di Norberto Bobbio – «Mondoperaio», luglio 1975, pp. 65-68.


Pubblichiamo il testo inedito della comunicazione scritta che l’autore ha presentato al Convegno gramsciano che si è tenuto a Parigi nei giorni 17 e 18 giugno di quest’anno [1975], in occasione della nuova edizione francese dei Quaderni dal Carcere di Antonio Gramsci.

Per usare una metafora facile ma comoda, negli anni della tempesta, la maggior parte degl’intellettuali italiani che si erano formati durante il fascismo, si trovarono senza bussola. Gentile era diventato il filosofo ufficiale del regime fascista, anche se dopo il Concordato era guardato con sospetto dai fascisti arrabbiati per i quali il fascismo non era, come aveva fatto credere Gentile, la continuazione e il perfezionamento del vecchio regime liberale ma la «rivoluzione del XX secolo». La sua scuola si era divisa in una destra e in una sinistra. Il più indocile dei suoi allievi, Ugo Spirito, (un personaggio «minore», ma non del tutto insignificante dei Quaderni) era approdato nel 1937 al «problematicismo», cioè a una filosofia che, non avendo più alcuna soluzione da offrire, aveva trovato una soluzione nell’affermare che «tutto è problema» (era uno dei tanti modi con cui si veniva manifestando la «filosofia della crisi»). Croce era rimasto all’altezza del compito, che si era assunto sin dal 1925 promuovendo il Manifesto degli intellettuali antifascisti, di essere la voce dell’opposizione pubblica al fascismo: ma era un’opposizione, la sua, di natura morale e intellettuale più che politica. Anche i collaboratori che gli erano più vicini, come Omodeo o De Ruggiero, erano propensi a considerare la sua «filosofia della libertà» più una lezione di coraggio civile in tempi di oppressione che un programma per l’avvenire.
Culturalmente il fascismo era stato, negli ultimi dieci anni, da quando era riuscito a ottenere il conformismo di massa, assolutamente sterile: nonostante che l’affermazione circa l’inesistenza della cultura fascista sia stata spesso, dalla storiografia della giovane generazione, contestata, non mi è riuscito ancora di trovare qualcuno che mi abbia citato un libro «fascista» che valga la pena di essere riletto. Il che può spiegare perché, nonostante il fascismo e la propaganda a una sola direzione, gl’intellettuali della mia generazione siano riusciti a prender contatto, se pure in ritardo e in forme talora ingenue, con alcune delle correnti più vive del pensiero europeo, che la «dottrina fascista» o aveva rifiutato o più semplicemente ignorava.
Vorrei fare un solo esempio: sono usciti in questi giorni gli scritti postumi di Eugenio Colorni, ucciso a Roma dai fascisti a 34 anni, pochi giorni prima della liberazione della città (1944). Colorni era insieme un militante del partito socialista clandestino (fu arrestato nel ’38 e passò alcuni anni al confino) e uno studioso di filosofia (scrisse alcuni importanti saggi leibniziani per la cui pubblicazione era in trattative con l’editore Hermann di Parigi). Ritengo sia stato uno dei filosofi più intelligenti, più spregiudicati, e anche più distruttivi (in senso positivo) della mia generazione. Non appena uscito dall’adolescenza filosofica, che fu anche per lui crociana, nei suoi scritti della maturità, fra il ’35 e il ’40, non serba più traccia né di Croce né di Gentile. Le sue scoperte sono la psicanalisi e la filosofia della scienza (nell’ambito del neo-positivismo).
Chi legga questi saggi non può non restare sorpreso dalla loro maturità, dal loro spirito europeo, dalla loro totale estraneità alla cultura ufficiale, come se il fascismo non fosse mai esistito (eppure erano gli anni del suo apogeo). (Lo stesso discorso si potrebbe fare per un’altra delle filosofie che si propagarono rapidamente nel ventennio fra le due guerre, l’esistenzialismo: mi limito a ricordare che ancora oggi chi voglia leggere una delle più interessanti e vive discussioni a più voci sull’esistenzialismo, dovrà andarla a cercare non su qualche rivista filosofica, ma su una rivista fascista di cultura militante, «Primato» diretta da Giuseppe Bottai).
L’unica grande corrente del pensiero europeo cui la nuova generazione rimase quasi completamente estranea fu il marxismo: lo stesso Colorni, che pure si dichiara socialista rivoluzionario, sembra non essersi mai accorto di Marx. Solo quando usciranno i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci apprenderemo che il marxismo non solo non era morto ma aveva suscitato una delle più grandi opere filosofiche di quegli anni. Com’era giusto che accadesse in un regime carcerario come il fascismo, il marxismo era stato sotto il fascismo una filosofia del «sottosuolo». Si potrebbero anche ricordare il saggio Idealismo e marxismo di Rodolfo Morandi scritto nel carcere di Saluzzo e Marxismo e dialettica di Eugenio Curiel, scritto al confino di Ventotene: ma non credo che il futuro storico della fortuna del marxismo durante il fascismo possa fare molte altre scoperte.

Il fervore del dopoguerra

Caduta l’egemonia (o la protezione) dei due padri dell’idealismo, a liberazione avvenuta, fummo gettati improvvisamente nel mare aperto, ove si agitavano tutte le grandi correnti del pensiero contemporaneo europeo e americano, esistenzialismo e marxismo, neo-positivismo e prammatismo, tomismo e stalinismo, idealismo contro materialismo, la filosofia come concezione del mondo contro la filosofia come metodologia delle scienze, ecc. ecc. Furono gli anni di tutte le aperture e anche di tutte le confusioni (e non solo in Italia: in quegli anni Jean Paul Sartre, che fu il primo filosofo straniero che ebbe immediato successo in Italia, aveva elevato una filosofia della crisi, se non proprio della reazione, come l’esistenzialismo, a filosofia della rivoluzione). Per gl’intellettuali italiani furono anche gli anni dello sradicamento della tradizione culturale nazionale, se non altro per reazione al rozzo nazionalismo fascista, e, una volta staccati a forza dalla propria matrice storica, dei complessi d’inferiorità.
Si aveva l’impressione di essere rimasti indietro e che si dovesse fare ogni sforzo per recuperare nel più breve tempo possibile gli anni perduti. Vi fu grande fervore ma scarsa originalità. Ripetemmo da Est la lezione del materialismo dialettico, da Ovest quella del prammatismo e del neo-empirismo americani. Dalla Francia, la lezione dell’esistenzialismo umanistico, dalla Germania quella dell’esistenzialismo anti-umanistico (la Lettera sull’umanesimo di Heidegger è del 1947). Furono infine gli anni del provvisorio, dell’instabile, dell’effimero: nacquero dalla mattina alla sera almeno una ventina di riviste di cultura militante, che rappresentavano tutte le possibili varianti delle grandi ideologie politiche allora in conflitto, ma ebbero vita brevissima. Quasi tutte morirono appena nate di morte naturale, senza lasciare visibili tracce, salvo «Il Politecnico» di Vittorini, che fu l’unica morta non di morte naturale.
Bisogna aggiungere che rinacque anche il marxismo, venuto finalmente alla luce del sole, ma fu un marxismo di professori, anzi di professori di filosofia (di professori di filosofia, oltretutto, che diventarono marxisti partendo da molto lontano, attraverso una conversione filosofica, anche se motivata praticamente, quando oramai erano arrivati ben oltre l’età delle scoperte giovanili), un marxismo tutto di testa, tutto teoria e niente prassi, un marxismo di cui era difficile capire quale potesse essere l’esito pratico, quali conclusioni o direttive se ne potessero trarre per proporre una strategia politica piuttosto che un’altra.

La prima edizione dei Quaderni

Nell’anno cruciale per la direzione che prese poi la vita politica italiana (l’anno della sconfitta del Fronte popolare nelle elezioni del 18 aprile) uscì il primo volume dei Quaderni, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cui seguirono nel 1949 i tre volumi fondamentali, Gli intellettuali, Il Risorgimento e le Note sul Machiavelli. Oggi, con il senno di poi, possiamo dire che l’aver pubblicato le note dei quaderni del carcere non secondo l’ordine cronologico ma secondo l’ordine degli argomenti, fu un’operazione filologicamente forse non del tutto corretta ma di grande saggezza, perché permise di individuare subito e con spicco i grandi temi della riflessione gramsciana, anche se venivano lasciate in ombra le oscillazioni di pensiero che potevano essere avvenute fra il 1929 e il 1935: siccome poi queste oscillazioni ai primi riscontri non mi sembrano mai molti rilevanti, si deve concludere che quello che si perdette in precisione si guadagnò in evidenza, e non è stato probabilmente un cattivo scambio.
Erano temi centrali nel dibattito culturale e politico del nostro paese. Prima di tutto, una ripresa del materialismo storico come via maestra per uscire dall’idealismo, come filosofia o concezione del mondo che è insieme politica, cioè direzione verso una trasformazione radicale dei rapporti sociali. In secondo luogo, una risposta al problema in cui in quegli anni eravamo tutti coinvolti: chi sono gli intellettuali, qual è la loro funzione nella società, quali sono i loro connotati di classe? qual è la loro collocazione rispetto all’azione politica? stanno al di sopra della politica, o al di sotto (senza accorgersene)? oppure, ancora più in generale, qual è la loro missione storica? In terzo luogo, una critica storica del nostro passato, della parte del nostro passato che aveva costituito la premesse immediata del nostro presente; del modo cioè come era avvenuta l’unificazione nazionale e le sue conseguenze. (Non si dimentichi che, se pure per motivi celebrativi più che d’interpretazione storica, la Resistenza fu chiamata ufficialmente il secondo Risorgimento: ma perché un secondo Risorgimento se ce n’era già stato uno? dunque il primo non era bastato? e perché non era bastato?). In quarto luogo, attraverso lo studio del Machiavelli, Gramsci offriva una serie di riflessioni originali (forse la parte più originale della sua opera, come da più parti, credo a ragione, si va sostenendo) sul problema dello stato, su un problema che la tradizione marxistica aveva generalmente sottovalutato, o che per lo meno non aveva approfondito, considerandolo un problema del «dopo», affermando, come del resto aveva più volte affermato Gramsci nel vivo della lotta politica, che lo stato socialista sarebbe stato uno stato radicalmente nuovo, ma dando risposte vaghe e spesso contraddittorie alla domanda in che cosa consistessero queste novità.
Superfluo aggiungere che il problema della costruzione dello stato, del «principato nuovo» come avrebbe detto Machiavelli, era il problema di fondo cui ci eravamo trovati di fronte in quegli anni. Non si poteva immaginare, dunque, quattro temi più essenziali nel dibattito culturale e politico degli anni della «ricostruzione», oltretutto strettamente collegati fra loro: la critica filosofica portava direttamente alla discussione sul ruolo degli intellettuali, il problema del ruolo degli intellettuali era strettamente connesso col problema dello stato, una volta inteso lo stato come insieme di egemonia e dominio; la critica filosofica e la critica politica, d’altro canto, offrivano criteri per dare un giudizio sulla storia passata e preparare la lotta del presente (si ricordi che una rubrica dei Quaderni è intitolata Passato e presente).

Il marxismo di Gramsci

Il marxismo di Gramsci non era il marxismo dei professori, forse per la prima volta in Italia. Anche Antonio Labriola e Rodolfo Mondolfo erano, non sarà inutile ricordarlo, dei professori di università; Gramsci aveva abbandonato gli studi universitari per la lotta politica, ed era stato uno dei fondatori del Partito comunista italiano. Era un marxismo che non si cimentava solamente con problemi filosofici tradizionali, come quelli che dalla prima disputa intorno al marxismo teorico in Italia, alla fine del secolo, in poi erano stati particolarmente cari ai filosofi: se il marxismo fosse una filosofia della storia o una metodologia, una concezione del mondo o una scienza sociale ecc. Era un marxismo che si metteva alla prova con problemi reali del nostro tempo: Gramsci era marxista nel senso che prolungava l’opera che Marx aveva svolto con particolare riguardo alla critica dell’economia politica verso la critica della politica.
Leggendo Gramsci, ci si rendeva conto che era molto più importante che cosa diceva che non come lo diceva (cioè con quale metodo): e anche sotto quale «etichetta» li si potesse collocare. In secondo luogo, era un marxismo non scolastico, non dommatico né esegetico: non scolastico, perché non ripeteva formule ma studiava problemi reali, se pure alla luce di quello che aveva appreso da Marx, da Engels, e da Lenin; non dommatico, perché non credeva di poter risolvere i problemi reali citando Marx, ma studiando la storia e facendo tesoro di quello che hanno detto autori diversi da Marx, e non marxisti (come del resto aveva fatto Marx, con la differenza che Marx, per fare la critica dell’economia politica, si era studiato i classici dell’economia, Gramsci per fare la critica della politica si studiò il classico della politica per eccellenza, Machiavelli); non esegetico, perché le rare volte che introduce nel suo discorso una citazione di Marx o di Lenin non è assillato dal falso problema dell’interpretazione genuina di Marx, che tormenta tanti marxologi di oggi, come se il marxismo fosse un’idea platonica e non un prodotto storico, e solo quello corrispondente all’idea fosse il «vero Marx, che soli pochi veggenti sono in grado di vedere.
A questo proposito, si potrebbero fare alcune considerazioni sulla terminologia gramsciana, che non ha nulla del gergo marxista, o marxologico. Mi limito a prendere un esempio, su cui mi pare i critici non abbiano ancora richiamato l’attenzione e che dovrebbe avere un particolare interesse per un lettore non italiano: «stato etico». Si tratta di un’espressione che non è familiare a uno studioso francese, com’era invece familiare a uno studioso italiano di quegli anni: ancora nella traduzione francese della Philosophie des Rechts di Hegel, che se non sbaglio è del 1940, il traduttore Andrè Kaan non osò tradurre «Sittlichkeit» con «éthicité» (termine oggi d’uso comune), e adottò l’espressione piuttosto ingombrante «moralité objective». Al contrario, in Italia, sulla questione se lo stato fosse o non fosse «etico», si versarono fiumi d’inchiostro. In realtà l’espressione non era, come si andava ripetendo, e ripete Gramsci, di Hegel, ma dell’hegelismo napoletano, di cui uno dei testi fondamentali era quell’utile riassunto della filosofia del diritto di Hegel che Bertrando Spaventa aveva pubblicato nel 1869 e Gentile ristampato con una introduzione nel 1904 (lo ricordo perché Gramsci lo cita). Gramsci peraltro riprende l’espressione certamente da Croce, che l’aveva adoperata in Politica in nuce (1924), con un’accentuazione diversa da quella dei gentiliani: ne è prova il fatto che usa l’espressione «stato etico e di cultura» (e non soltanto «stato etico») che era stata usata da Croce, il quale l’aveva derivata, non da Bertrando, ma da Silvio Spaventa. Ma pur riprendendo l’espressione da Croce, la interpreta liberamente, attribuendole un senso che non è più quello crociano e neppure quello hegeliano o dei neo-hegeliani sino a Gentile.
Per Gramsci il dire che lo stato è etico significa che lo stato, oltre alla funzione repressiva che tutti gli riconoscono, ha anche la funzione educatrice, quella cioè «di elevare la grande massa della popolazione a un determinato livello culturale e morale, livello che corrisponde alle necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agl’interessi delle classi dominanti» (1049). Ma se questo è il significato di «stato etico», ne segue che il vero stato etico, cioè lo stato che avendo portato a compimento la sua funzione educatrice non ha più bisogno di ricorre al potere coercitivo, coincide con la fine stessa dello stato, nel senso tradizionale della parola, cioè con la «società regolata» (vedi 1050). Come si vede, Gramsci si serve di un’espressione dei suoi avversari, di un’espressione non marxiana, per designare un concetto tipico della filosofia politica marxistica, e lo fa capovolgendone letteralmente il senso, cioè interpretandola non come forma sublimata dello stato, ma come la negazione o la fine dello stato.

Il legame con la cultura nazionale

Un ultimo punto su cui credo valga la pena di soffermarsi, in questa ricerca dei motivi dell’importanza centrale che ebbe la prima edizione dei Quaderni di Gramsci, è quello del suo carattere nazionale. Ho detto che la cultura italiana, nel momento in cui, caduto il fascismo e finita la guerra, prese contatto con la cultura europea da cui era stata tenuta lontana per tanti anni, smarrì il senso delle proprie tradizioni, della propria identità, per diventare passivamente cosmopolitica: fu esistenzialista con l’esistenzialismo, fenomenologica con la fenomenologia, neo-positivista col neo-positivismo, marxista col marxismo. Nel più fortunato dei casi fu eclettica, cioè insieme esistenzialista e marxista, o marxista e neo-positivista, o fenomenologica e marxista ecc. Il pensiero di Gramsci, quale emergeva dalle riflessioni del carcere era un pensiero originale – nel senso che non era né esistenzialista né prammatista, né idealista né materialista (volgare) – ma era strettamente intrecciato con la nostra storia e sarebbe stato inconcepibile staccato dalla storia del formarsi culturale e politica della nazione italiana.
Circolava in quelle pagine un’aria che ci era familiare. Non era solo una questione di stile, di linguaggio, di punti di riferimento storici, che erano Machiavelli e non, poniamo, Hobbes, Rousseau, Croce, e non Bergson o Husserl. Non si trattava soltanto dell’humus culturale, o della qualità e sostanza dei problemi considerati. Si trattava del fatto che il campo delle riflessioni gramsciane era soprattutto la storia d’Italia, onde egli si era posto in una grande tradizione che contava Machiavelli e Guicciardini, Vincenzo Cuoco e Gioberti, Cattaneo (e il suo studio sulla «città italiana») e infine Benedetto Croce che, passato all’opposizione, aveva sentito il bisogno di scrivere anche lui la «sua» storia d’Italia. Gran parte delle categorie generali che Gramsci venne elaborando, e che costituiscono la trama di una vera e propria teoria della politica (qualche cosa di ben più articolato e insieme di più organico della «politica in nuce» di Croce, e di meno approssimativo degli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca, che non tiene in alcun conto) sono state costruite partendo dai casi e dalle vicende della storia italiana. Chiunque abbia una qualche familiarità con i suoi scritti sa quale importanza abbia avuto la riflessione sulla storia del Rinascimento per lo studio del problema degl’intellettuali, o quella sul Risorgimento per la definizione del concetto di blocco storico e di egemonia, o quella sulla storia del movimento operaio italiano per la formulazione della distinzione fra il momento economico-corporativo e il momento etico-politico, o quella sull’avvento del fascismo per la formulazione della distinzione fra guerra di movimento e guerra di posizione.
Solo la teoria del partito nuovo nasce al di fuori delle riflessioni sulle cose d’Italia: eppure, anche in questo caso, Gramsci cerca un’illuminazione, che può sembrare sorprendente, nella storia d’Italia. Questa illuminazione egli la trova, com’è noto, nel Machiavelli: il partito nuovo è il «moderno principe»; qual era stato infatti il proposito di Machiavelli, se non quello di trattare «come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato»? Così facendo, Gramsci mette a nudo un aspetto del pensiero di Machiavelli che nel dibattito sull’«autonomia della politica» era stato lasciato in ombra: sino a Machiavelli la filosofia politica si era occupata del modo con cui il potere è o deve essere esercitato.
Per la prima volta Machiavelli si era posto il problema di come lo si conquista, che era poi per l’appunto il problema del «principato nuovo»: lo stesso problema, mutati i tempi e le circostanze, del partito rivoluzionario.
Infine, non sarà mai sottolineato abbastanza che per dare un nome filosofico alla filosofia della prassi Gramsci si serve di una categoria che meglio di ogni altra connotava e contraddistingueva la tradizione filosofica italiana: storicismo, anzi storicismo assoluto. So bene che, parlando di «storicismo» a proposito di un marxista, tocco, specie di fronte a un pubblico francese, un punto dolente. Vorrei solo non si dimenticasse, come ho avuto occasione di dire altrove, quale enorme carica polemica avesse ancora, nel contesto della tradizione culturale italiana, il concetto di storicismo (vorrei non lo si dimenticasse, perché ritengo che il significato di queste generalissime categorie filosofiche è quasi sempre più in quel che negano che in quel che affermano). Tanto per entrare nel cuore del problema, in una tradizione culturale dominata dalle filosofie della trascendenza, dichiarare il proprio storicismo voleva dire affermare che la storia non è condotta da una mano invisibile che sta al di fuori della storia e per comprenderne il corso non occorre scrutare oscuri disegni di una potenza inaccessibile o accessibile soltanto a interpreti autorizzati, e la sua trasformazione non è nelle mani di Dio e dello Spirto (che è un surrogato di Dio): proprio quello che voleva dire Gramsci, non una intenzione di più e non un’intenzione di meno, parlando di «terrestrità» di «mondanizzazione», di «umanesimo assoluto della storia» (1497). Se pur vi erano stati altri storicismi (e Gramsci lo sapeva benissimo), dicendo che la filosofia della prassi era storicismo assoluto voleva dire che con la filosofia della prassi era stato eliminato anche l’ultimo residuo di trascendenza (ancora un significato polemico).
Non vorrei concludere senza esprimere il dubbio che il carattere nazionale del pensiero di Gramsci abbia avuto sotto certi aspetti una funzione restrittiva, contribuendo a far risorgere in chi l’avrebbe letto dommaticamente un atteggiamento di chiusura rispetto ad altre correnti di pensiero e ad altri marxismi, e talora anche una nuova tentazione di «primato», da cui le vicende della nostra storia recente credevamo ci avessero liberato per sempre. Ma il migliore antidoto a questo modo di leggere Gramsci ci viene dalla scoperta che si è ormai fatta da tempo e continua a farsi, in modo per noi sempre più sorprendente, della forza e della vitalità del suo pensiero in paesi diversi dall’Italia: la scoperta che l’opera di Gramsci è un patrimonio comune.


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