di Paolo Spriano – «Rinascita», a. XXX, n. 33, 24 agosto 1973, p. 28.


Si suol dire, quando si parla di un amico illustre, che esso non ha bisogno di presentazione e tanto più il luogo comune andrebbe invocato per un uomo come Eric J. Hobsbawm, ben noto al pubblico italiano per i suoi studi, anche sulla storia del nostro paese, e in particolare ai lettori di Rinascita per le sue brillanti cronache del Regno Unito. Ma è poi vero? Hobsbawm ha pubblicato l’anno passato, per suggerimento di Corrado Vivanti, in edizione italiana (Einaudi, Nuova biblioteca scientifica) i suoi straordinari Studi di storia del movimento operaio; ma, se non erriamo, il volume è passato quasi senza eco nelle stesse riviste di sinistra. Eppure, quel libro, quei saggi – che non sappiamo se per provincialismo, trattandosi di studi sul movimento operaio inglese, sulla storia e sul dibattito economico inglese, con tendenze e tradizioni commisurate costantemente alla interpretazione di Marx, non hanno fermato neppure l’attenzione della critica marxista militante – sono una grande lezione di metodo, sono uno dei rari casi in cui è lecito parlare di storiografia marxista.
Già Giuliano Procacci, al tempo dell’edizione inglese di questi saggi (cfr. Rinascita, n. 13, 1965) notava il chiarimento che essi apportavano ai problemi teorici legati alla storia del movimento e richiamava l’attenzione del lettore sul modo come l’autore collega lo studio dei cicli economici a quello dell’evoluzione dell’organizzazione sindacale. Il metodo comparativo ispira tutta la raccolta degli Studi e la scelta di prendere l’uno o l’altro di essi come spunto per un discorso generale è imbarazzante. Soltanto l’insieme della ricerca ci dà il senso del carattere originale che contiene la vicenda storica – così lunga – della classe operaia britannica, con la sua carica pioneristica, di laboratorio e di modello per l’organizzazione.
Si scorgono i lineamenti, la corposa realtà, i limiti dell’«aristocrazia operaia» nel secolo XIX, l’incidenza dell’imperialismo, anzi, per un certo periodo, del monopolio mondiale del capitalismo inglese, su quello che Marx chiamava il «proletariato borghese», non soltanto nello strato privilegiato degli «artigiani» ma in gruppi importanti di lavoratori fino allora mal pagati. E, non meno nettamente, si mostra il formarsi di una vigorosa coscienza di classe nel periodo della Grande Depressione (in specie dal 1880 al 1895), l’aspirazione al socialismo che è fatta soprattutto di un diffuso rifiuto del capitalismo, di una radicalizzazione sociale che la stratificazione rigidamente gerarchica della società inglese alimenta. Senonché, il punto più appassionante dell’analisi è il discorso che l’autore sviluppa partendo dalle note tesi di Lenin sulla «spontaneità» del movimento di classe. Quella «spontaneità» – aggiunge l’Hobsbawm – non ha soltanto un segno e un traguardo «tradeunionistico» bensì anche l’altro, non meno sterile, di un vago utopismo sui sistemi sociali alternativi. Caratteristico dell’evoluzione dell’ultimo mezzo secolo del movimento operaio britannico è il fatto che la sinistra ne è sempre stata una parte importante e integrante, pur restando molto meno efficiente della destra, tranne che in momenti occasionali di estrema tensione sociale. Al massimo, la sinistra ha avuto una funzione propulsiva nel senso di «rendere il riformismo effettivamente riformista». Il modello premarxista del laburismo inglese, l’inerzia teorica, la mancanza di una forte coscienza politica, hanno determinato questo prevalere riformistico. L’Hobsbawm aggiunge un’altra considerazione interessante: il sospetto verso gli intellettuali, così caratteristico del laburismo, perpetua la ristrettezza del movimento, anzi la accentua.
Simile discorso sociale, politico, culturale, riceve oggi un nuovo alimento da un’altra opera dello Hobsbawm, la sua storia economica della Gran Bretagna dal 1750 ai nostri giorni (praticamente fino al governo laburista del 1964) che lo stesso Einaudi ha ora pubblicato nella PBE, col titolo La rivoluzione industriale e l’impero (pagg. 416, L. 2.800). È un libro di grande lettura, ben al di là di un manuale, anche se si tratta di un lavoro di sintesi. «Ho cercato – scrive l’autore nella prefazione – di descrivere e di spiegare l’ascesa della Gran Bretagna come prima potenza industriale, il suo declino dal temporaneo predomino pioneristico, le sue relazioni con il resto del mondo e alcuni effetti che questi avvenimenti hanno avuto sul popolo britannico». Spiegare l’ascesa della Gran Bretagna significa appunto affrontare il problema del perché essa sia diventata la «prima officina del mondo», e del perché questo sconvolgimento sia avvenuto alla fine del XVIII secolo e non prima né dopo. Ora, l’interesse della riflessione dell’autore sta anzitutto nel suo modo di procedere all’identificazione dei termini del problema smantellando tutta una serie di spiegazioni che «si riallacciano ad elementi puramente esogeni», o parlano di «accidenti storici». Condizioni favorevoli del mercato interno, condizioni favorevoli del mercato estero, governo: questi, secondo Hobsbawm, i tre fattori che consentirono non soltanto l’accumularsi del materiale per l’esplosione economica, ma il suo prendere fuoco.
Inutile qui riprendere la fitta narrazione dell’autore che, essa stessa, si alimenta e rifulge nella descrizione dell’esplosione. «Chi dice rivoluzione industriale dice cotone». Manchester passa in settant’anni da 17.000 abitanti a 180.000, con centinaia di fabbriche «a cinque e sei piani, ciascuna con a lato un’alta ciminiera che espelle vapori di carbone nero». La città diventava un vulcano; ma non si creda a un parallelo processo di democratizzazione sociale. C’è più distanza – scriveva un pastore inglese della prima metà dell’Ottocento – tra un padrone di filanda e i suoi operai che tra il duca di Wellington e i suoi braccianti. Quanto sia stato alto il costo umano dell’industrializzazione è forse superfluo rammentare dopo le celebri pagine di Engels, ma l’autore ne dà comunque un tratto vivacissimo, descrivendo le «ondate di disperazione», i tumulti delle aree agricole, l’impoverimento dei lavoratori, quando la classe media «trasudava capitali». Dal cartismo si passava al riconoscimento delle «Trade Unions» e l’evoluzione del movimento operaio britannico, intorno al 1870, si adattava all’idea che il capitalismo «non era una catastrofe temporanea».
Se, nei saggi che abbiamo prima citato, Eric J. Hobsbawm ci faceva seguire tutta la parabola del movimento, qui, nel volume sulla rivoluzione industriale e l’impero, il quadro si allarga nella considerazione dell’intera piramide sociale inglese nell’epoca medio-vittoriana. Le campagne si spopolano: nel 1851 soltanto due milioni di inglesi, su nove che lavorano, sono ancora impiegati nell’agricoltura, nel 1915 la percentuale è scesa a meno dell’8%. Londra superava i cinque milioni di abitanti prima della fine del secolo scorso ma il divario esistente tra la cima e il fondo della società non tendeva affatto a diminuire. I ricchi restavano ricchi, smisuratamente, anche se i grandi proprietari terrieri si lamentavano di essere in difficoltà. «Negli anni settanta del secolo scorso i ragazzi dagli undici ai dodici anni delle public school riservate alla classe superiore erano in media cinque pollici più alti di quelli delle scuole industriali… Il nostro era un paese abitato da una stoica massa composta di quanti erano destinati a trascorrere tutta la vita appena a un incerto livello di sussistenza prima che la vecchiaia li ammucchiasse tra i relitti umani denutriti, malamente alloggiati e vestiti, di cui si occupava la legislazione sui poveri. Se si fanno raffronti coi livelli di vita del 1965 o anche del 1939, l’ascesa della classe operaia a un livello di vita modestamente umano era appena incominciata».
Non meno appassionante dell’analisi del processo d’industrializzazione, della sua estensione, dei caratteri dell’imperialismo britannico nel secolo scorso, è l’attenzione che il libro dedica all’inizio del declino dell’economia britannica e delle sue ragioni. Anche in questo caso si procede partendo da varie «spiegazioni» sociologiche e psicologiche che l’autore elenca ma senza essere affatto convinto della loro attendibilità e si arriva al cuore del problema accettando e illustrando la migliore spiegazione economica della perdita di dinamismo. Hobsbawm fa sua un’osservazione di Habbakuk e scrive che tale perdita fu «il risultato in definitiva del lungo sforzo iniziale e senza precedenti sostenuto come potenza industriale». L’industrializzazione creò, cioè, in Inghilterra, un sistema di produzione e di mercati che non sarebbe necessariamente rimasto il più adatto a sostenere lo sviluppo economico ulteriore e l’evoluzione tecnica. Cambiare da un modello vecchio ed antiquato a uno nuovo era nello stesso tempo costoso e difficile.
Ciò non significa che l’economia industriale inglese non abbia vissuto anche essa, in specie nel periodo tra le due guerre, il passaggio ad un’intensa concentrazione, anzi è vero il contrario. La concentrazione ci fu, la fede nella libera concorrenza morì rapidamente e senza spasimi. Ma in che modo avvenne? L’osservazione dell’autore su questo punto è particolarmente interessante per noi. «La concentrazione economica che ebbe luogo tra le due guerre non può essere giustificata dal punto di vista dell’efficienza e del progresso. Era massicciamente restrittiva, difensiva, protettiva. Era una cieca risposta alla depressione, tendente a conservare alti profitti eliminando la concorrenza, o ad accumulare una grande quantità di capitali miscellanei che in nessun senso erano produttivamente più razionali che i loro componenti indipendenti originari, ma che permettevano ai finanzieri degli investimenti per i capitali eccedenti o per i profitti derivanti dalla spinta data alle società. La Gran Bretagna diventò un paese non competitivo in patria non meno che all’estero».
Un discorso a sé meriterebbe l’esame, che viene fatto nella parte conclusiva dell’opera, del ruolo svolto dall’intervento statale (in particolare coi governi laburisti del dopoguerra) della sua incidenza sociale oltreché economica. L’autore, dopo avere sottolineato l’importanza dell’intervento statale per quanto riguarda le abitazioni, l’istruzione e, dal 1948, l’assistenza sanitaria, ha notato come, invece, l’espansione dell’azione statale abbia influito molto poco sulle fonti sostanziali di reddito della maggioranza, cioè sui salari e sugli stipendi, e ancora meno sulla struttura degli affari, considerandosi lo Stato qualcosa di non veramente distinto dall’industria privata.
Come questi aspetti, così numerosi, altri nodi e contraddizioni della Gran Bretagna contemporanea vengono toccati, colti, espressi nella forma più problematica al lettore, il che non è soltanto il modo migliore di fare opera di sintesi storica, è anche un incentivo a considerare l’insieme come materia di ulteriore discussione, aperta a differenti soluzioni. «Il trionfo della Gran Bretagna – scrive, concludendo il suo lavoro, Eric J. Hobsbawm – fu quello del pioniere in questa fase storica e il suo declino fu quello di un intero sistema economico mondiale». Detto questo, è evidente che la curiosità dello storico non ne viene perciò placata. Egli deve semplicemente ammettere che non è ancora in grado di scorgere tutti i lineamenti di un’evoluzione futura.
E il nostro amico non sarebbe, come invece è, il degno erede di una grande tradizione storiografica, se non avesse il gusto ironico di avvertire proprio quel lettore, che sapientemente ha condotto per mano lungo due secoli di storia inglese, che nel suo libro sono state date per note le linee generali di quella storia.
«È perciò opportuno che i lettori che ignorano completamente ciò che furono le guerra napoleoniche o non conoscono personaggi come Peel e Gladstone si informino su questo altrove». E, infine, non si considererebbe un inglese sincero se non aggiungesse: «La Gran Bretagna era nei primi anni ’60 un paese in cui mai era stato così confortevole vivere, un paese che mai era stato più divertente, ma dal punto di vista dello storico, un paese assai meno importante di un tempo».


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