di Giovanni Spadolini – «La Voce Repubblicana», 2-3 ottobre 1981


Piero Fossi, cui è dedicato il libro dello storico Cosimo Ceccuti, fu uno degli intellettuali protagonisti della lotta per la libertà negli anni del difficile trapasso dal fascismo alla Repubblica. Il tentativo di sottrarre l’Italia democratica all’alternativa esclusiva fra destra cattolica e sinistra marxista.


Caro Ceccuti,
Dicembre 1978. Partecipando a un dibattito con l’amico Norberto Bobbio sul tema della «terza forza, terza via» (nel pieno della polemica fra i partiti della sinistra italiana dopo il ritorno a Proudhon), ricordavo ai numerosissimi studenti convenuti quel giorno nell’aula magna dell’università di Genova come la formula «terza via» fosse di moda già alla metà degli anni trenta non meno che ai nostri giorni. Il New Deal rooseveltiano fu giudicato una forma efficace ed esportabile di «terza via» nella crisi generale che investiva i modelli del capitalismo occidentale non meno di quelli del comunismo sovietico: il «socialismo liberale» di Rosselli – che taluno confonde ancora oggi col «liberal-socialismo» dell’amico Guido Calogero – acquistava dignità di «terza via» nel mondo dell’emigrazione antifascista, percorso della consumazione dei vecchi schemi dottrinati e partitici. Il «neo-socialismo» di De Mun – che finì come finì – coincideva con una terza ipotesi di soluzione dei problemi sociali, fuori da marxismo e liberismo. Perfino il corporativismo di Ugo Spirito assurgeva a livello di «terza strada» nelle dispute dei GUF o nelle ali marginali di un certo fascismo ereticale, quello cui fa costante riferimento Giorgio Amendola e che non mancò di stimolare la mano tesa di Togliatti…
Ma sempre la polemica sulla «terza via», in quella prima embrionale versione, investiva il rapporto capitalismo-comunismo, non era mai alterna al mondo, o alla problematica, socialista. Anche nell’immediato dopoguerra i ritorni di fiamma di quell’insegna suggestiva avvennero all’ombra di un ponte fra i due mondi: e «Ponte» si chiamò non a caso a Firenze la rivista più genuina e più espressiva del partito d’azione, quella fondata e animata da Piero Calamandrei.
Tutto lo sforzo eroico del partito d’azione, che attende ancora il suo storico (e i tempi ormai sono maturi: bruciate quelle passioni, fallite tanta parte di quelle speranze), si fondò sul tentativo disperato, e purtroppo inutile, di elaborare una «terza via» dell’organizzazione sociale fra la grande tradizione liberal-democratica dell’Occidente, che gli esuli rosselliani avevano visto quasi vacillare e piegare, negli anni trentacinque, di fronte all’ondata totalitaria fascio-nazista, e le esperienze del «socialismo reale» inapplicabili come tali in società industriali tendenzialmente avanzate, o comunque suscettibili di avanzamento, come l’Italia.
Il richiamo alla terza via ci porta al discorso sulla «terza forza». È una polemica che accompagna la vita italiana dalla cospirazione antifascista e dai primi mesi della Liberazione: può esistere una terza forza fra area comunista-marxista e mondo moderato, identificato troppo semplicisticamente con la DC?

Una direttiva di marcia

Anche il sogno della terza forza fu il sogno del partito d’azione. E qui non siamo nell’area socialista, o vi siamo solo in piccola parte. Proprio perché interprete di una soluzione «terzaforzista», nuova rispetto ai vecchi schemi giudicati logori, alle vecchie insegne consunte o screditate, il partito d’azione non volle mai chiamarsi socialista e quando scelse, con una lieve tormentata maggioranza, il socialismo, si spaccò e si disperse al Congresso di Roma del 1946. Tutti i tentativi successivi di terza forza, da «democrazia repubblicana» di La Malfa e Parri, fino ai progetti di federazione laica del «Mondo» di Pannunzio, all’alleanza repubblicani-radicali, non hanno ricevuto il conforto dell’elettorato ma hanno comunque significato una direttiva di marcia laica, progressista, riformatrice, mai socialista.
Sono riflessioni che mi tornano in mente leggendo le pagine antologiche di scritti giornalistici di Piero Fossi, in quegli anni dell’immediato dopoguerra, e le tante lettere tuttora inedite comprese nell’archivio privato fiorentino. Fra i documenti di vivo e stimolante interesse, merita un cenno un rapido scambio epistolare con Ugo La Malfa, nel maggio del 1948. Poco più di un mese è trascorso dalla consultazione elettorale del 18 aprile, che ha segnato il trionfo della DC sul fronte di sinistra ed ha ridimensionato, sul piano delle cifre e della rappresentanza parlamentare, il peso specifico dei partiti laici, delle forze intermedie, dai liberali ai repubblicani, ai socialdemocratici, alle ultime personalità dell’azionismo.
Fossi, che è approdato al Partito repubblicano seguendo lo stesso itinerario politico di Ugo La Malfa, dal partito d’azione a «Democrazia repubblicana», esprime all’amico – tenuto ancora a una qualche distanza dai vertici del PRI – una viva preoccupazione per le «deficienze di organizzazione» e per i «contrasti nella direzione del partito» divenuti «assai gravi», tali da «minare lo sviluppo del partito stesso».
La Malfa lo acquieta, con quel suo stile essenziale, volto alla concretezza dei risultati. «Nella direzione si imposterà il problema dell’organizzazione del partito. Se lo risolveremo bene, tutto il resto andrà per il proprio verso». E alla postilla di Fossi, che chiedeva in calce alla lettera un giudizio sulle «riunioni di terza forza» che si andavano svolgendo a Firenze e delle quali era a conoscenza, risponde con una frase ancora più stringata, emblematica e rivelatrice. «Per quanto riguarda la terza forza, è una vera pietà».
Affiora, nel giudizio di La Malfa, l’amarezza per i tentativi rimasti incompiuti, al pari della delusione del 18 aprile. Ma non erano comunque le riunioni volte a ricercare possibili alleanze post-elettorali fra gruppi alla ricerca di accordi volti a interessi locali ad incarnare quella «terza forza» che gli antichi azionisti – da Parri a La Malfa, da Salvatorelli a Tino, a Vinciguerra, a Piero Fossi – avevano auspicato.
È lo stesso Fossi a rievocare (come più tardi farà De Ruggiero) in un articolo del gennaio 1945 i primi incontri a Roma, fra ’43 e ’44, fra uomini di diversa origine culturale, impegnati a riunire le forze sinceramente democratiche, nell’intento di pubblicare un periodico che rappresenti la sintesi e il punto d’incontro di un comune impegno politico e civile. «Ci riunivamo – ricorda Fossi – all’ultimo piano di un vecchio palazzo romano in via del Gesù, in un appartamento mobiliato ma disabitato, signorile, spirante un’aura di calma grazia settecentesca sopra i tetti della vecchia città, dove i raggi del sole al tramonto creavano uno strano contrasto con i volti chiusi e severi degli uomini che vi si riunivano». Fra quei personaggi provenienti dalle diverse regioni italiane, Carlo Antoni e Umberto Morra, Pietro Pancrazi e Guido De Ruggiero, un nome che fu molto caro alla mia adolescenza, uno dei grandi intellettuali dell’Italia della ragione che oggi si tende a dimenticare.
Era stata di De Ruggiero, ancora prima dell’esperienza ministeriale alla Pubblica Istruzione affrontata con tanta dignità e sapienza nel primo governo Bonomi, l’idea della rivista, assistito sul piano economico organizzativo da Raffaele Mattioli, altra figura che amo ricordare. Il titolo inizialmente previsto, quanto meno curioso, era «Il Vaglio», cioè scelta dei veri problemi da risolvere fra i tanti che angustiavano il paese. Quasi un’eco della lontana illuministica «Antologia».
La rivista sarebbe sorta più tardi, alla fine del ’44, animata e diretta da Luigi Salvatorelli con Mario Vinciguerra, altre figure che popolano il mondo di Piero Fossi in quegli anni. Si sarebbe chiamata «La Nuova Europa». E sulla «Nuova Europa» il 15 luglio 1945 Salvatorelli avrebbe pubblicato un fondo dal titolo singolare e suggestivo, Il partito della democrazia
Siamo agli inizi del governo Parri, il primo e solo governo che abbia alla testa un credente nel laico «partito della democrazia» non marxista, non classista, esponente della borghesia illuminata e illuminista che ha resistito al fascismo, che l’ha combattuto a viso aperto, che ha ispirato e guidato la lotta di liberazione. Sembrerebbe, il titolo di quell’articolo, paradossale o inattuale. Eppure Salvatorelli guarda lontano; egli sente quanto sia debole, e squilibrato, il quadro politico complessivo. Avverte e denuncia i limiti del confessionalismo democristiano; sottolinea le contraddizioni e i confini insuperabili delle due forze che in modo diverso si richiamano al marxismo. Sente la vocazione liberale-conservatrice, piuttosto che liberale, del partito che pure si onora del nome di Croce. Auspica una forza nuova che si fondi sull’idea di democrazia pura, «democrazia interclassista o superclassista, ed extra-confessionale». Rileva che almeno tre partiti si muovono in quella direttrice: il partito d’azione, il partito repubblicano, il partito democratico del lavoro.
Il terzo residuo del vecchio e stanco radicalismo, non era amato da Salvatorelli, e la collezione della «Nuova Europa» ne è la prova. Il primo – incalza l’articolista, con giudizio storico, e non di militante – è il più vicino a quell’idea, o il meno lontano: ma l’autore ne scorgeva l’interno travaglio, viveva intera la dicotomia fra l’anima socialista e l’anima democratico-riformatrice, che poi porterà alla spaccatura del ’46. Il secondo sarà, dopo la scissione azionista, il partito di Salvatorelli, quello cui si avvicinerà l’uomo che aveva rilanciato Cattaneo, nel silenzio degli anni del regime fascista, fin dal 1935, nelle pagine sul «Pensiero politico», e riscattato Mazzini da tutti i tentativi di deformazione o usurpazione della storiografia nazionalista. Gli stessi anni trenta nei quali Fossi portava avanti gli studi e le riflessioni sul cattolicesimo liberale, su Rosmini e Manzoni. Così ricche d’affetto, così emblematiche di un mondo e di uno stile.
A chi deve rivolgersi, si chiede Salvatorelli, il nuovo partito? «Partito di individui, e non di mezzi». E di individui ben compositi e articolati. «Possono essere, anzi sono, liberali, ma non accettano la concezione speciale del liberalismo del partito liberale; possono essere credenti, anche cattolici ortodossi, ma non accettano il confessionalismo democristiano; possono essere, anzi sono, profondamente persuasi della necessità di una larga, innovatrice politica sociale (socialisti, nel senso ampio, tendenziale della parola), ma non socialisti del classismo marxistico rappresentati dai due partiti proletari. Individui in questa posizione e disposizione politica se ne trovano dappertutto, e anzi entro gli stessi ranghi dei quattro partiti, in cui l’uno o l’altro di loro è entrato, in mancanza di meglio, e si trova a disagio. Come ceti sociali, dobbiamo pensare alla piccola e media borghesia e (almeno virtualmente) ai gruppi più qualificati del proletariato, con netta prevalenza tuttavia delle prime categorie sociali».
Ricondurre nell’ambito della democrazia le componenti più vive del mondo del lavoro: sarà questo l’obiettivo di fondo di Piero Fossi, nella fedeltà alle più alte tradizioni dell’associazionismo mazziniano, che sempre contrappose al sorgente potere, o prepotere, sindacale. Civiltà del lavoro si intitola, non a caso, un articolo riprodotto in questo volume, pubblicato sul «Corriere del mattino» – la testata che dirige «come se si fosse trattato del “Corriere della Sera”» di Albertini, scriverà più tardi Devoto elogiandone l’impegno – il 1° maggio del 1945: appena un paio di mesi prima dell’articolo di Salvatorelli sul partito della democrazia. Civiltà del lavoro significa per Fossi riconoscere sì il lavoro a base della nuova società democratica, ma nel rispetto degli istituti liberali, del metodo democratico. «Vi sono alcune correnti marxiste che, per la logica e l’impeto della lotta da esse condotta, tendono a concepire la democrazia come il predominio di una classe; in ciò non sappiamo seguirle – si legge nell’articolo -. Poiché ci sembra questa una concezione restrittiva della civiltà del lavoro, un passo indietro nella completa democrazia; e d’altra parte non sarebbe possibile attuarla presso di noi senza restrizione dei diritti di libertà che garantiscono la stessa base ideale di ogni democrazia».

Nessun cedimento alle illusioni

Come Salvatorelli, Fossi non ha ceduto neppure un istante alle illusioni e ai miti dell’immediato dopoguerra sulla concreta possibilità di realizzare «un partito unico del lavoro» che avrebbe dovuto superare le differenze fra socialisti e comunisti, prima che fossero sciolti i grandi nodi, ideologici e internazionali, che neanche la comune lotta antifascista aveva districato. Al pari di Luigi Salvatorelli, nella saldatura auspicata fra i ceti medi e il proletariato egli vede la prevalenza dei primi, nonostante gli orientamenti e le polemiche dell’ora.
Fossi guarda in realtà con simpatia alle esperienze europee del laburismo britannico e del socialismo dei paesi nordici, ma non si crea facili illusioni. Ha in mente, come studioso che trae insegnamento dalla storia e come testimone, i tanti tentativi appena abbozzati e comunque sempre falliti di dare vita in Italia a un partito del lavoro, sinceramente democratico, a un socialismo di tipo laburista. Ha accolto con favore la scissione di Palazzo Barberini, la formazione da parte di Saragat di un partito che si ispira alla socialdemocrazia; ma a Saragat e al suo partito rimprovera un difetto basilare, di fondo: «La valutazione socialdemocratica è errata, perché manca in essa una precisa sensibilità del tempo politico»: per ottenere in Italia lo sviluppo di un socialismo di tipo laburista, precisa Fossi, occorrono «ad essere ottimisti» per lo meno vent’anni, «perché quel socialismo presuppone come fondamento la formazione di una indiscussa coscienza democratica, l’accettazione senza riserve, come primum della vita politica, del metodo e degli istituti democratici».
Il laburismo è dunque una prospettiva cui tendere, un limite da raggiungere attraverso una lunga e paziente opera di educazione, di recupero; «goccia a goccia», secondo una espressione cara a La Malfa, che non ha mai visto incrinata la fiducia e la fede nelle idee dalla somma dei numeri, dalla lenta conquista dell’elettorato. Sensibile a quella che Salvatorelli chiamava «la pazienza della storia».
«In questo momento – scrive Fossi a La Malfa in una lettera del 21 novembre 1949, anch’essa inedita – si dovrebbe rafforzare, avvicinare e legare a noi in un patto di collaborazione politica quelle forze disperse del liberalismo (come la corrente di Carandini) che siano pronte anch’esse a scendere sul terreno effettivo delle riforme sociali».
La «terza forza» di Fossi non è dunque un partito in senso stretto, ma una coalizione di forze che si riconoscono in comuni principi e ideali democratici, raccolte intorno ad un programma, a una piattaforma ben definita: difesa delle istituzioni democratiche, salvaguardia dell’assetto repubblicano, concreta attuazione delle riforme sociali, decentramento e riorganizzazione della pubblica amministrazione, riforma fiscale…
Repubblicani, socialdemocratici non contagiati dal mito di un laburismo auspicato ma non attuabile, liberali di sinistra, indipendenti che si riconoscano «su una posizione repubblicana di democrazia radical-socialista»: ecco il nucleo centrale di quella «terza forza» destinata a «creare nella masse una coscienza democratica libera da dirette influenza confessionali».
È un nucleo che non di discosta di molto da quello ipotizzato da Luigi Salvatorelli, nell’estate del ’45, per il «partito della democrazia». Partito cui era affidato il compito di bilanciare le tre forze nelle quali già nel ’45 Salvatorelli, razionalista intrepido che non scambiava speranze e realtà, vedeva lucidamente articolarsi lo schema politico italiano del futuro: la democrazia cristiana, i socialisti, i comunisti.

Un’Italia minoritaria ma non vinta

Quel partito della democrazia, con un suo messaggio peculiare, con un suo specifico e inconfondibile programma riformatore, rappresentava una minoranza critica, quella che ho chiamato Italia della ragione, quella che continua nel nuovo volume che ne costituisce il complemento, l’Italia dei laici. L’Italia dei vinti, ebbe a dire un giorno Giorgio Amendola in polemica con l’Italia della ragione, ricordando come Salvemini, Gobetti, Amendola padre, Pannunzio, La Malfa e le altre figure «di minoranza» come Fossi, rimasero sempre tali, prive di un seguito fra le masse, strette fra democrazia cristiana e sinistra marxista, cioè vincitori.
Ebbene, ripercorrendo le tante battaglie, rievocando i principi che animarono quegli uomini, quei «vinti», nel dopoguerra, davanti ai gravi problemi della ricostruzione del paese, sentiamo di poter dire che per una forza di sinistra democratica e razionale, capace di imprimere certi impulsi al meccanismo capitalistico e di alimentare il processo di sviluppo e di ripresa della società italiana, c’è ancora spazio in Italia: anzi mai come oggi ce n’è bisogno. Non foss’altro per sconfiggere gli avversari – il parassitismo, il corporativismo, le ingiustizie e gli sprechi settoriali e pseudo-sociali – che i «vincitori» non sono riusciti ancora a battere.
No, caro Ceccuti, non ci sentiamo sconfitti.

Giovanni Spadolini

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