Erano le 17 e stavo tornando a casa di mamma, ero passata a salutare papà; il mio animo era leggero, ero in equilibrio, nonostante lo zaino pesante sulle spalle.


“Lesbica” su una macchina non troppo sporca in una rara giornata di sole. “Lesbica”: cosa c’è di male a sottolineare una realtà?


Ho sempre una valigia pronta, quella di scorta; salto tra Milano, il paesello di montagna e il Polesine, basso Veneto. Tre sassi nell’acqua che mi aiutano a rimanere a galla. Su questi tre sassi raccolgo storie più o meno piacevoli, talvolta l’equilibrio diventa precario, ma è un po’ come quando dai un pugno al sacco da boxe piazzato per terra: oscilla, oscilla ripetutamente, per poi tornare in posizione verticale.


Era una giornata che ospitava un sole strano per essere in Polesine; strano perché normalmente l’arco temporale che va da Novembre a Febbraio, accoglie con protezione materna la nebbia, che è permanente. Forse è per questo che i cuori diventano più grigi, meno trasparenti. Ma quella giornata era una giornata di sole, ed erano le 17.


Erano le 17 e stavo tornando a casa di mamma, ero passata a salutare papà; il mio animo era leggero, ero in equilibrio, nonostante lo zaino pesante sulle spalle. Ed è stato proprio il gesto di mettere lo zaino nel baule che mi ha fatto notare qualcosa. Infatti, nella porta del baule della mia macchina, sulla destra (l’unico punto un po’ più impolverato), leggo “Lesbica” disegnato accuratamente da dita fuorvianti. Mi fermo, mi allontano, riguardo. “Lesbica”.


Ok – mi sono detta – cosa c’è di nuovo? Ho sorriso.


Ho sorriso delicatamente; è triste pensare che dietro quel gesto si celi una volontà cattiva, quella magari di sconfortarmi, di farmi sentire la sagoma sbagliata in un mondo che si professa pieno di giusti, di farmi sentire semplicemente diversa. Diversa rispetto a chi? È proprio questo il nodo terminale della questione: chi dimora ancora in corpi fragili convinti che la parola diversità porti in serbo una connotazione negativa.


Ho sorriso delicatamente; dita fuorvianti convinte di indurmi al disequilibrio. Niente di tutto questo.


Ho preso con forza la mia mano destra e ho cancellato, pulendo anche quell’angolo impolverato, prima disegnando una linea orizzontale, poi dei cerchi. E quasi quasi mi stavo divertendo a farlo.


Ci ho pensato dopo: avrei potuto quasi farne uno sticker da attaccare alla macchina, un po’ come chi ha la mela bianca perché è un fanatico di Apple, o chi ha un garage pieno di Harley Davidson ornate di targhette incollate. Alla fine, cosa mi avete detto di sbagliato?


Nella considerazione del termine cambia la prospettiva. Mi spiego: puoi guardare questo stesso disegno da due diverse angolazioni, e mi auguro che la tua sia la prima che citerò.


La prima, quindi, come un semplice dato di fatto, una realtà, e non c’è niente di male a definire una realtà.
La seconda, ahimè vi è una seconda, pensare a questa realtà come un insulto, un target che riflette una luce sbagliata, impropria, infelice. Una luce impropria che illumina il possessore di quel dito mesto che ha deciso, quel giorno, di disegnare sulla mia macchina.


Anche questa volta, missione fallita se, in te, caro possessore del dito mesto, si celava l’intento di procurare sofferenza. Non me la prendo, non me la sono mai presa. Me la dovrei prendere per una verità che mi è stata messa davanti?


Sono dispiaciuta per te. Mi dispiace per la tristezza che accomuna i cuori di chi disegna sulle macchine, di chi cerca di offendere, di chi cerca di ferire; cuori discriminanti, cuori di una freddezza mortale. Colpiteli, scaldateli con un po’ d’amore e vedrete che passerà. Passerà la vostra sofferenza; passerà la vostra codardia e viltà di farvi piccoli piccoli e nascondervi davanti alle mille forme della vita e ai suoi amori e disamori.


Testimonianza scritta di Francesca Pregnolato


Redattore: Giuliano Federico

Fonte:

https://www.gay.it/mi-hanno-scritto-...sulla-macchina