di Giorgio Amendola – «Rinascita», a. XXXI, n. 1, 4 gennaio 1974, pp. 23-24.


Il centenario della nascita di Gaetano Salvemini (Molfetta, 8 settembre 1873) è trascorso tra la generale disattenzione. L’osservazione critica è di Glauco Licata (Corriere della Sera, 17 dicembre 1973), e non può essere respinta. Le rare manifestazioni organizzate per celebrare l’avvenimento hanno avuto scarsa fortuna. Una parte di responsabilità spetta, ritengo, ai promotori di riunioni che hanno avuto, quasi deliberatamente, un carattere riservato a coloro che si considerano, più o meno legittimamente, gli eredi ufficiali del pensiero salveminiano. Ora l’eredità di Gaetano Salvemini non può essere affidata alle iniziative ed alle fortune di un particolare gruppo politico.
Di Salvemini si può dire, come di altri combattenti dell’antifascismo italiano (penso a Piero Gobetti), che il suo pensiero è presente, in forme varie, in tutte le correnti del movimento democratico e antifascista italiano. Perciò la sua eredità non può essere monopolizzata da un solo partito. Noi comunisti riconosciamo che il pensiero di Antonio Gramsci, che pure fu tra i fondatori del nostro partito, non appartiene soltanto a noi, ma fa parte del patrimonio culturale e politico del popolo italiano. Se questo si può dire di Gramsci, che fu un uomo di partito, e di un solo partito, a più forte ragione lo si può dire di Salvemini che, se passò attraverso diversi gruppi politici, non fu mai interamente uomo di partito. Tenace combattente, Salvemini rifiutò sempre, nella sua lunga milizia, di restare a lungo nella stessa organizzazione politica. Puntiglioso individualista, Salvemini percorse un lungo cammino, insofferente di ogni disciplina politica ed organizzativa. Fu questo, a mio avviso, un suo limite, ed una delle ragioni delle sue molteplici sconfitte. Il suo esempio favorì le esasperate e puntigliose polemiche che hanno indebolito la compattezza organizzativa e politica di tanta parte del movimento democratico e socialista italiano. Le dolorose vicende del Partito d’Azione furono, in parte, determinate anche da un costume politico di origine salveminiana che faceva prevalere in ogni controversia i motivi del dissenso su quelli della ricerca di una conclusione unitaria. Ma quella sua posizione di combattente isolato gli permise anche di esercitare più liberamente una larga influenza, per molti decenni, su tutto il campo della vita politica e culturale del paese.
Da Benedetto Croce ad Antonio Gramsci, non ci fu nessuno in Italia che poté sottrarsi pienamente al fascino della personalità di Salvemini, e rifiutarsi di fare i conti con lui. Soprattutto i giovani che si affacciarono alla lotta politica, all’indomani della prima guerra mondiale, quando il fascismo s’impadroniva, con l’appoggio della monarchia e della forze dominanti del capitale finanziario, dello Stato, per costruire un regime autoritario, ricercarono i suoi scritti per tentare di comprendere le ragioni della disfatta subita dalla classe operaia e della vittoria del fascismo. Il volume edito da Cappelli, con quella copertina grigia, circolava nelle poche copie disponibili, di mano in mano, avidamente conteso.
Molti arrivarono a Salvemini attraverso Gobetti, altri, più tardi, attraverso Gramsci, quando cominciarono a circolare le copie clandestine di Stato operaio con il saggio sulla questione meridionale. Tutti, quale che fosse poi la conclusione pratica della loro ricerca (la adesione al PCI o al movimento di «Giustizia e libertà»), dovettero fare i conti con lui, e restano comunque in debito per quello che hanno appreso dal suo insegnamento.
Il centenario della nascita di Salvemini deve fornire l’occasione non per ristrette riunioni di fedeli, autoproclamatisi interpreti ufficiali del suo pensiero, ma per un largo confronto di uomini della cultura e della politica, riuniti per esaminare se ci sia un’attualità del pensiero di Salvemini, e che cosa essa rappresenti. Perché se mancasse questa attualità, nessuno sforzo organizzativo e culturale potrebbe bastare a ravvivare un interesse che non corrispondesse ad esigenze esistenti. Ritengo che ci sia una attualità del pensiero di Salvemini, e che essa anzi abbia ritrovato nelle ultime drammatiche vicende del paese nuove motivazioni. Le forze impegnate nel rinnovamento del paese, per poter portare avanti un’opera profonda di riforma generale, si trovano, infatti, alle prese con i problemi attorno a cui si affaticò, con intransigente impegno di studio e di lavoro, Gaetano Salvemini.
Anzitutto più che mai attuale è la nozione stessa di «problema». La realtà sociale e politica del paese, storicamente determinata, esprime una serie di questioni, ciascuna delle quali ha una sua specificità (questione meridionale, questione agraria, questione vaticana), ma che vanno sempre considerate nei loro nessi, per evitare una frantumazione settoriale ed una rottura dello schieramento popolare. Occorre sempre partire dalla conoscenza della realtà e dall’esame dei problemi, per risalire alla ricerca delle soluzioni ed alla identificazione delle forze interessate a queste soluzioni. È, probabilmente, questa impostazione metodologica di Salvemini, malgrado il suo carattere empirico e positivista, la parte dell’insegnamento salveminiano che i comunisti hanno maggiormente accolto. Salvemini si richiama, con questa impostazione problematica, alla scuola democratica di Cattaneo, ed alla sua articolata e regionalistica visione della realtà italiana.
Ed ecco un insegnamento che, nella crisi che travaglia il paese, rivela tutto il suo valore. Soltanto partendo dalle cose, dal riconoscimento dei problemi concreti, e rompendo i rigidi schemi dottrinari ed i diaframmi ideologici preconcetti, per realizzare attorno ad ogni problema utili convergenze, è possibile promuovere un nuovo e più largo schieramento di forze impegnate nella battaglia rinnovatrice.
E tra questi primeggia, oggi come allora, quello del Mezzogiorno. È questo il terreno sul quale si ebbero le maggiori convergenze ed anche i più vivaci contrasti tra i comunisti e Salvemini. Se restano intatti, a mio avviso, i motivi della critica comunista a Salvemini, per il quale, in ultima analisi, la «rivoluzione meridionale» va condotta senza, ed anche contro la classe operaia, dobbiamo tuttavia constatare, sulla base delle difficili esperienze attuali, quanto sia arduo realizzare e mantenere, non sul piano delle declamazioni propagandistiche ma della reale unità d’azione, l’alleanza tra classe operaia del settentrione e popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno.
Il grandioso movimento operaio del 1969, stimolato dalla riconquistata unità sindacale, seppure orientato esplicitamente verso il raggiungimento non solo di miglioramenti salariali ma verso la costruzione di nuove forme di democrazia in fabbrica e verso l’attuazione di riforme sociali, riuscì con molte difficoltà a mantenere la saldatura tra Nord e Sud, tra operai e contadini, tra occupati e disoccupati. L’alleanza tra classe operaia e popolazioni meridionali non è un fatto che si realizzi spontaneamente, è l’espressione di una volontà, di una forte coscienza nazionale, che può vincere le resistenze spontanee determinate da diversità di interessi immediati e quelle derivanti dalle manovre dell’avversario di classe, soltanto a prezzo di una coerente battaglia politica e di una vigile, ininterrotta attenzione.
Dopo il 1969, di fronte ai colpi della controffensiva reazionaria e fascista e allo scatenamento di una violenza provocatoria, il movimento, che era essenzialmente di operai occupati (occupati nel Nord ed occupati anche nel Sud), non riuscì pienamente a mantenere la compattezza e l’unità delle forze popolari. Si verificarono pericolose incrinature, nelle quali riuscì ad infiltrarsi la provocazione fascista. C’è stata poi una salutare correzione di rotta, una verifica critica dei sindacati e dei partiti. L’esperienza ha dimostrato come, malgrado la presenza di un forte partito comunista, educato dall’insegnamento di Gramsci e di Togliatti alla comprensione del carattere della questione meridionale ed alla necessità dell’alleanza tra classe operaia e popolazioni meridionali, il pericolo di chiusure corporative e operaistiche, contro cui si era diretta la polemica salveminiana, sia sempre attuale.
Da quanto è avvenuto negli ultimi anni possiamo comprendere contro quali ostacoli dovette urtare, nel primo decennio del secolo, il tentativo di Salvemini di fare comprendere ad un movimento operaio, a direzione riformista e fortemente concentrato nel Nord, l’esigenza di un coerente impegno meridionalista. La reazione di Salvemini alla ottusa resistenza dei riformisti settentrionali non si esprimeva in un modo valido, perché portava, di fatto, ad un approfondimento del solco tra Nord e Sud, ed a quella rottura che manifestò tutte le sue deleterie conseguenze nel corso della guerra e della crisi politica del 1919-’20. Ma la visione dei pericoli corporativi denunciati da Salvemini deve suscitare un più tenace e concreto sforzo di unificazione del movimento generale, ed una lotta coerente e rigorosa contro ogni forma di difesa corporativa di interessi particolari e settoriali.
I temi della polemica salveminiana che hanno ritrovato tutta la loro attualità sono molti, e questa nota non si propone di riprenderli in esame quanto, in via preliminare, di proporre a tutti l’opportunità di un generale ripensamento critico del pensiero salveminiano. Mi fermerò per ultimo sulla lotta condotta da Salvemini contro il sistema delle clientele che soffocarono il Sud e lo asservirono al governo centrale. Oggi la lotta contro le clientele, il sottogoverno, l’intreccio tra i gruppi dirigenti dei partiti di governo, e principalmente della DC, e gruppi mafiosi e camorristici (si pensi a Palermo e a Napoli) è più che mai un’esigenza attualissima, la condizione stessa per promuovere la liberazione del Mezzogiorno.
La questione meridionale è prima di tutto questione politica, questione di democrazia. Di fronte al modo con cui gli strumenti dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno sono stati utilizzati, per favorire clientele politiche e gruppi affaristici, di fronte alla somma di miliardi affidati a petrolieri privati per installare sul territorio meridionale impianti di trasformazione a disposizione delle compagnie multinazionali (per portare un esempio corrente in questi giorni), si sente il valore della lotta condotta da Salvemini contro le clientele elettorali che asservirono il Mezzogiorno ai governi che esprimevano gli interessi del vecchio blocco dominante, nell’alleanza tra industriali del Nord e proprietari agrari meridionali. Certo, il sistema delle clientele ha assunto oggi ben altro carattere e proporzioni. Se Salvemini rivolse allora la celebre denuncia contro il «ministro della malavita», che cosa dovrebbe scrivere oggi contro l’azione corruttrice svolta da organi come la Cassa per il Mezzogiorno, strumento del nuovo asservimento del Sud agli interessi del capitale monopolistico di Stato.
Appare oggi più che mai attuale l’esigenza di una grande lotta liberatrice e moralizzatrice. Se la vita delle regioni meridionali non è liberata dalla piovra del sottogoverno, dal dominio dei gruppi di potere, dalla spudorata divisione delle aree di influenza (come avviene negli Stati Uniti tra i diversi «padrini»), dalla stretta soffocante esercitata dai «patti feudali», come quello sottoscritto pubblicamente, senza alcun pudore, tra il gruppo di Gava e quello di De Mita (due ministri in carica), non è possibile realizzare quell’incontro di forze democratiche e popolari interessate veramente a risolvere, nella democrazia, la «questione meridionale». Il tentativo di Piccoli di presentare l’esistenza del sottogoverno e la moltiplicazione delle clientele democratiche cristiane come espressione di una promozione e ascesa sociale di nuovi ceti popolari, non può nascondere il fatto che tale promozione non avviene sul solido terreno di uno sviluppo produttivo, di una ascesa culturale e di una crescente partecipazione democratica, ma su quello paludoso ed inquinante dei traffici illeciti, del dirottamento dei contributi pubblici, dei favoreggiamenti, delle speculazioni. Che cosa resta al Mezzogiorno, come sviluppo reale di nuove forze produttive, delle migliaia di miliardi distribuiti dallo Stato attraverso gli incontrollabili canali della Cassa per il Mezzogiorno?
Molti ed importanti sono i temi dell’insegnamento salveminiano che suscitano un ripensamento critico. Non bisogna perciò perdere l’occasione fornita dal centenario della sua nascita. Salvemini appartiene a tutte le correnti del movimento operaio e democratico italiano. Nessuno può rivendicarlo in esclusiva, ché egli si ribellerebbe a tale pretesa e sarebbe capace di intervenire per punire gli usurpatori con una delle sue brucianti sferzate. Avanzo apertamente, senza aver avuto alcuna consultazione preliminare, la proposta che il circolo Salvemini di Roma, con l’Istituto Gramsci e con altri istituti culturali, organizzi un convegno di studi salveminiani, al quale possano recare il loro contributo studiosi e militanti di tutte le correnti politiche, per indicare se vi è e in che cosa possa consistere una attualità di Salvemini, e per riesaminare pubblicamente, per la parte che a ciascuno compete, quanto essi hanno appreso, assimilato e trasformato dell’insegnamento di Gaetano Salvemini.


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