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Stereotipi e diversità: una riflessione
La parola decenza, come le parole dignità e decoro, derivano dal latino decens, participio presente del verbo decere, convenire. Per i Romani decente, dignitoso e decoroso erano aggettivi che stabilivano il grado di accettabilità di qualunque aspetto della vita sociale o di quella morale, con questo stabilendo rigide regole su cosa poteva o non poteva essere fatto, su cosa poteva o non poteva essere detto.
In una società fortemente gerarchizzata, senza una classe media e con un divario fortissimo tra molto ricchi e molto poveri, il sistema di regole serviva a tenere in piedi una struttura di potere che era evidentemente iniqua e che favoriva una piccola parte della popolazione tralasciando completamente tutta la restante.
Poiché tutti e tre gli aggettivi sono relativizzabili (qualcosa è conveniente rispetto a qualcos’altro o qualcun’altro) nel tempo hanno cambiato significato continuando però a rimanere affilatissime armi di controllo. Se per i Romani era naturale che un uomo di una certa età avesse apertamente una relazione con un bambino di 11 anni, per la Germania ottocentesca di Bismarck o l’Inghilterra della regina Vittoria era assolutamente indecente, se alla corte di Luigi XV era noto a tutti e considerato accettabile che Madame de Pompadour, amante del re, fosse una delle persone più potenti di Francia, per avere un primo ministro donna in tempi recenti bisogna arrivare a Sirimavo Bandaranike, primo ministro dello Sri Lanka tra il 1960 e il 1965.
Ieri un post pubblicato da questo sito con una foto dell’ultima sfilata di Marco Rambaldi ha scatenato polemiche accesissime perché la modella, Giulia Alleonato, non rappresenta gli standard di bellezza riconosciuti in Occidente e anche perché su di lei due semplici pezzi di maglieria sono risultati indecenti a molti (foto in apertura di questo articolo). Indecenti nel senso di inaccettabili e quindi brutti. O come si legge in molti commenti, di cattivo gusto.
Non possiamo, per motivi di spazio, entrare nella spiegazione del concetto di bellezza o di bruttezza ma se volete approfondire senza infilarvi in un trattato di estetica potete leggere Storia della bellezza di George Vigarello. Basta dire in generale che l’idea di bellezza è un costrutto sociale, che varia a seconda delle epoche storiche e della posizione geografica e che non esiste un principio assoluto attendibile a meno che non vogliamo credere che il nostro, cioè quello europeo, sia più vero di quello cinese, africano o indiano, dimenticandoci che il concetto di bellezza ideale è stato inventato da Joachim Winckelmann, archeologo settecentesco e teorico del neoclassicismo. Non esattamente un esteta rivoluzionario. Sulle categorie di buon gusto e cattivo gusto, a cui sembriamo essere così attaccati, invece possiamo dire un paio di cose. e per quanto ci sembri un periodo lontanissimo la nostra idea di decenza discende esattamente da lì. Centro pulsante intorno al quale si è formata la gran parte dell’estetica abbigliamentare moderna è il corpo delle donne e quanto a loro fosse concesso o considerato decente.
La prima questione è quali parti del corpo femminile possano o non possano essere scoperte, in che modi, in che termini e in che situazioni. Nell’Inghilterra Vittoriana il senso del pudore (da pudere, vergognarsi) non permetteva alle donne di scoprire neanche un centimetro di corpo e un polso o una caviglia potevano scatenare improvvisi eccessi erotici tanto che ogni più piccolo riferimento alla sessualizzazione del corpo femminile era considerato non solo sconveniente ma anche illegale. Questo perché la Regina Vittoria aveva deciso di incarnare la superiorità morale di una una monarchia che aveva sempre meno potere attraverso un modo di vivere impeccabilmente modesto, morigerato, vicino all’idea che abbiamo di clausura. L’ideale di puro ascetismo salvifico si salda in questo periodo storico alle lunghe vesti nere, ai corpi nascosti, all’understatement, per usare un termine moderno. Più la figura della donna, attraverso tutto l’800, viene marginalizzata, più i tratti del suo abbigliamento diventano rigidi e molti segni che oggi diamo per scontati assumono il significato che ancora gli riconosciamo. Potremmo anche dire che l’idea stessa che abbiamo di femminile nella moda si forma in un momento in cui gli uomini rinunciano totalmente alla decorazione e i pizzi, le rouches, i fiori e i ricami vengono associati alle donne che socialmente non hanno mai avuto un ruolo di così forte e manifesta inferiorità nei confronti degli uomini. Gli standard di accettabilità del corpo femminile (basso, alto, magro, grasso) sono costruiti invece intorno ad un ideale di corpo sano, facilmente sessualizzabile e commercializzabile. Quando nel 1959 appare la prima bambola al mondo a non rappresentare un neonato ma una donna, ha la pelle chiarissima, con forme piuttosto prorompenti, un costume zebrato e lo sguardo schivo che guarda da una parte. È mora ma in pochissimo tempo diventerà bionda. Si chiama Barbie e da allora ne sono state vendute 775 milioni incollando lentamente ma inesorabilmente l’ideale di bellezza atletica statunitense degli anni’50 all’inconscio di tutte le persone del mondo. Da quel momento, anche attraverso il cinema, dal paese che ha la più alta percentuale di persone obese al mondo ci arriva direttamente un riferimento estetico che rimarrà inscalfibile per molto tempo.
Ma è dallo stesso paese, gli Stati Uniti, che negli ultimi anni è partito un vero e proprio movimento di rivolta a tutti questi stereotipi e figure. E anche Barbie ha cominciato ormai da qualche anno a proporre un modello più inclusivo, che contempla la diversità dei corpi - tonalità della pelle, stature, forme differenti - la disabilità e anche, per fare solo qualche esempio, la vitiligine e l’alopecia.
Le nuove Barbie, come Beyoncé o Rihanna incarnano una maniera molto più aperta e inclusiva di concepire il corpo femminile e il modo in cui può essere rappresentato attraverso l’abbigliamento.
Marco Rambaldi in Italia sta seguendo esattamente lo stesso percorso e quella foto, che a molti è risultata così sconcertante è in realtà un punto di arrivo di un lungo percorso di liberazione da matrici culturali vecchie di secoli che dovremmo accogliere con gioia. Perché aprire vuol dire darsi la possibilità di essere felici.