di Giuliano Amato – «Mondoperaio», a. XXXIII, n. 2, febbraio 1980, pp. 89-96.


«Nel maggio dello scorso anno – scriveva Nenni nel 1946[1] – noi abbiamo avuto la saggezza e l’accortezza di porre il problema della Costituente come problema dei problemi. Lo abbiamo fatto in un momento in cui c’erano centomila ragioni obiettive per pensare ad altre cose. Sovente, compagni, quando nei comizi io parlavo di politique d’abord avvertivo l’aspetto, in certo senso inumano, di chiamare a una battaglia politica un popolo stanco, che aveva fame e freddo, era senza casa, senza pace, senza pane. Ma guai a noi se avessimo subito il ricatto dell’accantonamento della lotta politica».

Il problema istituzionale

Forse, neppure a distanza di decenni c’è, per Nenni, la comprensione che egli si sentì mancare allora, mentre era impegnato in una battaglia, che a molti poté e può ancora sembrare astratta, puramente istituzionale. Eppure, se rivediamo, nel suo insieme, la storia di quei pochi, intensissimi anni, siamo in grado di capire che Nenni non sbagliava a definire quello istituzionale «il problema dei problemi». E dobbiamo forse dire qualcosa di più: se la nostra vicenda politica è rimasta, negli anni successivi, entro i binari dei princìpi democratici, se ci è stato risparmiato un destino greco, se è stata possibile la proposta politica lungimirante che una agiografia non del tutto infondata attribuisce a De Gasperi, ebbene non è azzardato pensare che tutto ciò lo si debba proprio alla tenacia di Nenni nel volere – nel significato in cui egli le volle – la Repubblica e la Costituente. Cerchiamo di capirne le ragioni.
Com’è noto, a partire dall’armistizio dell’8 settembre 1943 e dalla successiva dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo Badoglio, si sviluppò, tra i partiti antifascisti, una polemica destinata a durare sino alla Costituente. La polemica investiva i limiti della collaborazione con la monarchia, il ruolo da riconoscere ai Comitati di liberazione (nuovi organi di governo o supporti delle istituzioni esistenti?), il rapporto, quindi, fra rottura e continuità ai fini, sia del futuro assetto statale, sia dell’immediata azione di governo.
Dei contrasti che sorsero su questi temi è stata spesso accreditata una versione estremizzante, che ne ha presentato le ragioni in termini molto drastici. In base ad essa, il tema del contendere sarebbe stato l’alternativa fra la rottura rivoluzionaria e la prospettiva invece di uno sviluppo più linearmente fondato sulla salvaguardia di una larga unità nazionale e sulla premessa, quindi, che la rottura fosse rovinosa e per ciò stesso preclusiva di sbocchi democratici. Non si tratta di una versione infondata, nonostante sia chiaramente servita a giustificare le posizioni moderate, nonché quelle favorevoli a una rottura solo parziale e da effettuarsi il più morbidamente possibile. Ci furono infatti, e sono quindi innegabili, spinte estremiste nel vento del Nord e in coloro che lo alimentarono. È, tuttavia, una versione unilaterale e di comodo, che si scontra con un dato di fatto inoppugnabile: la tesi più rigida, quella più favorevole cioè alla rottura drastica della continuità, fu sostenuta, oltre che dai socialisti, in primo luogo dal Partito d’azione. Si possono ritenere Nenni e soprattutto La Malfa fautori di una svolta rivoluzionaria? E se non era questa la svolta a cui essi miravano, quale fu lo scopo della loro battaglia?
La battaglia – come già ricordavo – ebbe inizio subito dopo la dichiarazione di guerra, un atto che accreditava il governo Badoglio come interlocutore degli alleati nella lotta antifascista. Alla dichiarazione di guerra seguì infatti il noto comunicato, in data 11 ottobre 1943, del Comitato di liberazione romano, nel quale si diceva che la riscossa «esige una sincera ed operante unità spirituale del paese», non realizzabile «sotto l’egida dell’attuale governo costituito dal re e da Badoglio», e si chiedevano, di conseguenza, la «sospensione» della monarchia e la costituzione di un governo straordinario, espressione dei partiti antifascisti[2].
Sono parole chiare, nelle quali è palese lo scopo, non di avviare la rivoluzione socialista, ma di legittimare su nuove basi la struttura e l’azione dello Stato. E se l’esigenza di una «sincera ed operante unità del paese», al di fuori della monarchia, è vista in funzione delle immediate incombenze di guerra, traspare anche, dalle stesse parole, una preoccupazione che va oltre l’immediato. La monarchia è stata e continua ad essere il polo traente degli interessi più retrivi, li tiene rinserrati tra loro e distanti dalla parte del paese che si riconosce nelle forze di sinistra. Salvare la monarchia, e cioè mantenere quel polo, significa preparare un futuro di divaricazione e di perdurante instabilità, perché diverrà probabilmente impossibile sciogliere i dissensi entro una cornice democratica. In questi termini chiarirà la propria azione La Malfa, quando dirà che scopo prioritario del momento è «conquistare alla democrazia» i ceti che tenderebbero a rimanerne fuori[3]; e altrettanto farà lo stesso Nenni, in una serie ripetuta di interventi. «Il problema che viene oggi risolto – scriverà il 1° giugno 1946, alla vigilia del referendum istituzionale[4] – è posto da un secolo, è posto dal 1848. Trasformato il moto nazionale unitario in conquista regia… l’esperienza ha portato il monopolio regio della politica militare ed estera, l’assenza di autogoverno e di iniziativa dal basso, l’appoggio dello Stato a forme parassitarie di economia agraria e industriale, l’abisso fra masse popolari e apparato statale… La monarchia ha rappresentato l’elemento catalizzatore delle forze più retrive, ed anche quando ha voluto disincagliarsi dall’abbraccio mortale della reazione, è ricaduto in quello che può essere considerato un peccato originale, si è rivelata cioè come la sovrastruttura politica di interessi conservatori.
È questa la diagnosi che guida Nenni nell’interpretare i fatti che ha sotto gli occhi. «Se non ci è stato possibile dare alla guerra lo slancio necessario – scrive nel gennaio 1945[5] -, se l’epurazione non è riuscita… se non abbiamo né un’amministrazione democratica, né un esercito democratico, se gli stessi Comitati di liberazione si insteriliscono in accademie… è perché siamo schiacciati dai dogmi della legalità e della continuità dello Stato». Ed è di questa diagnosi che egli si avvale per sfruttare, ad uno ad uno, i successivi momenti in cui ravvisa la possibilità di rompere la vecchia legalità e di emarginare così le tendenze reazionarie. «Tutta la nostra campagna per la valorizzazione e la politicizzazione dei Comitati – scrive nell’aprile 1945[6] – ha teso a dare al paese una espressione legale all’infuori della burocrazia avvilita e delle superstiti forze armate compromesse prima col fascismo e poi coi tedeschi. In altri termini, ci siamo preoccupati di colmare un vuoto che era una tentazione e un’attrazione per gli avversari della politica».

La svolta di Salerno

Nei diversi momenti della campagna a cui Nenni si riferisce, la posizione sostenuta da lui e da La Malfa è costretta ad arretrare, a ridimensionarsi. Ma i due la rilanceranno nei momenti successivi. Il primo scontro, e il primo arretramento, hanno luogo al Congresso di Bari, sul finire del gennaio 1944, dove azionisti e socialisti chiedono la sospensione della monarchia e il governo straordinario (le richieste già avanzate dal CLN romano il 16 ottobre 1943, condivise poco dopo da quello milanese), trovandosi però in minoranza. Il CLN napoletano si oppone al governo straordinario, i democristiani e liberali sono tiepidi o contrari, i comunisti temono una frattura fra le due Italie, il risultato finale è un compromesso assai blando. Si parla non di sospensione della monarchia, ma di abdicazione del re (limitandosi per di più a definirla «auspicabile»), si afferma la necessità di un governo rappresentativo dei partiti, si dichiara non immediatamente risolvibile il problema istituzionale.
La reazione di Nenni è, inizialmente, assai dura. Il 2 febbraio annuncia a Bonomi, presidente del CLN romano, che il PSIUP ne uscirà, perché ritiene impossibile collaborare con la monarchia. E il 9 febbraio la Direzione socialista approva un o.d.g. in cui esprime il rammarico del partito per la mancata incriminazione del re, per il rifiuto del Congresso di sedere in permanenza assumendo il ruolo di organo sovrano, per la conseguente elusione del problema fondamentale della «rottura della continuità». Un anno dopo, ricordando sull’«Avanti!» l’episodio, Nenni dirà che si era accettato il principio dell’inserimento dell’antifascismo nella legalità formale del vecchio Stato, indebolendo così una rappresentatività popolare, che avrebbe invece consentito di affermare una legittimazione alternativa a quella monarchica[7].
Ciò nondimeno, quando, nell’aprile 1944, si arriva alla svolta di Salerno e all’espediente della luogotenenza di Umberto, i socialisti accettano di mandare loro esponenti nel secondo governo Badoglio. Nenni lo fa a malincuore e lo dice anche apertamente, più di una volta. Il patto di Salerno – scrive l’8 aprile 1945[8] – fu una schematica applicazione della politica generale di guerra dei comunisti, quale risultava dalla III Internazionale post 1938. E se non era un errore pensare che la guerra dovesse essere la preoccupazione numero uno, «fu un errore credere che proprio ai fini della guerra ci fosse qualcosa di utile da tirare da Vittorio Emanuele, da Badoglio e dai loro generaloni e ammiraglioni». Ma la guerra c’era e si era comunque aperta la prospettiva di arrivare, dopo la liberazione di Roma, a un governo che fosse diretta espressione dei partiti antifascisti. Fu in nome di questo obiettivo che Nenni cedette e, quando l’obiettivo si realizzò con il primo governo Bonomi (era il giugno 1944), l’azione socialista continuò, tenace, per allargare ulteriormente lo spazio dei Comitati di liberazione, per superare il compromesso di Salerno e aprire la strada alla Repubblica. Nenni caldeggiò a lungo l’idea di un’Assemblea nazionale dei Comitati di liberazione, da tenere a Roma con lo scopo di portare nella capitale la voce delle province. E, quando l’idea cadde, lo stesso impegno venne trasferito sui criteri di formazione della Consulta, i cui componenti Nenni volle espressi, almeno in parte, dagli stessi Comitati.

La campagna per la Costituente

Questo suo modo di battersi, di trasformare ogni evento in una tappa del suo percorso, è testimoniato in modo esemplare dall’immediatezza con cui, non appena finita la guerra, apre la campagna per la Costituente e la impone come parola d’ordine prioritaria. «La guerra è finita. Viva la Costituente!» è il titolo a tutta pagina dell’«Avanti!» del 1° maggio 1945. «Sulla via della rinascita – scrive Nenni sotto quel titolo – c’è un cadavere tuttora insepolto, il cadavere in putrefazione della monarchia. Oggi la legalità si chiama Costituente. Chi tenta di eluderla, o di falsarla o di rinviarla è un provocatore di guerra civile».
La Costituente diventa, da quel momento, «l’esigenza fondamentale», come afferma un documento approvato dalla Direzione del PSIUP nella prima riunione dopo la cessazione delle ostilità. E il significato innovatore, che la Costituente dovrà avere, i socialisti cercano di imprimerlo, d’anticipo, al governo che la deve preparare. Davanti alla proposta di De Gasperi, che traduce la spinta socialista nell’idea di aggiungere agli altri un ministero per la Costituente, Nenni reagisce dicendo che «il governo della Costituente non può essere un governo qualsiasi… Deve trovarsi in grado di garantire l’ordine senza l’intervento dei carabinieri; deve essere in grado di creare le premesse della pacificazione (con le sanzioni contro il fascismo, l’epurazione, l’avocazione dei profitti di regime), deve essere in grado di impostare i fondamentali problemi del piano di ricostruzione»[9]. È ancora il vecchio filo conduttore, quello della nuova legalità, e se Nenni finirà per accettare la proposta di De Gasperi, divenendo lui stesso ministro per la Costituente, lo farà nel governo Parri, un governo che aveva sperato di presiedere, ma che è, pur sempre, il governo del vento del Nord.
Crescono intanto le pressioni alleate a favore della monarchia – ritenuta soprattutto da Churchill un baluardo essenziale contro il comunismo – e crescono le incertezze della Democrazia cristiana, consapevole di avere alle spalle un elettorato in buona parte monarchico. All’inizio del 1946 viene messa in discussione la soluzione, già concordata nel 1944, che affidava alla stessa Costituente il compito di decidere la questione istituzionale; e riaffiora con forza l’idea del referendum popolare, avanzata anni addietro da Gonella e che proprio Nenni si era molto adoprato per respingere. Giunto quasi alla fine del percorso, Nenni vede messo a repentaglio il suo pluriennale lavoro. Ma è ancora lui a trovare una via d’uscita e questa, ancora una volta, rappresenta una presa d’atto delle difficoltà e un modo per non farsene schiacciare.
«Tornando in aereo a Roma – annota nel suo taccuino del 26 febbraio 1946[10] – ho maturato dentro di me una decisione sulla quale andavo riflettendo da alcuni giorni. Mi pare chiaro che se prolunghiamo la polemica sui poteri della Costituente e sul referendum avremo una crisi micidiale, un sussulto della piazza contro le nostre lentezze e diatribe, qua e là delle provocazioni fasciste e monarchiche, l’intervento non soltanto politico come in Grecia… Il rischio è grosso. Vale la pena di correrlo? Il referendum istituzionale è per la Corte un sostitutivo dei plebisciti, ma può anche diventare un’altra cosa, se contestuale alle elezioni per la Costituente. Ecco, mi pare, il terreno sul quale ancorarci: referendum sì, ma contestuale alle elezioni per la Costituente… È la proposta che ho fatto stasera a De Gasperi. Ormai, gli ho detto, la cosa che conta è non perdere più tempo».

La Repubblica

È il miglior Nenni quello di questa pagina ed è a lui, a quella sua decisione, che l’Italia deve probabilmente la Repubblica. Il 2 giugno 1946 corona una battaglia fra le più tormentate della nostra vicenda politica, fatta di tenacia, di aggiustamenti di tiro, di lungimiranza. Ho già riferito l’acutissima diagnosi che Nenni fa del ruolo secolare della monarchia, alla vigilia del referendum, il 1° giugno 1946. Sulla scia di quella diagnosi ci dobbiamo chiedere oggi che cosa sarebbe successo se gli interessi conservatori non fossero stati canalizzati, nella Repubblica, verso partiti come il liberale e il democristiano, venandone a volte di intonazioni eversive i comportamenti sotterranei, ma essendo a poco a poco coinvolti e digeriti nel quadro dei valori democratici. Quale diversa evoluzione avremmo avuto se fosse rimasto a loro disposizione, nelle nuove istituzioni, il polo traente della monarchia? Lo spettro di Weimar, che tante volte è stato agitato a sproposito nel corso dei nostri ultimi anni, non sarebbe divenuto, invece, una possibile realtà italiana? Non è forse vero che nella Germania del ’20 il difficile patto stipulato a Weimar fra i socialdemocratici e i ceti aristocratico-militari non riuscì mai a consolidarsi, anche perché l’iniziale dualismo politico divenne, nella Costituzione, dualismo istituzionale, col risultato di mantenere, nel presidente, un cavallo di Troia per gli interessi reazionari, i quali se ne avvalsero, nel momento di massima tensione, per distruggere la democrazia?
Non fu dunque, quella di Nenni, una battaglia astratta, né fu una battaglia estremista; e proprio perché non fu estremista, proprio perché il risultato a cui tendeva fu quello che il 2 giugno venne a sancire, sbaglia grossolanamente chi dice che la conduzione fattane da Nenni fu solo una serie di «cedimenti»[11]. Non di rinunce si trattò, ma – lo abbiamo visto – di adattamenti continui di fronte all’insorgere di difficoltà nuove, mantenendo tuttavia fermi il percorso e l’obiettivo di fondo.
D’altro canto, le difficoltà furono enormi e vennero da ogni parte. Non solo dagli alleati, i quali sin dalla dichiarazione di guerra scelsero il governo del re, boicottarono poi la crescita dei Comitati di liberazione (giungendo ad opporsi – com’è noto – alla prima convocazione di quello che fu poi il Congresso di Bari), cercarono infine di impedire la nascita della Repubblica, premendo perché la scelta fosse demandata al corpo elettorale invece che alla Costituente. Le difficoltà vennero anche, seppure in modo diverso, dagli stessi comunisti, la cui impostazione politica fu, sin dall’inizio, assai più cauta di quella di Nenni e lo fu per molteplici ragioni.

Nenni e Togliatti

I comunisti – è storia conosciuta – si presentarono dopo l’armistizio come partito di unità, di collaborazione. Non ha importanza chiedersi, ai nostri fini, se essi lo fecero per contenere le tensioni eversive che avevano all’interno (e che potevano divenire incontrollabili con una linea più aggressiva), o se prevalse l’idea di accreditarsi come partito nazionale agli occhi di una borghesia prevenuta e ostile. Certo si è che Togliatti stese alla monarchia quella mano che Nenni voleva negarle; e che fra i due sorsero subito profonde divergenze, come emerge, del resto, dalle stesse, limitate testimonianze di Nenni qui rammentate. Nenni, e con lui La Malfa, riteneva essenziale scompigliare le fila della borghesia e scompigliare le sue istituzioni. A Togliatti bastava, in fondo, installarsi, al fianco della borghesia, nelle sue stesse istituzioni; e non perché fosse rinunciatario, o perché – come qualcuno ha detto[12] – facesse l’errore di considerare le istituzioni delle macchine neutre, adattabili a tutti gli usi e a tutti i manovratori. C’era in lui, la profonda fiducia, di origine leninista, nella forza trasformatrice del partito, l’idea che tale forza il partito la portasse in sé e potesse quindi sprigionarla ovunque si andasse a collocare. L’importante era che il partito riuscisse a irrobustirsi e non corresse il rischio di trovarsi isolato.
I comunisti – sia chiaro – fecero la battaglia per la Costituente e la fecero con un impegno che sarebbe impudente negare. E tuttavia i toni e le motivazioni di fondo di tale impegno furono diversi da quelli riscontrabili in Nenni e in La Malfa. «Richiamare l’attenzione delle masse contadine sul problema della convocazione dell’Assemblea costituente…»; «Occorre che ogni nostra cellula e ogni nostro compagno escogitino sistemi nuovi, i quali ci dovranno permettere di discutere con tutti i cittadini, onde far esprimere a loro stessi quali proposte hanno da fare per il nuovo assetto politico ed economico che dovrà avere l’Italia nella Costituente»; e in queste proposte si esprimerà la «volontà del popolo»[13]. È questo, dunque, l’impegno dei comunisti, un impegno che mira prioritariamente al rafforzamento del partito nell’area sociale che esso considera propria e ad accreditarlo poi come interprete unico della «volontà del popolo». E ciò chiarisce bene la differenza dai socialisti: Nenni punta alla Costituente e alla Repubblica perché ciò potrà dislocare diversamente i ceti borghesi, e sarà poi questa diversa dislocazione la premessa delle trasformazioni ulteriori. Togliatti punta alla Costituente per rafforzare il suo partito davanti alla borghesia, e sarà tale rafforzamento la premessa per procedere oltre.
Socialisti e comunisti sono comunque insieme, legati fra l’altro dal patto di unità d’azione, e molto di rado arrivano ad adottare comportamenti divergenti. Ciò accade con la non partecipazione socialista al secondo governo Bonomi (del quale fanno parte, invece, i comunisti), ma, al di là di tale episodio, le divergenze rimangono sullo sfondo e, se operano, operano sotterraneamente, facendosi percepire soltanto attraverso la diversità degli accenti e dei toni.

La caduta del frontismo

Si tratta, tuttavia, di divergenze profonde ed è ad esse che ci dobbiamo rifare per capire la fase successiva al 2 giugno, una fase nella quale la posizione socialista può apparire inspiegabilmente contraddittoria con quella tenuta sino a quel momento. Quale coerenza c’è fra l’impegno per la rottura della continuità e scivolamento socialista nel frontismo, addirittura nella lista elettorale unica? La politica antimonarchica, la ricerca di una «operante unità spirituale del paese» su nuove fondamenta di legalità, volevano prevenire tensioni divaricanti, creare un terreno comune di confronto tra controparti sociali altrimenti risucchiate da forze centrifughe. Il frontismo fa esattamente il contrario, crea un vuoto intermedio, lascia in esso i ceti laico-progressisti e li costringe ad aggrapparsi sui bordi. Non a caso, a partire dall’estate del 1946, si rompe il tandem Nenni-La Malfa, e i due cominciano a parlarsi da sponde opposte, dimostrandosi entrambi consapevoli del vuoto che si è aperto fra di loro e dell’impossibilità, ormai, di colmarlo. Che cosa spiega una contraddizione del genere?
Il punto di partenza sono – come dicevo – le divergenze fra socialisti e comunisti ed è un paradosso solo apparente che sia proprio grazie ad esse che i socialisti finiscano poi per stringersi, con tutta unilateralità, ai loro alleati-rivali. Nei comunisti, la maggiore apertura nei confronti della monarchia fa parte di un atteggiamento complessivamente unitario, che ha il suo baricentro nella politica tripartita, nell’unione dei partiti popolari. Per parte sua Nenni, agli inizi del 1945, manifesta tutta la sua insofferenza per l’unità nazionale fine a se stessa («Ogni partito, oggi, che abbia coscienza della propria responsabilità, ha da considerarsi al servizio del popolo e della Nazione. Ma questo sentimento deve suggerire e imporre una scelta politica, se no l’unione diviene confusione e impotenza»)[14]; e avvia con La Malfa la polemica, che esploderà senza più possibilità di composizione più tardi, sui limiti della collaborazione con la Democrazia cristiana («Diciamo la verità, caro La Malfa. Il problema di capitale importanza nel nostro paese del carattere progressivo o moderato della Democrazia cristiana, non è risolto»)[15].
Nenni punta dunque all’alleanza con i comunisti, non per fare blocco con loro e trattare, dall’interno del blocco, con la borghesia rappresentata dai democristiani. Il suo disegno è diverso ed è – fino al 2 giugno – il medesimo, forse, di La Malfa. Quando si adopera, contro la monarchia, per portare lo scompiglio in seno alla borghesia, lo fa, certo, per privare quest’ultima del suo tradizionale ancoraggio conservatore, ma lo fa anche per acquisirne la parte laica e progressista e collocarla nello schieramento di sinistra. Pensa che ciò debba avvenire, principalmente, attraverso il PSI («La funzione storica del Partito socialista – scrive nel gennaio 1945 – è quella di amalgamare le forze disparate dei ceti e delle classi proletarizzate, o in via di proletarizzazione, con la classe operaia propriamente detta, per condurre fino in fondo la battaglia contro la vecchia società e il vecchio Stato»)[16]; ma non pensa al PSI soltanto, conta sicuramente sugli stessi azionisti, altrimenti non si spiegherebbe il suo andare di conserva con loro, che risultano suoi alleati, durante tutta la fase del CLN, assai più di quanto non accada per il PCI, a cui pure è legato dal patto di unità d’azione.
Prima del 1946 Nenni è certo un convinto assertore di quel patto, sa quale sia, ormai, la forza del PCI e la sua penetrazione nella classe operaia, è contrario al tripartito perché pensa, per il futuro, ad una maggioranza di sinistra, ma è molto cauto nello stringere ulteriormente i rapporti con i comunisti. Togliatti, che, su «Rinascita», prospetta il passaggio dall’unità d’azione al partito unico, fa presenti le divergenze insorte nel passaggio tra il primo e il secondo governo Bonomi, e dice di voler capire meglio se esse investano il problema, secondario, della partecipazione a un governo o, invece, le prospettive di sviluppo della democrazia italiana[17]. E al Consiglio nazionale del luglio 1945, mentre Morandi invita il PSIUP a farsi esso promotore del partito unico, Nenni ricorda, ancora, le diverse «concezioni tattiche» dei due partiti e dice che la battaglia è, intanto, per la Costituente, poi saranno i lavoratori a far maturare soluzioni ulteriori[18].
Che cosa si può leggere in questo atteggiamento di Nenni? In primo luogo il timore di essere risucchiato nella politica di unità fra un blocco di sinistra e una DC rappresentante unica della borghesia, in secondo luogo la convinzione che, per evitarlo, occorre una sinistra in cui la stessa borghesia sia presente e il PSI riesca a imporre la propria strategia. Per questo Nenni è cauto e aspetta. Aspetta che il 2 giugno dia forza ed espressione a questa borghesia di sinistra e conta – come dicevo – sul PSI e su La Malfa perché ciò possa accadere.

L’altra faccia del 2 giugno

Ma il 2 giugno è, sotto questo profilo, un autentico disastro. Il giorno che segna il successo di Nenni nella battaglia che si conclude con il referendum, cancella invece i suoi disegni per gli assetti da costruire dopo il referendum. Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente, il PCI ha quasi gli stessi voti dei socialisti (arriva al 19%, contro il 20,7% del PSIUP), la DC distacca entrambi ed è il partito di maggioranza relativa con il 35,2%, gli azionisti raccolgono soltanto pochissime briciole: poco più di 300.000 voti, corrispondenti all’1,4% e a 7 deputati nella nuova Assemblea.
È probabilmente questo 2 giugno, prima ancora della scissione, a segnare la sconfitta della politica nenniana e a sospingere Nenni sulla strada, che per lui è ormai senza alternative, del frontismo. Pur essendo consapevole dei rischi che corre, dell’impossibilità in cui a quel punto si trova di condizionare efficacemente, dall’interno del fronte, la politica comunista, Nenni non vede altre prospettive, se non quella che si era pazientemente preparato. E si illude, si autoconvince forse, di poterla egualmente perseguire. I suoi scritti, i suoi discorsi, diventano sempre più aspri, sempre più privi della sua proverbiale finezza, sempre più aperti a contraddizioni e ad argomenti, talora, grossolani. È una sorta di resa a un destino che gli pare ineluttabile, al quale tenta di distoglierlo Saragat con argomenti che paiono, a distanza di anni, validissimi, ma che lo stesso Saragat ha poi il torto di portare sino a una scissione, che condanna sia lui, sia il partito da cui si allontana.
Nel Nenni del 1947 leggiamo, insieme, consapevolezza e fatalismo. «Si può fare una politica coerente di sinistra – scrive nel luglio 1947[19] -, se ne può fare una di destra. Il tentativo di mantenersi a mezza strada – come provocò il crollo della Repubblica di Weimar – così provocherebbe quello della prima Repubblica italiana. Codeste cose apparivano già chiare nel 1932, ci si ripresentano nel secondo dopoguerra in condizioni aggravate, dal punto di vista della politica interna per il forte spostamento verso il comunismo che il nazi-fascismo e la guerra hanno operato nelle classi lavoratrici, e dal punto di vista internazionale per il contrasto fra Stati Uniti e Unione Sovietica, che prende l’Europa in una morsa». La posizione socialista pare dunque obbligata, ma è un obbligo che Nenni sente come una tragedia. Nel medesimo scritto egli infatti va avanti, dicendo che «la tragedia del moderno movimento socialista è il riflesso di codeste difficoltà. Quando restiamo fedeli alla fondamentale unità di interessi e di fini del proletariato e in genere delle classi lavoratrici, siamo accusati di fare il gioco dei comunisti. Quando ce ne stacchiamo, facciamo obiettivamente la politica della destra e scaviamo con le nostre mani la fosseaal socialismo». Certo – dirà poco dopo al Comitato centrale[20] – «la politica dei socialisti era più facile quando erano soli alla testa del movimento operaio… In questo senso non possono prescindere oggi dai comunisti… Fuori di questo realismo si cade nell’idealismo e si costruiscono soltanto castelli in aria».
Preso nella tenaglia dei fatti, convinto – come aveva scritto una volta – che «socialisti e comunisti sono destinati ad essere alleati o nemici»[21], accetta l’alleanza, ormai, sull’unico terreno possibile, quello imposto dai comunisti. Ed è proprio qui che si aprono le sue contraddizioni e che le sue argomentazioni diventano grossolane. Difende senza riserve il socialismo sovietico e quello che i sovietici stanno esportando sui loro carri armati. Di ritorno dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia, nega di aver visto truppe sovietiche, nega che vi sia «totalitarismo di partiti al potere» e conclude: «Nessuno dubita, al di là dell’Oder e della Vistola, che il fondamento, sul quale la Polonia sta edificando la democrazia e il socialismo, sia il fronte unico dei lavoratori. In questo senso la Polonia è un esempio e credo si possa dire un grande esempio»[22]. Lo stesso dice per l’Unione Sovietica, celebrando, insieme a Togliatti, il XXX anniversario della rivoluzione d’ottobre. Pervicace nemico della «terza via», della politica tentata da Saragat, egli afferma in tale occasione che la lotta degli operai russi fu giustamente condotta «contro la destra del generale Kornilov e contro il centro imbelle di Kerenskij». Ed è da allora che «la bandiera rossa che simboleggia le nostre speranze si è alzata vittoriosa in Russia, annunciando l’inizio di una nuova epoca della storia»[23].
Nenni non solo si lascia andare a questi giudizi, ma arriva a dire (e proprio nella celebrazione della rivoluzione russa) che la stessa lotta dei socialisti avverrà «con mezzi e per vie che non sappiamo esattamente quali saranno». E a chi gli chiede di esprimersi apertamente sulle violazioni della libertà da parte del comunismo al potere, risponde addirittura con iattanza: «I socialisti sanno da un pezzo che la rivoluzione proletaria nel suo cammino è destinata a stritolare molti idoli falsi e alcuni veri… Il cammino della rivoluzione borghese fu ben altrimenti drammatico e violento. Ora il meglio cos’è in Polonia, in Ungheria, in Romania, fra gli interessi, i diritti e i comodi di Micoilaicik, di Nagy o di re Michele e la terra ai contadini e le fabbriche agli operai?»[24].
Ebbene, dopo essersi costruito credenziali del genere, come può Nenni sperare – eppure ripetutamente lo dice[25] – che il PSI sia accreditato come «garante delle forme democratiche» in cui avverrà la lotta del Fronte popolare? Come può pretendere che La Malfa «prenda nello schieramento delle sinistre il posto che compete al leale a forte antifascista che egli è stato»[26]? Come può cavarsela dicendo che lo stesso La Malfa e i repubblicani «fanno dell’isolazionismo»[27] e che «la direzione socialista della lotta democratica… è un’aspirazione condizionata dalla fiducia che hanno ed avranno in noi le masse popolari e non le redazioni del ‘Giornale d’Italia’ e del ‘Corriere della sera’, dove il socialismo è tenuto in qualche credito purché sia autonomo dalla classe operaia»[28]?

Il 18 aprile

Il terreno è ormai pronto per il XXVI Congresso, quello che sancirà la lista unica del Fronte popolare. In esso verrà ancora rivendicata, dall’astratta generosità di Lelio Basso, la prospettiva di un fronte guidato dai socialisti, una prospettiva inesistente che, non a caso, aveva costituito il fulcro delle motivazioni con cui i pochi azionisti rimasti avevano aderito al PSI nell’estate del 1947[29]. E cercherà di farsi sentire la voce di Riccardo Lombardi, il quale vorrà condizionare la lista unica all’adozione di un concreto programma comune[30]. Ma Lombardi, per quanto amante delle divagazioni, sa benissimo – e lo aveva anche scritto[31] – che non è dettata certo dai programmi la logica dei Fronti popolari, «blocchi indiscriminati» incapaci di «costituire alternative valide e realistiche».
Nel suo intervento congressuale Nenni, a differenza di altri, salvò la buona fede di chi si opponeva alla lista unica. Ma la sua scelta era chiara e chiara ormai la sua linea di dura chiusura nel frontismo: «Il tipo dell’elettore che gioca la sua partita a scopa o a tressette al caffè professando un amore sviscerato per il socialismo purché si stacchi dal comunismo, è inutile e deleterio»[32].
Probabilmente, l’ultimo ad essere davvero convinto di argomenti così disinvolti era lo stesso Nenni, ma è significativo che fossero divenuti questi i suoi argomenti e che coltivasse con essi l’assurda speranza di una vittoria che non venne. Il 18 aprile 1948 confermò ciò che egli aveva temuto e forse intravisto sin dal 2 giugno.
Restava almeno, del 2 giugno, l’esito positivo della battaglia che allora si era conclusa: la Repubblica, e con essa il tessuto democratico capace di assorbire le tensioni della nostra società, consentendo alla sinistra di uscire, lentamente e senza scosse traumatiche, dal frigorifero in cui il frontismo l’aveva tutta quanta richiusa. Ma c’è voluto un tempo enorme perché questo accadesse, e ancora non è del tutto accaduto. Ed ha subito un impoverimento irreparabile il PSI, che il frontismo ha allontanato dalle aree sociali e culturali di cui esso aveva bisogno per assumere la guida di una sinistra democratica, e che insegue, ancora oggi, il ruolo storico a cui Nenni puntava.

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[1] P. Nenni, Una battaglia vinta, Edizioni Avanti, Roma 1946, p. 93.
[2] Il testo del documento è riportato da F. Catalano, Storia del CLNAI, Laterza, Bari 1956, p. 70.
[3] Ho trovato la citazione testuale in un editoriale non firmato, La Repubblica ai repubblicani, apparso sull’«Avanti!» dell’11 novembre 1947.
[4] Una pagina di chiude, in «Avanti!», 1° giugno 1946.
[5] Un anno di lotte politiche, in «Avanti!», 28 gennaio 1945.
[6] Fantasmi del marchese, in «Avanti!», 18 aprile 1945.
[7] La battaglia per la rottura, in «Avanti!», 20 gennaio 1945.
[8] Confluenze d’azione democratica, in «Avanti!», 8 aprile 1845.
[9] La battaglia per la Costituente, in «Avanti!», 9 giugno 1945.
[10] I taccuini di Nenni. Verso la Repubblica, in «Avanti!», 26 maggio 1946.
[11] D. Pastecchi Norelli, La stampa socialista: l’ipotesi giacobina, in R. Ruffilli (a cura di), Costituente e lotta politica, Vallecchi, Firenze 1978, p. 90.
[12] C. Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in G. Quazza (a cura di), Italia 1945-48. Le origini della Repubblica, Giappichelli, Torino 1974, p. 168.
[13] Cfr. questi ed altri testi in G. Conti, M. Pieretti, G. Perra, Il «partito nuovo» e la Costituente, in R. Ruffilli (a cura di), Cultura politica e partiti nell’età della Costituente, Il Mulino, Bologna 1979, p. 229.
[14] L’unità nella quale crediamo, in «Avanti!», 20 marzo 1945.
[15] Una parola attesa e già detta, in «Avanti!», 30 gennaio 1945.
[16] Nuove classi proletarie, in «Avanti!», 25 gennaio 1945.
[17] La prova del fuoco dell’unità d’azione, in «Avanti!», 7 gennaio 1946.
[18] «Avanti!», 31 luglio 1945.
[19] La terza via che non c’è, «Avanti!», 6 luglio 1947.
[20] «Avanti!», 13 settembre 1947.
[21] Schieramenti necessari, in «Avanti!», 24 gennaio 1945.
[22] La via polacca verso il socialismo, in «Avanti!», 7 settembre 1947.
[23] «Avanti!», 8 novembre 1947.
[24] Abbiamo scelto la libertà anche noi, in «Avanti!», 11 gennaio 1948.
[25] Si veda ad es. l’intervento al Comitato centrale del novembre 1947, in «Avanti!», 23 novembre 1947.
[26] Il cuscinetto La Malfa, in «Avanti!», 2 novembre 1947.
[27] Nel medesimo articolo cit. alla nota precedente.
[28] Il banco di prova, in «Avanti!», 10 agosto 1947.
[29] La lettera del Partito d’azione, Per l’unità col PSI, è riportata sull’«Avanti!» del 31 agosto 1947.
[30] «Avanti!», 21 gennaio 1948.
[31] Dalla mistica al programma, in «Avanti!», 16 novembre 1947.
[32] «Avanti!», 22 gennaio 1948.