di Umberto Cerroni – «Rinascita», a. XXX, n. 35, 7 settembre 1973, p. 48.


In una intervista riferita da Gideon Bachman (Il Messaggero, 24 agosto 1973), Pasolini aggredisce giustamente il «mito dell’azione» e rileva che, caratteristico dell’irrazionalismo attivistico del fascismo, esso non manca di infiltrarsi anche nella sinistra anche se palesemente contrasta con l’impianto razionale dell’analisi marxista del rapporto realtà-pensiero. Pasolini definisce questo pericolo in cui incorre la sinistra come pericolo della «prevalenza dell’azione sul pensiero» che propugna «un tutto asservito all’azione, all’utilità pratica immediata». Ha ragione da vendere. Su quella «prevalenza» si costruisce ben altro che un’azione rivoluzionaria: ne nasce più spesso un orizzonte appiattito della rivoluzione, entro cui cessano di funzionare le ragioni stesse della rivoluzione. È un po’ la conclusione fatale della violazione di un’azione che scaturisce invece dalla rilevazione razionale degli scompensi intrinseci della società borghese e delle tendenze che emergono dalle regolarità della storia moderna. La mitologia dell’azione, e più precisamente la concezione pragmatica dell’universo culturale, deve abbandonare necessariamente ogni concezione «regolare» del mondo, per conferire poi tutto il potenziale creativo sottratto alle differenti specie dell’esistenza a un unico demiurgo: la rivoluzione, il partito, il capo. Ognuno di questi originari strumenti del movimento si carica allora di finalismi e sale al livello di una hegeliana eticità.
Di contro a questa mitologia dell’azione, però, può capitare di cadere in una sorta di intellettualismo che allontana dall’azione o che l’accetta solo per convenzione (come inclina a fare – sembra – Pasolini). In realtà la distruzione del mito pragmatico dell’azione è data piuttosto dalla costruzione di un’azione razionale. Che costituisce proprio il compito specifico dell’intellettuale: di quello individuale come di quello collettivo. Al termine dell’intervista Pasolini afferma di voler fare film senza ideologia per il gusto che ha preso alla concretezza. Nulla da obiettare. Purché la concretezza non costituisca la fine non già delle ideologie (che nessuno difende come tali), ma delle idee (che tutti dobbiamo difendere come tali).

Cultura e selezione

Giovanni Spadolini ha riferito sulla Stampa (25 agosto 1973) di un suo recente viaggio in URSS mostrandosi entusiasta del criterio rigorosamente selettivo adottato dall’Università sovietica sia per il reclutamento dei docenti sia per l’ammissione e formazione dei discenti. Ha anche riconosciuto che il diritto allo studio è garantito realmente a tutti e che il numero chiuso è stabilito in relazione alla programmazione delle necessità pubbliche e dei posti di lavoro. È utile essere chiari su tutto ciò. Nei problemi della cultura e della scienza va osteggiato il criterio della selezione sociale e cioè del classismo esplicito o implicito, non quello della selezione dei meriti. Questa, però, è ovviamente inquinata finché quella non è eliminata e diventa possibile (veritiera) soltanto con un cambiamento dei rapporti sociali. Nel frattempo, però, non è vero che non si possa far niente o che si debba esaltare la selezione dei meriti rifiutando o omettendo la rimozione della selezione classista. Basta avere un altro modello ideale. Sarebbe già molto importante, infatti, porre all’ordine del giorno un reale diritto di tutti allo studio e una programmazione effettiva dell’economia. Altrimenti l’ammirazione per le realizzazioni sovietiche diventa equivoca.

Della disperazione

Moravia (Corriere della Sera, 12 agosto 1973), Guarini (Il Messaggero, 18 agosto 1973), Siciliano (Il Mondo, 20 agosto 1973), Arpino (La Stampa, 17 agosto 1973) si sono pronunciati sulla disperazione o non-disperazione degli intellettuali italiani. Ferrarotti (Paese Sera-Libri, 24 agosto 1973) annota giustamente una contraddizione di Moravia che condanna l’umanesimo retorico del letterato italiano e respinge poi ogni ricerca in direzione del tipo di società in cui vive (e da cui è espresso), ricadendo così nel vizio «umanistico» di una cultura rinchiusa in sé. Bisogna fare attenzione alle virgolette. Perché è ora di constatare che non c’è proprio niente di umanistico nel radicalismo intellettualistico che rifiuta la conoscenza critica della propria storia e che mette capo a una cultura separata che può al più discettare sulla disperazione della non-disperazione. Questo tipo di cultura è oggi un freno alla maturazione intellettuale moderna anche per il fatto che suscita contro di sé l’opposizione semplicistica di certa cultura «impegnata» (tra virgolette) per la quale la trasformazione sociale sarebbe l’automatica risoluzione del dramma dell’intellettuale moderno.
Per rimuovere la contraddizione di Moravia occorre evidenziare anche l’altra contraddizione di chi, chiamando in causa la struttura della società per rimuovere la drammatica situazione dell’intellettuale separato, conclude poi col negare l’esistenza di una specifica storia intellettuale della disperazione moderna: che di fatto può anche continuare dopo la fine del capitalismo. Il problema mostra così tutti e due i suoi versanti: la storia strutturale e quella sovrastrutturale, diciamo, della disperazione moderna. Giacché l’isolamento drammatico dell’intellettuale nasce da un tessuto sociale atomistico ma riceve poi forza e sanzione da una specifica tradizione culturale «umanistica»: quella che rinchiude l’intellettuale nella disperata dialettica di essere solo o di servire. Nella nuova società occorre trovare un ruolo storico all’intellettuale sia come forza sociale sia come ricercatore di verità. Solo su questa strada si può prospettare la fine dell’intellettuale disperato e di quello soddisfatto: dell’intellettuale-zingaro e dell’intellettuale-mosca cocchiera. C’è ancora da imparare da Gramsci!

Privilegiati o salariati?

È bene dire – in continuazione – che gli intellettuali sono anche dei privilegiati (e non soltanto dei disperati). Scrive un attento studioso sovietico in un volumetto dedicato alla condizione degli intellettuali italiani (V. B. Kuvaldin, Intellighentsija v sovremennoj Italii, Moskva 1973, pag. 242): «Gli intellettuali vanno sempre più trasformandosi in salariati che vivono della vendita della propria forza-lavoro e in subordinati della organizzazione capitalistica del lavoro. Al contempo essi conservano il monopolio di complessi tipi di lavoro intellettuale che conferiscono il diritto ad una intera serie di corposi privilegi sociali. La loro attività nella sfera della scienza, della cultura, dell’organizzazione sociale viene apprezzata solo nella misura in cui è funzionale al sistema sociale esistente, ma essi conservano la priorità dei creatori e diffusori dei valori scientifici e culturali e i diritti e le possibilità ad essa connessi».
È un privilegio sociale (e perciò un rapporto antiegualitario, da sopprimere), che tuttavia sospinge verso la soppressione di ogni privilegio sociale. Tra le possibilità incluse in quel privilegio v’è infatti quella di raggiungere – come si leggeva nel Manifesto di Marx ed Engels – «la comprensione teorica dell’andamento generale della storia» e di schierarsi, perciò, con la classe operaia. Vero è che la massificazione della cultura accentua oggi la dequalificazione della massa intellettuale ma l’intellettuale, come nota ancora Kuvaldin, «è uno strato sociale che conserva la possibilità di innalzare il livello della propria qualifica». È infatti uno strato sociale che nella esistente divisione del lavoro svolge un tipo di lavoro che radicalmente contrasta, nel profondo, proprio con il lavoro diviso: è un lavoro specifico che consiste in una funzione generica: del genere umano.
Qui sta la radice profonda della contraddizione dell’intellettuale moderno e qui sta anche la matrice della sua sostanziale vocazione a revocare in dubbio il sistema sociale costituito, ivi compresa quella tradizione «umanistica» che si è costruita sulla divisione-contrapposizione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale e che scambia perciò facilmente l’attività spirituale con la proprietà privata. Guai però a cadere nell’errore di segno contrario e scambiare l’operaio foggiato dai rapporti sociali capitalistici come modello del genere umano. Al contrario: l’intellettuale rivoluzionario deve battersi per la soppressione di tutte le configurazioni storiche limitate in cui oggi si incarna un sistema sociale basato sullo sfruttamento e sulla divisione in classi: deve battersi per la soppressione non soltanto della borghesia ma anche del proletariato e persino dell’intellighentsia come corpo sociale per sé stante. Lo sbocco finale della critica della divisione in classi è infatti proprio la soppressione delle classi: l’unificazione del genere al suo più alto livello, che è dato appunto dall’attività intellettuale.


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