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In Burkina Faso, una delegazione del neonato Movimento patriottico per la salvezza e la restaurazione ha annunciato alla televisione nazionale l’avvenuta deposizione del presidente Roch Marc Christian Kaboré, la sospensione della Costituzione, lo scioglimento di governo e Assemblea nazionale e la chiusura delle frontiere fino a nuovo ordine.
Il colpo di Stato compiuto dall’esercito burkinabé pone fine a un periodo di tensioni interne iniziato lo scorso novembre, quando il massacro di 53 soldati perpetrato nel Nord-Est del paese a Inata per mano dei combattenti affiliati allo Jnim – branca saheliana di al-Qa’ida – aveva fatto esplodere le prime proteste contro un regime considerato corrotto e incapace di rispondere efficacemente alla minaccia jihadista.
Perché conta: Il golpe in Burkina Faso segue di qualche mese i colpi di Stato realizzati dai militari in Mali e Ciad e conferma la pericolosa svolta anti-democratica e l’incipiente instabilità che sempre più caratterizzano la regione saheliana.
L’evoluzione della situazione politica in Sahel sta in particolare rimettendo in discussione gli sforzi di stabilizzazione, lotta al terrorismo e contrasto ai traffici illeciti compiuti dall’Unione Europea e dai suoi Stati membri, tra cui sempre più l’Italia, che si vedono oggi sfidati nell’area sia da attori locali sia da rivali internazionali sempre più visibili – Russia e Turchia in primis. Lo dimostra platealmente un’altra vicenda di queste ore: la richiesta del nuovo governo del Mali alla Danimarca di ritirare il proprio contingente militare, impegnato nella missione a guida francese Takuba, cui partecipano anche soldati italiani.
In questo quadro, emergono come potenziali “vincitori” quei gruppi insorgenti legati alle galassie di al-Qa’ida e Stato Islamico, che controllano ormai ampie porzioni di territorio nella regione e che hanno già dimostrato in passato la loro abilità nello sfruttare le situazioni di instabilità per rafforzarsi ed espandere la propria influenza.