a molti anni di distanza parlare da un lato dei pericoli dell’integralismo o dall’altro dei rischi delle alleanze, «troppo ampie». Le alleanze non sono né ampie né ristrette, sono uno strumento che va inquadrato in una situazione concreta e non moralistica e velleitaria. Noi, lo ricordo e lo riconfermo, cercammo in tutti i modi di ricollegarci con le residue forze dell’antifascismo popolare dal 1937 in poi e con la risorgente DC nel 1943 (ricordo gli incontri nel salotto «giallo» a casa Spataro con De Gasperi, Gronchi, Canaletti, Gaudenti, Iacini, lo stesso Spataro, ecc.). Le difficoltà di un’azione comune e anche di un serio colloquio non furono legate in quel momento a problemi ideologici ma ad una differenza radicale nel come intendevamo la lotta contro il fascismo.
L’integralismo poi diviene una parola ambivalente o senza senso se usata senza riferimenti storici. Quando Sturzo fondò il Partito popolare favorì il reinserimento dei cattolici nella vita politica. Fu un’operazione integralistica? Non lo so e non ha alcun interesse in quanto gli eventuali aspetti integralistici erano, se c’erano, inevitabili e comunque i cattolici andavano reinseriti nella vita politica nei soli modi nei quali era possibile farlo. Non certo proponendo che il non expedit venisse abolito per invitare i cattolici ad entrare nel partito di Turati!
Il progressivo inserimento dei cristiani nel movimento socialista, nei partiti della classe operaia, o in un’alleanza operativa con tali forze, o in una comune partecipazione (negli anni che vanno dal 1937 al 1945) alle lotte antifasciste, era, ed è legato soltanto ai limiti concreti che tale inserimento comportava e comporta: in sostanza, al fatto che al di là delle etichette comunque tale inserimento avvenga, non solo per piccole minoranze di intellettuali.
Questa lezione sulla politica dell’alleanza la «scontammo», immediatamente, appena usciti dal carcere, nei 45 giorni prima dell’8 settembre, quando assistemmo da un lato al tentativo dei gruppi ancora al potere di emarginare i comunisti, protagonisti della grande resistenza al fascismo, dall’altro, da parte di alcuni gruppi della democrazia laica, all’assunzione di posizioni velleitarie, di polemica astratta religiosa e politica, posizioni che non tenevano nessun conto della concreta situazione delle masse popolari. Ricordo l’atteggiamento di Carmine Senise, tornato capo della polizia, che chiaramente, in un colloquio con alcuni di noi, appena usciti dal carcere, fece capire che tutti potevano uscire dal carcere e dal confino ma i comunisti no (quelli che non riuscirono a uscire furono poi consegnati ai tedeschi); solo la pressione unitaria delle risorte confederazioni dei lavoratori sbloccò questa situazione. Non potrò dall’altro lato dimenticare la fatica che si doveva fare nelle riunioni dei comitati antifascisti per evitare che la polemica contro il Vaticano o contro la monarchia prendesse il posto del lavoro organizzativo immediato che derivava direttamente dai problemi politici enormi e da quelli militari che ci stavano di fronte.
Su queste polemiche e su queste esperienze calò l’8 settembre. E anche in quel momento la chiarezza di alcune forze politiche sul problema delle alleanze fu determinante. La confusione era tremenda. Una gran parte delle forze politiche antifasciste non realizzava affatto che si stava per aprire un conflitto armato tra popolo italiano e tedeschi. Mi ricordo che quando facevo la spola fra i miei compagni combattenti a Porta San Paolo e un «comando militare» dove erano Longo, Secchia e altri dirigenti, in via Plinio, mi rendevo conto che, di fronte all’assenza di un non piccola parte del movimento antifascista, e alla presenza, all’inizio della lotta armata, di forze dell’esercito e della classe operaia unite, soltanto alcuni dirigenti, che appunto in via Plinio stavano «inventando» l’organizzazione della resistenza, avevano le idee chiare e prospettavano le uniche alleanze possibili: quelle determinate dalla lotta.
Noi apprendemmo questa lezione, come potemmo, oltre i facili entusiasmi. Secchia ricorda in un suo libro e definisce con poche parole efficacissime la mia reazione in quel momento che era poi quella dei gruppi che combattevano con me a Porta San Paolo (con un piccolo errore, caro indimenticabile Secchia, che a via Plinio non c’erano bandiere ma rivoltelle e bombe ivi scaricate da Antonello Trombadori). Bisogna combattere subito: sì, come, in che forma e misura? Io ho appreso in quel momento una grande lezione politica. E un’altra importante esperienza politica era possibile immediatamente fare. Da via Plinio alla vicina via Cola di Rienzo mi ero recato in quei giorni per incarico del «comando» militare, a casa di Spataro, attivissimo organizzatore della DC, per sapere non solo se egli aveva delle notizie concrete sull’atteggiamento di Badoglio e dei comandi militari ma almeno cosa si sapesse di tutto ciò in Vaticano. E Spataro, che pure era sistematicamente sulla breccia e che teneva come meglio poteva i contatti con tutte le forze antifasciste, mi disse: «non riusciamo a sapere niente»; mi recai, poi, anche per suo consiglio, in Segreteria di Stato, in Vaticano, e parlai con mons. Tardini (vecchio amico di mio padre) che mi disse con semplicità: «noi non sappiamo nulla ma, ormai, mi sembra che voi dobbiate darvi da fare senza aspettare di sapere».
Bisognava combattere il fascismo ma fare anche una seria analisi scientifica di che cosa esso rappresentasse, non un male transitorio, un fenomeno aberrante, ma una precisa difesa, storicamente determinata, della borghesia capitalistica. Bisognava lottare contro l’attendismo e il tentativo di una larga parte dei dirigenti del movimento cattolico di rimanere ancora nei limiti di una protesta morale e far entrare le masse popolari cattoliche in quella larga alleanza nella lotta che era alla base della Resistenza.
Il primo numero di Voce Operaia è del 4 ottobre 1943. «Questo foglio – afferma il fondo – ha valore di una precisa testimonianza; i lavoratori cattolici si trovano in blocco compatti con tutti gli altri lavoratori sul terreno del combattimento…». E nel numero del 18 ottobre: «…Per il proletariato e per la popolazione di Roma è l’ora del combattimento; è nostro preciso dovere chiamare e guidare nel combattimento tutti i cattolici romani perché siano coscienti che in questa lotta si decidono in gran parte i destini d’Italia…». In questi limiti si sviluppò la nostra azione. Disse Guido Miglioli nel suo famoso incontro in treno con Gramsci, Grieco e Di Vittorio nel 1922: il fascismo passa attraverso la mancata alleanza tra cattolici e socialisti e comunisti. Noi volevamo combattere il fascismo ricordando anche quelle parole. Ma non dimenticavamo, anche allora, nella lotta, gli aspetti teorici del nostro impegno.
Uscì pubblicato «alla macchia» in quei mesi un volume divenuto poi molto noto: I cattolici e il comunismo, frutto di un lungo lavoro teorico di alcuni intellettuali (Baldo, Rodano, il sottoscritto, ecc.) e di alcuni operai (Sella, Rinaldini, ecc.) e redatto interamente da Fedele d’Amico che affrontava temi come il rapporto tra religione e politica, tra materialismo storico e materialismo dialettico, la lotta di classe, la proprietà privata, l’impegno dei cristiani in politica e la loro posizione di fronte al socialismo, la polemica contro il partito dei cattolici, l’integralismo e l’interclassismo, i rapporti con al Chiesa, ecc.
A conclusione di questa mia testimonianza voglio ricordare, sempre prendendo questi dati dal citato saggio di Casula, che la sinistra cristiana, i cattolici comunisti, organizzarono una formazione partigiana nell’Italia centrale che fu una delle principali (oltre 1.000 partigiani riconosciuti), che Voce Operaia, organo di questo movimento, fu il giornale «clandestino» più diffuso, dopo l’Unità, che i nuclei della sinistra cristiana al nord, con Motta, Balbo, Sebregondi, Lombardini, T. Benedetti, L. Corti, e i gruppi operai furono così impegnati ad avere un loro ruolo nel Comitato di liberazione nazionale centrale. Tutto questo non solo per ricordare un contributo che ha avuto ripeto, nei suoi limiti, un indubbio significato teorico e pratico, ma per permettere di valutare a distanza che cosa di quel contributo possa essere oggi seriamente utilizzato.
Al di là perciò di ogni polemica e di ogni trionfalismo, la semplice lettura dei testi che furono l’espressione teorica di quella nostra esperienza e la valutazione dell’azione politica e organizzativa ad essi collegata, permette di meglio discutere alcuni temi non secondari che hanno permeato anche alcuni aspetti nell’esperienza del Concilio Vaticano II, e certe forme di analisi marxista della storia ampiamente oggi accettate da una significativa parte dei cristiani. Ma questa vicenda fornisce anche, io credo, un orientamento per valutare i limiti e gli errori di troppo facili e spesso astratte categorizzazioni in base alle quali alcuni fenomeni storici del «movimento cattolico», dall’interclassismo, al fiancheggiamento, all’integralismo, vengono discussi non nei modi che la storia e la politica permettono, ma un po’ alla maniera di don Ferrante, volendoli «cancellare» immediatamente perché sono «teoricamente inaccettabili», ossia non sono «né sostanza né accidente», rischiando così di creare quei disorientamenti, specie nella politica delle alleanze, che anche ultimamente il dirigente della sinistra cristiana cilena, Armando Uribe, ci ha drammaticamente denunciato sulla base della esperienza, tragica ma non singolare, del suo paese.
Gli avvenimenti che ho brevemente ricordato sono ormai lontani, ma il 1943 è un poco l’anno delle lotte drammatiche ma anche delle grandi speranze. Queste speranze si sono avverate? Per quanto ci riguarda, al di là dei facili pessimismi, troppo spesso affiorati in molte rievocazioni del 1943, debbo dire sostanzialmente di sì. I temi politici e ideologici che noi abbiamo allora, e anche dopo, affrontato, con posizioni che erano spesso «incomprensibili» o «inaccettabili» non solo dal Tribunale speciale, sono oggi tra i temi di fondo nella vita politica.
Le soluzioni non le dovevamo, non le dobbiamo trovare noi; andavano, e vanno cercate solo nelle lotte attraverso le quali gli uomini fanno la storia.


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